C’è un tratto distintivo che caratterizza la storia di don Milani che merita di essere valorizzato ricordando insieme la sua vicenda personale e il suo lascito per un modello educativo che non si assopisca davanti alla consuetudine: la ribellione.
Intendiamo la ribellione come l’atto alla base del quale sta anzitutto un tratto di consapevolezza del proprio sé, della propria posizione, del proprio valore all’interno della situazione-istituzione contro la quale si genera imponente e impetuosa la presa di distanze. Il ribelle è conscio circa l’impossibilità che il suo dissenso venga lasciato correre, che il suo distacco non sia considerato, non impatti in maniera critica lo status quo, non costringa l’altra parte in gioco a mettersi in discussione e rivedere daccapo la propria posizione alla luce del contenuto – oltre che del gesto – della ribellione che va compiendosi. Chi utilizza con intelligenza la ribellione come strumento, insomma, sa di poterlo fare e sa che è un gioco delle parti, non soltanto un gioco suo. Così don Milani nei confronti dell’istituzione Chiesa ha sfidato, ribellandosi ad essa dall’interno, anche e soprattutto i rapporti di questa con l’istituzione scuola: entrambi i macro-universi della scuola e della Chiesa hanno dovuto rivedere e attraversare il dissenso del prete fiorentino, che a sua volta si è più volte ribellato conscio dell’impatto radicale che i suoi atti avrebbero avuto su di esse e sui loro vicendevoli rapporti.
Molte sono le storie di ribellione che, accanto alla vicenda umana e pedagogica del sacerdote di Barbiana, popolano la mitologia di ogni tempo e le storie della Storia che a più livelli ne sono protagoniste. Ciò che affascina della ribellione è il meccanismo del suo accadere, sul quale occorre concentrarsi per tenere viva la fiamma dell’attenzione davanti ad ogni stato dell’arte, ad ogni dato per scontato, ad ogni presupposto che abbia i caratteri del già fatto e del determinato in modo definitivo, nelle relazioni, nelle organizzazioni, nelle istituzioni. Tale meccanismo, nella successione delle sue fasi costitutive, è ritratto con conclamata efficacia dalla dialettica servo-padrone rappresentata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel all’interno della Fenomenologia dello Spirito (1807), che prende le mosse proprio da uno stato di fatto, da una situazione che si presenta con un rapporto gerarchico verificatosi precedentemente e che non entra direttamente nel movimento dialettico tra le due parti.
Accade infatti, nella grande narrazione della Fenomenologia (cfr. PhG 103-116), che in un momento precedente (qui soltanto sintetizzato: chi conosce la fatica di un testo di Hegel conoscerà senz’altro quella ancora maggiore di tentare di renderne una sintesi rinunciando alla necessità dei singoli passaggi, ancorché millimetrici), due autocoscienze, due individui cioè, si trovino in un rapporto di subordinazione estrema, per cui una agisce da padrone che governa un servo, l’altra autocoscienza. Il servo è tale perché nel momento iniziale, guidato dalla paura della morte, ha scelto di delegare la sua sicurezza di vita ad un’autocoscienza che non ha avuto la stessa paura; questa seconda si ritrova pertanto in una situazione di Herrschaft, “signoria”, da intendersi come quel “padre-padrone” che è sopravvissuto nella nostra cultura italiana. Il rapporto servo-padrone è imperniato sul lavoro: che il padrone può permettersi di far fare e che il servo deve svolgere anche per il suo padrone, passando attraverso la fatica che l’altra autocoscienza non vuol sopportare. La fatica, tuttavia, diventa la discriminante che, gesto dopo gesto, rafforza sempre più il servo che la attraversa e rammollisce il padrone che la rifugge imponendola all’autocoscienza che aveva perso la lotta originaria per la vita. Più quest’organizzazione gerarchica funziona, più ci si avvicina al momento inizialmente impensabile: ad un determinato punto, il servo riconosce che la fatica del suo lavoro l’ha reso più forte del padrone che lo soggiogava, e realizza soprattutto e insieme che ciò che rende padrone il suo padrone e lo mantiene tale è unicamente il fatto che lui perseveri nell’agire come servo. Nell’istante esatto in cui questo contraccolpo si realizza, la servitù di quell’autocoscienza ora emancipata non è più reale, è dissolta assieme alla posizione di padronanza dell’altra.
La storia concettuale di questo movimento dialettico tra le parti del servo e del padrone è diffusamente nota per mezzo del pensiero marxista, che attorno a questo ritratto del lavoro ha rappresentato con straordinaria efficacia la dinamica quotidiana di molti lavoratori e molte lavoratrici a cavallo tra i secoli XVIII-XIX e XIX-XX non risparmiandosi, per nostra fortuna, una capacità di lettura lungimirante rispetto ai destini del paradigma capitalista nel quale siamo tutt’ora immersi. Questa declinazione non è tuttavia quel che qui interessa, come minimamente fu di Hegel l’intenzione, in questi passaggi della Fenomenologia, di rappresentare una lotta sociale o un rapporto storico tra individui reali: la metafora servo-padrone viene in aiuto ad Hegel soltanto come esemplificazione narrativa per testimoniare un momento di realizzazione dello Spirito lungo il percorso che esso compie, più precisamente per superare la certezza di sé della coscienza in destinazione dell’elaborazione del momento stoico intersoggettivo.
Ciò che è posto sotto la lente di ingrandimento è propriamente il meccanismo dialettico che porta a maturazione la ribellione, è il rapporto che intercorre tra le parti in gioco, il suo sviluppo e le conseguenze che la ribellione intelligente comporta. Il ribelle intelligente è colui che si trova inizialmente nella condizione di tacito consenso espresso come compartecipazione all’interno dell’istituzione/del rapporto/dell’organizzazione; lavorando al suo interno ha il tempo per imparare e maturare senso critico, mentre può mostrare il suo valore e guadagnare la fiducia e stima nell’intersoggettività che abita quella istituzione/rapporto/organizzazione. Giunto il tempo più opportuno, il o la ribelle avrà maturato la consapevolezza del suo gesto e si ribellerà, in modo più o meno gentile, per un bene superiore che tenderà ad assumere una, se non entrambe, delle direttrici dell’eticità e della verità. Per questo la sua mossa sarà pesata e di peso, grave e impattante, fulgida e brutale, vitale e distruttrice. Per questo la sua ribellione obbligherà l’altra parte ad una revisione radicale della sua posizione, storicamente spesso tradotta nell’avvio di percorsi di riforma.
Don Milani fu ribelle grande e intelligente, un eroe contemporaneo dell’educazione, della scuola, della Chiesa, un eroe senza tempo nella capacità di infrangere lo status quo. Riscoprire il germe di questa difficile – e certamente non di e per tutti – abilità di denuncia e azione non può che essere il modo più verace per dimostrare non solo di ricordare la sua figura storica, ma di ottemperare al suo lascito e alla lezione della sua capacità, necessaria in ogni tempo, di abitare con responsabilità e cura il nostro passaggio terreno in mezzo agli altri.