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Il resto di niente. Attualità della rivoluzione napoletana del 1799

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Forse un giorno gioverà ricordare anche queste cose

Eleonora Pimentel Fonseca

Le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale

Gaetano Filangieri

Niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; 

sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria (…) 

È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità 

senza far quella degli altri

Antonio Genovesi

È obbligato ogni uomo d’illuminare e d’istruire gli altri

Francesco Mario Pagano

Soccorrere la languente umanità, sollevarla nelle sue miserie, 

e diventare l’immediato istrumento dell’altrui felicità, 

è stato sempre per me il massimo di tutt’i piaceri. 

Domenico Cirillo

Bisogna, a mio credere, principiare dall’essere 

pria che ci occupiamo del bene essere

Gennaro Serra di Cassano



Siam liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiam pronunciare i sacri nomi di libertà e di uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a’ popoli liberi d’Italia, e d’Europa, come loro degni confratelli”. Così scriveva il 2 febbraio del 1799 Eleonora Pimentel Fonseca sul primo numero del quotidiano Il Monitore Napoletano, da lei fondato e diretto, celebrando la nascita della Repubblica napoletana, avvenuta sul campo nella notte tra il 20 e 21 gennaio 1799. In quella data, anticipando di qualche giorno l’arrivo a Napoli del generale Jean Etienne Championnet, con il suo esercito, inviato dal governo francese, i patrioti repubblicani entrarono in Castel Sant’Elmo spodestando il re Ferdinando IV di Borbone (fuggito da tempo in Sicilia) e proclamando la Repubblica napoletana “una e indivisibile”. Nei giorni successivi, terminata la resistenza dei Lazzari – i popolani che impauriti dall’arrivo dei francesi, cui non aveva giovato la propaganda clericale che accompagnava la loro reputazione, e abituati al paternalismo dei Borbone, si erano opposti strenuamente all’avvento dei giacobini – Championnet emanò il decreto per la formazione del Governo Provvisorio, il cui primo atto fu la soppressione di tutti i titoli nobiliari in vista del superamento definitivo della feudalità.

Per una società di eguali e liberi: grandezza dell’illuminismo napoletano

Dopo una gestazione durata quasi un decennio, sulla scia della scossa prodotta dalla Rivoluzione Francese, nacquero anche in Italia alcune repubbliche: la Cispadana, la Cisalpina e la Romana, infine quella Napoletana, opera e frutto del generoso, appassionato e competente impegno civile e politico di giovani e valenti intellettuali di idee repubblicane, eredi della grande tradizione illuminista napoletana che ha avuto padri nobilissimi quali Pietro Giannone, Gian Battista Vico, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, e in Italia epigoni quali Cesare Beccaria e i fratelli Verri. “In realtà – scrive Anna Maria Rao, storica – i governi repubblicani portavano a compimento decenni di riflessione e progettazione politiche sui fondamenti da dare alla società e allo Stato. Sia pure nei limiti della loro epoca, che escludeva donne e poveri dal diritto di cittadinanza, si affermava anche a Napoli una società di uguali davanti alla legge e la politica cessava, per diritto e non solo di fatto, di essere il monopolio arcano di un sovrano e della sua volontà arbitraria, da gestire nel segreto di una corte” [A. Rao, La Repubblica Napoletana del 1799, Tascabili Economici Newton, 1997].

Purtroppo, per una serie di ragioni tra le quali l’ostilità di un popolo largamente analfabeta, disabituato alla libertà e alla democrazia, gravato di problemi sociali non risolvibili nel breve periodo, le condizioni economico-finanziarie gravi ereditate dai Borbone, e infine l’abbandono dell’esercito francese richiamato in patria che lasciò la repubblica indifesa militarmente, la rivoluzione napoletana si esaurì nell’arco di sei mesi. Nel giugno del ’99, l’esercito della Santa Fede, messo in piedi dal cardinale Ruffo d’accordo con i Borbone, al grido “morte ai giacobini” riuscì a sconfiggere la resistenza dei patrioti repubblicani che si rifugiarono in Sant’Elmo. Il cardinale Ruffo con un accordo scritto di capitolazione si impegnò a non uccidere i prigionieri e a consentire loro l’esilio in Francia. Tuttavia la ferocia di Ferdinando IV e soprattutto della moglie Maria Carolina, intenta a vendicare la sorella Maria Antonietta, decapitata in Francia con il marito Luigi XVI nel 1789, incuranti dell’accordo mandarono a morte i patrioti repubblicani in piazza del Mercato: al patibolo quelli con origini nobili, alla forca gli altri.

Gaetano Filangieri, il “diritto alla felicità” e il costituzionalismo moderno

La storia della Repubblica Napoletana, ma soprattutto il pensiero filosofico, giuridico e politico che l’ha ispirata, è paradossalmente poco nota nel nostro paese, se si tiene conto che essa ha alimentato significativamente le radici della tradizione democratica moderna, e il migliore costituzionalismo europeo, arrivando anche oltre oceano, negli Stati Uniti. Nella Dichiarazione di Indipendenza e quindi nella Costituzione confederale americana, scritta nel 1787, compare quel “diritto alla felicità” proposto da Gaetano Filangieri nella sua immensa opera “Scienza della legislazione” – un testo che ha visto molte ristampe e traduzioni in diverse lingue – e che generò un fitto scambio epistolare tra lo stesso Filangieri e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Benjamin Franklin, che si convinse ad inserire il “diritto alla felicità” nella carta costituzionale americana in luogo del diritto alla proprietà. “Le buone leggi sono l’unico sostegno per la felicità nazionale” scriveva Gaetano Filangieri alludendo non certo alla dimensione privata, ma alla felicità pubblica, condivisa, intesa come esito atteso di una politica e di un governo improntati alla giustizia e all’uguaglianza, con il fine della realizzazione di un benessere individuale e collettivo. 

Eppure il pensiero giuridico e filosofico di Gaetano Filangieri non ha avuto il riconoscimento che avrebbe meritato. Nella storiografia italiana, infatti, come ha sottolineato lucidamente lo storico Vincenzo Ferrone, a partire dagli scritti di Benedetto Croce, egli è stato messo in secondo piano rispetto alle idee e al processo politico italiano che hanno condotto al Risorgimento, se non addirittura, ignorato dalla storiografia marxista, che invece dell’illuminismo napoletano ha posto il Triennio giacobino francese come base della nostra tradizione democratica. Ciò confermerebbe peraltro l’accusa mossa da Vincenzo Cuoco, critico con i suoi compagni patrioti, di una scarsa autonomia e perciò di una sovrapposizione tra il dettato della Costituzione napoletana del ’99 e il costituzionalismo francese di quel tempo. 

Ad un’analisi approfondita questa lettura ne esce tuttavia ridimensionata, in quanto le distanze tra  il pensiero di Filangieri, portato avanti nel Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana dal suo allievo e seguace Francesco Mario Pagano e il pensiero rivoluzionario francese erano alquanto profonde. Si tratta, infatti, facendo riferimento all’illuminismo napoletano, a Filangieri e a Pagano di un pensiero “che veniva da lontano e fondato essenzialmente sulle suggestioni del diritto naturale e, in particolare, sulla centralità indiscussa dei diritti dell’uomo e sulla necessità, sempre più avvertita, d’intervenire nel potenziale conflitto tra i principi costituzionali e quelli di sovranità della nazione. Cominciava infatti a delinearsi quella radicale contrapposizione, che avrebbe segnato tutto il secolo XIX e gran parte di quello successivo, tra una concezione illuministica e trascendentale del diritto, che poneva i diritti dell’uomo al di sopra della storia, e la concezione storicistica, romantica e immanente che legava invece il diritto alla storia, al contesto, e quindi, direttamente, senza mediazioni, alla sovranità legislativa dei popoli e delle nazioni”[V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Editori Laterza, 2008]. 

In quest’ottica conflittuale si possono cogliere le differenti vedute ad esempio sulla sovranità popolare e sulla democrazia rappresentativa in palese contrasto con la democrazia diretta e plebiscitaria e con la volontà generale di Rousseau. Così come l’idea di inserire nel Progetto della Costituzione napoletana l’istituto dell’Eforato (assente nella costituzione giacobina francese) per “rappresentare al corpo legislativo l’abrogazione di quelle leggi che sono opposte ai principi della costituzione”, ossia, secondo le parole di Francesco Mario Pagano “quel salutare timore che dobbiamo noi avere del dispotismo e di ogni potere arbitrario”. In questa direzione va anche l’introduzione, sulla scia del pensiero di John Locke, del “diritto d’insurrezione” o di resistenza contro gli atti arbitrari del governo e delle istituzioni repubblicane, diritto previsto nelle costituzioni francesi del 1789, del 1793, ma assente nella versione termidoriana del 1795.

Da plebe a cittadini: diritti, doveri, educazione. Per l’esercizio della sovranità

La Costituzione della Repubblica napoletana, a causa degli eventi tragici che conclusero quella storia, non è mai diventata esecutiva; fu stampata il 1° Aprile del 1799 per essere discussa e approvata nel Comitato di legislazione presieduto da Francesco Mario Pagano. Rimane tuttavia un gioiello sul piano filosofico e giuridico, fin dalla premessa su cui lo stesso Pagano argomenta ricordando che se c’è in essa una chiara impronta “francese”, bisogna anche riflettere “che la diversità del carattere morale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situazione delle nazioni richiedono necessariamente dei cangiamenti nelle Costituzioni…..” [Progetto di costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, a cura di F. Morelli e A. Trampus, Venezia, Centro di studi sull’Illuminismo europeo “G. Stiffoni”, 2008.]

Più di un tratto del testo costituzionale scritto da Pagano porta con sè i segni di una forte innovazione, mirando non solo a disegnare l’orizzonte filosofico e giuridico delle norme ma anche ad offrire degli strumenti legislativi per orientare i cittadini, nella consapevolezza del lavoro “pedagogico” necessario per dare radici solide alla democrazia. Per questa ragione oltre ai diritti dell’uomo, del cittadino, del popolo, il Progetto costituzionale prevedeva anche i doveri, nella prospettiva mutuata dal pensiero di Antonio Genovesi della reciprocità. “I doveri dell’uomo sono obbligazioni, o sia necessità morali, che nascono dalla forza morale di un principio di ragione. Questo è il medesimo che quello donde abbiamo derivati i diritti vale a dire la somiglianza e l’eguaglianza tra gli uomini (…). Il fondamentale dovere dell’uomo è di rispettare i diritti degli altri. L’uguaglianza importa che tanto valgono i nostri quanto di diritti degli altri. [Progetto di costituzione della Repubblica napoletana….op. cit]. Un’obbligazione reciproca, che fa di questa Costituzione un unicum, insieme ad altri aspetti, è anche quel dovere “d’illuminare e d’istruire gli altri”, un impegno civico che poteva così rendere l’istruzione un bene diffuso e a disposizione di tutti in un quadro generale dove l’istruzione “assurgeva al livello di una questione costituzionale di primaria importanza: fatta la Repubblica bisognava fare i repubblicani; ovvero formare cittadini dediti alla patria, amanti dell’uguaglianza, coscienti del bene comune” [A. Orefice, Eleonora Pimentel Fonseca. L’eroina della Repubblica napoletana del 1799, Salerno Editrice, 2019]. Come riteneva Filangieri, la democrazia funziona se un popolo è capace di praticare le virtù morali e civili, se da plebe diventa popolo, come amava dire Eleonora Pimentel Fonseca che addirittura intendeva usare il dialetto napoletano anche sul quotidiano che dirigeva affinchè il verbo repubblicano giungesse a tutti e ne elevasse lo spirito e il senso civico. La Pimentel temeva ciò che in realtà si è poi avverato, e cioè che larga parte del popolo non arrivasse a cogliere il processo messo in atto per accrescere l’emancipazione e la libertà delle persone con l’idea di farle stare meglio e farle vivere da cittadini. Ella lamentava che “una gran linea di separazione e forse maggiore disgiunge fra noi questa parte del Popolo, appunto perché non si ha con essa un linguaggio comune. Se ben si rimonti alla cagione de’ nostri ultimi mali, si vedranno derivati particolarmente da questa separazione; è il segreto d’ogni tirannia, e molto più lo fu della nostra, il fomentarla; il nostro segreto dev’esser quello di sollecitamente distruggerla: finchè dunque la plebe mercè lo stabilimento di una educazione Nazionale non si riduca a pensar come Popolo, conviene che il Popolo si pieghi a parlar come plebe. Quindi ogni buon cittadino, cui per la comunione del patrio linguaggio, si rende facile il parlare e ‘l mischiarsi fra lei, compie con ciò opera non solo utile, ma doverosa. [Il Monitore napoletano, numero 3, 9 febbraio 1799].

Era di una tale pregnanza nel disegno costituzionale il tema dell’educazione alle virtù repubblicane che nel Progetto scritto da Mario Pagano si affermava che il diritto di eleggere e di essere eletti a cariche pubbliche richiedesse un’adesione a determinate qualità morali. A tal proposito quindi non solo venivano istituiti i teatri pubblici e le sale d’istruzione allo spirito patriottico, e fatti circolare i catechismi repubblicani, ma veniva addirittura costituito il “Collegio dei censori” che sorvegliava sui costumi e i comportamenti del popolo. “Noi siam d’avviso – scriveva Mario Pagano – che i principi delle leggi tutte, e particolarmente di quelle che riguardano l’educazione convien che formino parte integrale della costituzione. Ella deve contenere i germi dell’intera legislazione e deve rassomigliare il tronco d’albero da cui sbocciano i rami che sono segnati nei suoi nodi”.

L’uguaglianza è un rapporto e i diritti sono facoltà

L’illuminismo napoletano  con i suoi grandi interpreti non riuscì purtroppo a dispiegare politicamente la sua forza riformatrice. Qualche influenza l’aveva avuta quando a Napoli governava Carlo di Borbone, poi diventato Carlo III di Spagna, uno dei sovrani più illuminati e riformatori. Con l’investitura del figlio Ferdinando IV, detto anche “re lazzarone”, vista la sua inclinazione demagogica a mostrarsi come “uno del popolo”, quella stagione si chiuse e i problemi derivanti dalle gravi condizioni nelle quali versava una buona parte della cittadinanza finirono per diventare una miccia esplosiva. Che alla fine portò paradossalmente alla distruzione di un esperimento politico nuovo, quello repubblicano nato proprio per migliorare le condizioni di vita e di benessere delle persone in carne e ossa e ampliare le opportunità di partecipazione popolare alla cosa pubblica anche attraverso la formazione di un’opinione pubblica. Da ciò emanò la liberta di stampa e quindi la nascita di molti giornali “giacobini”.

Il tempo di varare delle riforme fu insufficiente per il governo repubblicano napoletano, malgrado gli intenti e i progetti politici riformatori fossero radicali: superare la feudalità e imprimere una svolta sul piano dell’uguaglianza dei cittadini non solo davanti alla legge ma nelle opportunità di vita. Un concetto di uguaglianza che discende da quello di giustizia, e – come scriveva Antonio Genovesi – dalla “similitudine di natura, e ciò che l’egualità dei diritti ingeniti in tutti gli uomini (…) Dunque in ogni paese dove si crede che gli uomini non sieno d’una medesima specie, ma che altri sieno uomini dei, altri uomini bestie, altri uomini, altri mezzuomini, non può regnare che l’ingiustizia” [A. Genovesi, Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto, a cura di F. Arata, Milano, 1973]. Già da allora qualcuno avvertiva il rischio che il mercato lasciato agire senza governo politico avrebbe creato ingiustizie e disuguaglianze. Antonio Genovesi si esprimeva fermamente su tali posizioni, come sottolinea Vincenzo Ferrone ricordando che le Lezioni di commercio “si aprivano con una impostazione metodologica che indicava come fine ultimo dell’intero sistema delle conoscenze dell’uomo e i suoi diritti, l’etica e i valori della moderna società civile, per poi passare alle questioni più specifiche della disciplina. Obiettivo dichiarato già nelle prime pagine: educare gli studenti a una concezione morale e razionalistica della ‘scienza politica dell’economia e del commercio ’ alla luce del rigoroso rispetto dei diritti dell’uomo”[V. Ferrone, La società giusta ed equa… Op. cit.]. Per Genovesi è il commercio – il mercato diremmo oggi – che deve servire allo Stato, e non viceversa: “il commercio siccome è parte dell’ordine pubblico e del corpo politico deve essere sottoposto alle leggi del tutto e servire all’ingrandimento e conservazione della civile società” [A. Genovesi, Delle lezioni di commercio, 2 Voll., Napoli, 1765].

La rivoluzione dal volto femminile: Eleonora Pimentel Fonseca

Cosa rimane di questa bellissima e tragica pagina di storia semisconosciuta ai più nel nostro paese? Chi volesse farsi un’idea più precisa può attingere in prima battuta a due fonti. Una è certamente l’Istituto Italiano di Studi filosofici [https://www.iisf.it/index.php] fondato nel 1983 dall’Avvocato Gerardo Marotta, che ha tenuto particolarmente viva la memoria della Repubblica napoletana attraverso eventi, studi e pubblicazioni particolarmente interessanti e autorevoli. L’altra fonte è

l’appassionate romanzo storico scritto nel 1986 dal compianto Enzo Striano dal titolo Il resto di niente, oggi rintracciabile nella Collana degli Oscar classici moderni di Mondadori. Un libro capolavoro – dal quale la regista Antonietta de Lillo ha tratto il film omonimo nel 2004 – che racconta la vicenda di Eleonora Pimentel Fonseca – Lenor – una donna di origini portoghesi, nata a Roma da genitori esuli, che poi si trasferirono con lei a Napoli, nel Regno delle due Sicilie. Attraverso il racconto della vita di Eleonora, giurista e donna appassionata di letteratura e poesia, si possono cogliere gli aspetti salienti e quotidiani, i dettagli intimi e pubblici di una storia di passione civile e politica emozionante. Oltre che un grande affresco della Napoli del ‘700, come scrisse commentando il libro Raffaele La Capria. Eleonora si distinse per il suo attivismo politico, organizzando in casa sua incontri clandestini con altri patrioti e nell’azione di cospirazione contro il re. Per questa ragione subì anche il carcere dal quale usci nel gennaio 1799 nel corso di una sommossa. Con la nascita della Repubblica napoletana assunse l’incarico di direttrice e redattrice del quotidiano Il Monitore Napolitano. Nel giugno del 1799 fu arrestata insieme agli altri patrioti – chiamati giacobini per disprezzo dai Borbone e dai Lazzari – e condannata a morte. Come ricorda la storica Antonella Orefice nel volume da lei dedicato alla Pimentel Fonseca, le sue ultime ore furono drammatiche ma affrontate con grande dignità: “era consapevole che l’attendeva un trapasso orribile: il suo titolo nobiliare di marchesa non le aveva risparmiato l’umiliante forca. Il re le aveva negato la morte per decapitazione, condannandola al cappio come una volgare malfattrice. Doveva soffrire la peggiore infamia e i peggiori spasmi, uno per ogni lesa maestà, fino a lasciare l’esile cadavere al vilipendio della plebe (…). Quel popolo che lei voleva educare, incivilire, curare, era lì fremente, pronto a esultare al suo ultimo respiro (…). Poi fu un attimo infinito, un singulto sospeso, prima di scaraventarla brutalmente nel vuoto. ‘Viva o re!’. Giustizia era fatta: il tirapiedi si affrettò a stroncare gli ultimi tremori di vita e un boato di gioia rimbombò per ogni quartiere” [A. Orefice, Eleonora Pimentel Fonseca…op. cit.].

Andando incontro alla morte, salendo sul patibolo, Eleonora volle lasciare un messaggio importante, incoraggiandoci a non abbandonare la nostra memoria collettiva, citando i versi di Enea che dava coraggio ai suo compagni, versi tratti dall’Eneide di Virgilio:  “forsan et haec olim meminisse iuvabit”: “forse un giorno gioverà ricordare anche queste cose”.

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