«E apertamente dedicai il cuore alla terra grave e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d’amarla fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi. Così, m’avvinsi ad essa di un vincolo mortale», scrive Friedrich Hölderlin nella Morte di Empedocle, e Albert Camus sceglie di porre queste parole in capo al suo L’Homme révolté.
Il no della rivolta, dice Camus, è allo stesso tempo un sì più profondo, per quanto a volte meno distinto; contiene, quanto meno, la consapevolezza di qualche cosa per cui “vale la pena di…”, di qualche cosa che richiede attenzione.
Ad animare la rivolta non sono i tanti piccoli “no” rumorosi che cercano di inceppare la macchina del mondo, ma piuttosto un “sì” deciso, forse assai più inappariscente, che permette di rivolgere lo sguardo altrove, più lontano, verso il presente.
Forse il rischio maggiore cui si espone la rivolta consiste appunto nel momento in cui – dai tanti piccoli no che valgono a rivelare il ridicolo e la violenza dell’imposizione esterna cui si sottrae – essa transita verso quel sì che richiede attenzione. Forse allora la rivolta si decompone seguendo due immagini che sono entrambe vere, se prese insieme, ma che diventano false quando si muove verso di esse in modo esclusivo. La rivolta sa che ciò che vuole sta più in alto, più lontano, più in profondità; ma intuisce per altro verso che ciò che vuole sta a portata di mano, negato solo da quell’impedimento dello sguardo che è ciò contro cui la rivolta dice in ultima analisi il suo no.
Quando segue il primo, la rivolta diventa astratta, rende la terra inabitabile e trasforma il cielo in una macchina assurda, forse nella copia contraffatta di quella stessa macchina del mondo contro cui anzitutto si è rivoltata; quando segue il secondo, il suo sì rischia di limitarsi a raccattare per strada una immagine che si consuma in fretta, un boccone dolciastro che non placa la fame e la sete della rivolta.
Poi a volte ci si ricorda che la rivolta è un rivolgimento dello sguardo, che la rivolta è il gesto di chi improvvisamente e all’apparenza senza alcuna ragione smette di andare in una direzione e appunto si rivolge “indietro”, ripercorre in senso inverso il tratto di strada prima attraversato con una inconsapevolezza quasi da sonnambulo. Ricorda Walter Benjamin che nella rivoluzione francese del 1830 avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri.
Interrompendo il corso del tempo, la rivolta non aspira tanto a un futuro diverso, quanto piuttosto muove verso il presente, riconosce che ciò da cui soprattutto l’uomo è stato tenuto lontano è appunto il presente. Rivolgendosi in senso contrario, l’uomo che si rivolta restituisce al giorno la sua vera immagine di presente che getta un ponte sul tempo (Viktor von Weizsäcker), stringe nell’alleanza e nell’attesa il passato e il futuro e senz’altro finalmente lascia che “i morti seppelliscano i morti”.
Quando un bambino nasce, dice Inger Christensen, tutti cominciano a occuparsi dei molti modi in cui egli potrà “realizzare se stesso”, del posto che potrà occupare in società, del modo in cui potrà “distinguersi” e dell’addestramento a ciò richiesto. Ma forse prima di tutto questo c’è un senso del mondo che è già qui, forse ci accompagna un riconoscimento intero e indivisibile, una disposizione per il mondo.
Nel momento in cui apriamo gli occhi, dice Christensen, il mondo è presente in tutta la sua realtà. Proprio questo riconoscimento intero e indivisibile è l’utopia che ci accompagna e che tutti gli sforzi di “realizzazione” che ci vengono imposti fanno perdere di vista. Forse la rivolta è la memoria utopica di questo presente.