Nell’epoca delle passioni tristi gli squilli di rivolta che si registrano quasi quotidianamente sono simili ai picchi di febbre sul termometro della convivenza civile. Miguel Benasayag e Gérard Schmit hanno l’indubbio merito di aver recuperato, con il loro saggio apparso in Italia nel 2007, il lemma teoretico di Baruch Spinoza per provare ad accedere al tempo segnato dal senso dell’impotenza e dell’incertezza che fa vivere il mondo come una minaccia da cui se possibile difendersi. L’autore dell’Ethica more geometrico demonstrata, quasi cinque secoli prima, aveva utilizzato un termine proprio di Galileo Galileo per dire della forza del desiderio, che abita l’essere umano: più della razionalità, è il conatus che lo muove e rappresenta il potere di esistere facendo i conti con le insidie dell’odio, della gelosia, dell’iracondia, di quelle passioni che lo deprimono e precludono la via verso la gioia. Quindi sono tristi.
Le passioni, pur curvate e incrinate, continuano comunque a esistere e possono elaborare la minaccia della tristezza deprimente, lavorarci e ribaltarla. Non con la filosofia, che non basterebbe: ma con la politica, unico dispositivo capace di assumere decisioni che portino a una riduzione dell’incertezza. Se il tratto costitutivo e fondante della politica è nel conflitto, cioè nel confronto e nella competizione tra proposte e progetti anche alternativi di gestione del potere, allora lo spazio dove la rivolta deve esercitare i suoi conati galileiani è la realtà. Qui i segnali del disagio e del malessere che si manifestano con la febbre sono accolti, diagnosticati, compresi.
È questo il punto di approdo – e per tanti versi di ri-partenza – individuato da Roberto Esposito nel suo ultimo lavoro Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione (Einaudi, pagg. 168). Si tratta dell’esito di un lungo percorso di riflessione sulle questioni della politica, dell’impolitica, della communitas, del bios, dell’immunitas che scandiscono una approfondita ontologia del vivere insieme. Ora, Esposito afferma che «la bipolarità tra ordine e conflitto rappresenta il nodo su cui più di ogni altro si misura l’attualità di un pensiero istituente all’altezza dei tempi». Perché – aggiunge – «considerata a lungo un apparato neutralizzante, l’istituzione non solo non esclude la dinamica conflittuale, ma ne costituisce allo stesso tempo il luogo e l’oggetto. Gli uomini confliggono nelle e per le istituzioni – esse stesse potenzialmente in conflitti tra loro. Mai come nel nostro tempo la dinamica istituente diventa il cuore della prassi politica. Il cui ruolo è precisamente quello di istituire la società, rivelandone il suo carattere originariamente conflittuale e così fornendole il potenziale innovativo di cui ha bisogno per riconoscersi e trasformarsi».
Insomma, Roberto Esposito in queste pagine indica che il pensiero radicale debba dirigersi da una dimensione destituente a una dove il rapporto tra vita e istituzioni sia prioritaria e qui collocare la sua energia. Passando per Spinoza ed Hegel, invita a tornare al Niccolò Machiavelli teorico dell’energia istituente. Spiega: «Machiavelli apre il pensiero istituente non solo perché lavora tutta la sua vita tra e per le istituzioni di Firenze, alla cui riforma costituzionale dedica i suoi ultimi testi. Ma anche perché sostiene, già a parte dal Principe, e in senso diverso anche nei Discorsi, il primato dell’istituente sull’istituito».
Questo è il punto nodale: «Le istituzioni si conservano se e fin quando non perdono il rapporto con la propria fonte – vale a dire con il potere costituente. Ciò chiama direttamente in causa l’altro, decisivo, elemento della teoria machiavelliana delle istituzioni. Che è il rapporto con il conflitto politico. Contro l’intera filosofia politica, precedente e successiva, Machiavelli rompe l’opposizione tradizionale tra ordine e conflitto, ponendo l’uno alla base dell’altro». E consegna una traccia per chi voglia ancora fare della politica uno strumento di cambiamento e di nuova istituzione delle architetture della convivenza.