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Quel che ci lascia Don Milani

Autore

Cesare Moreno
Cesare Moreno, maestro elementare e presidente dell’associazione Maestri di Strada onlus. È stato tra i fondatori del progetto Chance (1998- 2009) per il recupero dei dispersi della scuola, e dell’associazione Maestri di strada che presiede dal 2006. Dal 2010 progetta e organizza progetti territoriali complessi – in contesti di emarginazione – per la promozione della cittadinanza giovanile attraverso l’educazione.

Sono stato chiamato più volte a ricordare Don Milani: nel 2012 in occasione della presentazione di Non so se don Lorenzo di Adele Corradi, professoressa e sua collaboratrice, nel 2017 per la presentazione del libro di Vanessa Roghi La lettera sovversiva e in varie altre occasioni tra cui la Marcia di Barbiana.  Gli appunti che presento provengono da quelle occasioni ed ho preferito lasciarli  in quella forma perché il contesto, nel parlare di Don Milani, è importante quanto e più del testo.

Tra marce e passeggiate – Barbiana 27 maggio 2017 

Sono salito a Barbiana. Quasi un’ora di salita piuttosto ripida nell’ultimo tratto. Ero in compagnia di Marco con cui ci siamo scambiati molte idee su ‘don Milani oggi’. Marco Bontempi è il presidente del consiglio d’amministrazione dell’Istituzione don Milani del comune di Vicchio (ora credo che sia una fondazione) ed è un ricercatore sociale all’Università di Firenze. 

Mentre salivo per quella strada, la stessa che Don Milani ha percorso la prima volta nell’ottobre 1954 sotto una pioggia battente, pensavo ad una strada molto simile che percorrevo insieme a mia madre nel 1952 per raggiungere la frazione “Campagnano” di Ischia dove lei insegnava, ed io ero allievo della sua “pluriclasse” ed insieme il baby sitter di mio fratello, perché eravamo in trasferta solo noi tre. Pensavo a quando, allontanati dal porto,  ci sorprendeva la pioggia e senza poterci riparare in alcun modo arrivavamo al paese – in tutto una decina di case – zuppi d’acqua.

C’ero già stato a Barbiana arrivando in auto a qualche centinaio di metri, ma arrivarci a piedi fa apprezzare meglio il significato di queste tre case isolate e di quelli che, stando in questo luogo isolato, hanno abbracciato  col loro pensiero e la loro scrittura l’intero mondo del tempo. È da questa percezione fisica dell’isolamento, della lontananza da mezzi e strutture  della grande città che si coglie al meglio la potenza del lavoro educativo, del riuscire ad evadere dalla propria condizione pur restando esattamente nel luogo che il destino ci ha assegnato. 

Visitando Barbiana ho avuto la certezza che le ‘visioni’ che ho avuto in quei due anni della mia infanzia – vedere la geografia del golfo di Napoli dalla cima del monte Epomeo, la vita solitaria con la sola compagnia del  cane “Tripolino”, una capra  e la fossa dei conigli – abbia avuto una influenza decisiva sul mio carattere e penso pure a mia madre maestra che faceva la scrittura collettiva senza sapere di farla, che faceva una matematica molto avanzata ancora oggi, che usava la sala cinema ed il teatro della scuola come occasioni ordinarie, e le tante visite guidate che organizzava, e a come – tornati a Napoli – recuperava gli assenteisti usando me come una specie di cane da riporto (mi sguinzagliava nelle case mentre lei continuava a camminare, e poi la raggiungevo). Di maestre così ce ne erano tante, e tante ce ne sono oggi, e ci sono tante professoresse e professori di scuola media e di scuola superiore che lavorano nello stesso modo. Quali differenze con Don Milani? Solo e soltanto la mancata consapevolezza della loro forza pedagogica e politica. La difficoltà ad entrare nel discorso pubblico sulla scuola e a sostenerlo. Il discorso pubblico sulla scuola, allora come oggi, non è un discorso accogliente, si respira sempre un’atmosfera bellica  e di faida e la stessa Lettera a una professoressa viene usata come arma impropria tra i belligeranti. 

A Barbiana quel giorno c’erano 600 persone contate una ad una e forse almeno un centinaio non conteggiate. Ci siamo detti: «è una passeggiata più che una marcia» e strada facendo abbiamo riflettuto che il passaggio da un marcia ad una passeggiata – con un numero doppio di partecipanti rispetto all’anno precedente – segna il passaggio da una situazione in cui grandi organizzazioni e narrazioni diventano il contenitore  dei pensieri e delle iniziative dei singoli e dei gruppi ad una situazione in cui tutti ricercano – e cercano di realizzare – una narrazione in cui ci sia posto per le nuove generazioni e per coloro che se ne prendono cura. 

Il pensiero ed il lavoro di Don Milani costituiscono un vero continente in cui si trovano pensieri importanti su decisive questioni, ma quel giorno forse era necessario per tutti i presenti a Barbiana di andare via con un messaggio leggero da portare, anche se pesante da realizzare. 

Prenderò alcune parole: amore, responsabilità, parola, sovranità, come parole guida per intrecciare i pensieri che suscita il ricordo ed il lavoro di Lorenzo ed il lavoro che oggi conduco insieme ai Maestri di Strada

Il problema della scuola sono i ragazzi che perde?

Il problema della scuola sono i ragazzi che perde?  Per quanto siano ancora troppi i ragazzi che la scuola perde, questa è diventata una stanca litania che impedisce di guardare al problema complessivo dell’educazione. Oggi siamo nel pieno inverarsi di una profezia che era di don Milani e di tanti altri, per cui consumi, competizione, isolamento dominano anche il campo dell’educazione.

Don Milani aveva individuato nella vita borghese il grande nemico, ma oggi trovare un colpevole serve a poco quando non abbiamo un modo per riprendere contatto con le nuove generazioni che in modo diffuso ed aperto ci dicono che son stanche del mondo adulto così come è, e che hanno una sola colpa: quello di rivolgere contro se stessi la stanchezza da noi provocata. 

Per questo una lettura solo agiografica di don Milani non ci aiuta. Tra chi ha realizzato un’impresa educativa difficile con spirito profetico ed una perseveranza da santo e chi tenta oggi di realizzare un’impresa educativa complessa con metodo e riferendosi a persone di ‘media cultura ed umanità’, c’è una distanza enorme nelle dimensioni e nella complessità ma c’è un contatto diretto se guardiamo al modo di porsi del maestro nei confronti degli allievi – Don Milani stesso diceva – credo per difendersi da orde di pedagogisti armati delle proprie piccole certezze – che la sua scuola era possibile solo in una piccolo paese o in una famiglia. Noi, ci piaccia o no, operiamo nella complessità della metropoli globale e pur avendo cura dei dettagli e delle piccole comunità, dobbiamo ambire ad un paradigma pedagogico metropolitano piuttosto che chiuderci in piccole comunità. 

Per quello che ci riguarda di Don Milani non interessano le tecniche, che sono ottime ma simili a quelle di migliaia di docenti prima e dopo di lui. Ci interessa la sua pedagogia, il modo in cui sostiene i processi di crescita dei giovani cominciando dalla prima delle quattro parole chiave che ho scelto: l’amore.

La lezione dell’amore: autorità e desideri

Vicino alla morte ha detto «ho amato più voi che Lui».

La parola amore in modo così personale ed  umano compare solo qui, (altrove c’è l’amore per i poveri, per la legalità etc.) eppure l’amore è ciò che muove la pedagogia di Don Milani ed è l’anima di una educazione metropolitana, che geograficamente e socialmente è all’estremo opposto delle tre case di Barbiana.

L’amore “pedagogico” è impastato con i sogni, i desideri, ed è fatto di sguardi amorevoli reciproci. 

La mancanza d’amore è all’origine di ogni emarginazione: se le giovani persone non sono sognate e desiderate, si sentono non viste, si sviluppa quell’emarginazione interiore, quell’assenza di desideri e progetti che è la madre di ogni emarginazione.

L’emarginazione interiore impedisce di esprimere l’umano, di apprendere dall’esperienza e dalle relazioni. È il senso di inadeguatezza sociale e personale che impedisce di ospitare il bello, il vero, il bene. Per sentirsi adeguati occorre il riconoscimento amorevole che proviene da una autorità benevola. 

Il termine autorità ormai si associa molto di più ad autoritarismo che non ad autorevolezza, tuttavia etimologicamente e socialmente il termine autorità è collegato ad accrescere (in latino augere). L’autorità, prima quella paterna poi quella sociale, riconosce l’esistenza del giovane nello stesso momento in cui «lo sogna come oggi non è» e lo aiuta a crescere fino ad incontrare il  limite proprio.

Don Milani rivendica la sua autorità, il suo essere autore nel modo più radicale in molte occasioni: «I miei piccoli monaci che sopportano senza un lamento dodici ore quotidiane feriali e festive di insopportabile scuola non sono affatto eroi ma piuttosto dei piccoli svogliati scansafatiche che hanno valutato che sedici ore nel bosco a badare alle pecore sono peggio che dodici a Barbiana a prendere pedate da me. Ecco il grande segreto pedagogico del miracolo di Barbiana, ognuno vede che non ho merito alcuno e che il segreto di Barbiana non è esportabile».

A scuola i giovani dovrebbero incontrare siffatta autorità che sostiene la giovane persona a voler superare il limite, a educarsi, ossia uscire fuori dai confini. Si cresce quando affacciandosi sul limite si sogna e si intravede “in confuso” una stella che esercita il suo potere di attrazione – de sidera – e cresce il desiderio. Don Milani non cita mai il sogno o il desiderio ma di fatto anche la sua è una pedagogia del desiderio: «il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso […]».

Don Milani ha riunito in sé l’autorità di chi ti fa crescere ed uscire fuori da qualsiasi visione angusta del mondo usando fermezza e rigore per sostenere le giovani persone.

Nella Lettera ai Giudici questo stare sul confine viene espresso nel modo più chiaro:

«La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. 

È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)».

La domanda che resta a noi è se questo suo essere rappresentava l’aspetto caratteriale di un prete che era anche profeta oppure rappresenta l’unico modo di essere per chi voglia educare in una realtà complessa in cui troppe autorità si sono eclissate.

Chi vuole educare non solo deve andare oltre le barriere sociali ed economiche che continuano ad esserci, ma soprattutto deve abbattere barriere invisibili che impediscono di toccare il limite oltre il quale nasce il desiderio. 

Ognuno deve sentirsi responsabile di tutto

Leggo in parallelo tre autori che sull’educazione hanno detto cose a tutt’oggi decisive:

«Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. È il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’». (Don Milani)

«L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».  (Hannah Arendt)

«C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato». (Danilo Dolci)

Sentirsi responsabili di tutto (don Milani) significa sentirsi responsabili anche dell’assurdo ch’è nel mondo (Danilo Dolci) e al tempo stesso amarlo per amore dei nostri figli e per non lasciarli ‘in balia di se stessi’(Hannah Arendt). Don Milani ha costruito la sua esperienza in un tempo in cui era ancora forte la speranza di un cambiamento sociale radicale e chiedeva a tutti di sentirsi responsabili e di impegnarsi in quella direzione. Oggi noi siamo impegnati a ricostruire la speranza in un mondo in cui l’assurdo è troppo presente.
La parte più difficile dell’educazione metropolitana è restare vicini ai giovani anche quando l’assurdo li colpisce in pieno volto, anche quando l’assurdo proviene dalle persone che dovrebbero amarli, anche quando proviene dalle persone che dovrebbero educarli. dura dover rispondere di questo assurdo, eppure è solo questo che serve a sviluppare la fiducia: i nostri giovani credono in noi perché non fuggiamo, non ci dissociamo dal mondo così come è, ma cerchiamo di venirne fuori insieme. E qui cito di nuovo Don Milani: la politica è l’arte di venirne fuori assieme ed in questo senso un progetto educativo è il più politico che ci sia, all’origine di una nuova convivenza civile. È un sogno ma serve ad andare avanti.

Parola

«La parola è la chiave fatata che apre ogni porta» (Lettere di d.L.M., priore di Barbiana, del 26.3.56). La terza parola chiave che ho scelto è ‘parola’. Dare la parola è  il fine dell’educare, perché non è solo una competenza tecnica, ma una qualità umana fatta di responsabilità e determinazione nel perseguire il giusto. Come diceva Gianni Rodari:  «Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo».

«Questo grazie alle maestre e ai maestri che trasformano la scuola primaria italiana, e grazie ai linguisti che colgono l’originalità radicale dell’esperienza di Barbiana: il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. La lingua non è mai statica, né unica né definita o definibile una volta e per sempre: strati e strati si accavallano e convivono; quando uno di essi vince (quando cioè l’innovazione da eterodossa viene accolta come ortodossa), i puristi si sforzano di conservarlo, i grammatici di descriverlo, i maestri di insegnarlo». (Vanessa Roghi)

Don Milani ha creato una piccola comunità integrale che ha preso la parola necessaria a non sentirsi subalterni, a non sentirsi inferiori a chi comanda. Per fare questo ha dedicato la massima attenzione alle condizioni di vita degli allievi e ad usare un linguaggio che non tradisse la loro origine e contemporaneamente li mettesse in grado di leggere il mondo. Questo insegnamento è ancora centrale e lungi dall’essere realizzato sulla scala del sistema educativo. Nel linguaggio adottato da Maestri di Strada adatto alla complessità dell’educazione metropolitana, diciamo che occorre sviluppare particolarmente quell’uso della parola che serve ad esprimere il sé; la parola necessaria a mantenere il contatto della mente razionale con le radici emotive dell’esistere. Solo restando in contatto con le emozioni proprie – con la lingua nativa dell’essere – si ha la forza e l’ardire di non subire la voce dei potenti e contemporaneamente di non subire le voci della folla.
Quello che abbiamo appreso attraverso la riflessione sistematica ed i costrutti teorici della psicologia culturale è che lo spazio della parola coincide con lo spazio di pensiero e che il pensiero è possibile solo quando nell’animo c’è spazio liberato dalla paura e dall’odio. C’è un legame tra l’esistenza di una comunità riflessiva in cui è possibile fidarsi l’uno dell’altro e la possibilità di prendere la parola. Insieme a questo sostegno sociale allo sviluppo di una interiorità libera, noi consideriamo che sia decisiva per la crescita personale l’esistenza di ‘spazi traslati’ – spazi in cui  è possibile esprimere ciò che resta escluso dal quotidiano – che collocano il sé oltre i quadri esistenti ossia tirano fuori, educano senza mediazioni. La poesia, la grande letteratura, il teatro, l’arte sono in sé educativi e questo aspetto dell’educazione va oggi rivendicato come riappropriazione dell’umano sia rispetto ad una istruzione pietrificata sia rispetto alle narrazioni ormai inadeguate ispirate alla lotta di classe. Bisogna leggere Don Milani al di là delle contingenze linguistiche di un dopoguerra che aveva da completare una liberazione di cui la Costituzione era il fondamento giuridico e la promessa, mentre ancora esistevano innumerevoli e plateali manifestazioni di “oppressione di classe”.

Queste non mancano neppure oggi ma sono frammentate ed impastate in una complessità che non si lascia semplificare e che all’inizio di questo scritto ho simboleggiato nella differenza tra le marce che rimandano ad un linguaggio militare in cui si cammina inquadrati verso un obiettivo e le passeggiate in cui ciascuno cerca la strada senza una meta predefinita. 

Di tutte le immagini milaniane quella che conserverei come sintesi della sua esperienza è l’immagine del “santo scolaro”, un mosaico fatto dai ragazzi di Barbiana che la dice lunga sul ruolo dell’arte dell’educare, e sull’arte di educare.

Sovranità

«Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata […] Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere». (Don Milani)

Per quanto ne so è una delle frasi meno citate di Don Milani eppure è forse la più importante. Ripetuta in termini attuali significa: la scuola non è un ascensore sociale, serve a sé, serve a diventare sovrani. Ora abbiamo imparato la parola empowerment e altre parole più tecniche del tipo: “accrescere il potere d’accesso alle risorse proprie”, ma il concetto è quello: stabilire la sovranità su di sé, diventare padrone delle proprie risorse, non accettare in nessuna forma di essere eterodiretti. 

Questo è un vero sogno, irrealizzabile, ma la cui forza motrice è potente e ci consente di convivere con un mondo sempre più ingiusto, sempre più assurdo. Se la scuola italiana fosse in grado di adottare questo “obiettivo onirico” prima degli obiettivi didattici, dei programmi e di tutti gli arnesi valutativi forse i docenti avrebbero finalmente la bussola educativa che oggi non hanno.

Essere sovrani dei propri pensieri, capaci di riflettere su di sé, connettersi alle esperienze e alle emozioni più profonde, riassume nel migliore dei modi il fine dell’educazione. In una sola frase don Milani ha dato una sistemata a quelli che riducono la missione dell’educazione a fini pratici di conferma o scalata sociale, a quelli che si sentono politicamente a posto perché proclamano l’eguaglianza e la possibilità per tutti di raggiungere le posizioni sociali più importanti.  

Educatori e docenti devono viaggiare leggeri se no si perdono nelle giungle istituzionali, nel chiacchiericcio dei media, confusi dalle classificazioni,  psicologicamente sudditi di chiunque possa esibire un dolore personale o una ferita sociale.  («Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo» (p.192))

Ero talmente convinto che “sovranità” fosse il cuore del messaggio di Don Milani, che richiesto di intervenire per due minuti nella trasmissione TV “quello che non ho” avevo proposto questo testo, che era stato approvato ma all’ultimo momento cambiato perché era “troppo difficile”. I tagli delle frasi, che ho conservato, erano necessari per poter leggere in modo espressivo dal “gobbo”.

Sovrano

Sovrano è chi non riconosce superiori, 

chi ha il potere costituente di modificare le cose senza limiti.

Sogno una scuola per giovani sovrani, 

in cui ciascuno sia sovrano di pensieri, 

capace di orientarsi in una giungla di conoscenze, emozioni, relazioni.

In cui ciascuno, sognando la vita come oggi non è, 

abbia il potere 

di trasformare se stesso senza limiti, 

e di procurarsi i mezzi per tentare di realizzare il proprio sogno.

È difficile essere sovrani di pensieri 

quando si pensa a un futuro minaccioso 

vivendo  una realtà difficile, 

quando chi dovrebbe curarti non  ti cura abbastanza, 

chi dovrebbe proteggerti non ha forza, 

chi dovrebbe guidarti si è perso.

La nostra scuola per giovani sovrani è cominciata 

“insegnando al Principe di Danimarca”, 

ad uno che aveva dentro tanto dolore e rancore 

da non riuscire a decidere tra la vita e la morte. 

Una metafora per i tanti giovani che si trovano 

senza aiuti 

nei gorghi di strutture sociali malate.

Siamo partiti da come possiamo diventare sovrani del dolore, 

trasformandolo in forza e volontà 

per cambiare 

piuttosto che ripetere copioni mortiferi.

Se la scuola è la frontiera in cui si incontrano le generazioni 

per rinnovare la società, 

come è possibile insegnare la sovranità attraverso l’obbedienza?

il pensiero attraverso idee precostituite?

la pace e la serenità incutendo paura e ignorando il dolore?

Un popolo potrà essere sovrano solo 

se i suoi giovani si prendono il potere sovrano

di esercitare la volontà e

di trasformare senza limiti il proprio essere.

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