Papa Francesco riesce sempre a stupire per la capacità di esprimere con disarmante chiarezza concetti che molti sentono istintivamente come giusti, ma che non riescono a trasformare in chiara esplicazione. Dice: «Quando la Chiesa non esce da sé stessa per evangelizzare, diventa autoreferenziale e si ammala di una specie di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che è alla porta e bussa per entrare. Ma io penso anche ai momenti in cui Gesù bussa dall’interno affinché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale, infatti, vuole tenere Gesù Cristo dentro e non lo fa uscire». E poi conclude: «Vediamo con dolore che le chiese sono sempre più vuote, ma la cosa più importante non è che la gente entri in chiesa, bensì che Dio possa uscire nelle strade».
Le parole del Papa non possono non far pensare alla lunghissima storia di scontri tra le due anime della Chiesa, quella sociale e quella tradizionale, quella profetica e quella burocratica. Scontri che durano da secoli e che una volta portava i dissidenti al rogo, poi all’espulsione dall’ecclesia, poi alle condanne da parte del Sant’Uffizio dei loro scritti e, oggi, ai mugugni e ai complotti per rovesciare il Pontefice se a sedere sul soglio di Pietro c’è qualcuno che tenta di legare la figura di Dio con il benessere dell’uomo.
In quest’ottica acquista ancora più importanza il fatto che tra pochi giorni ricorrerà il centenario della nascita di don Lorenzo Milani citato soprattutto per i suoi scritti L’obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa, e per la scuola di Barbiana, località scelta dalla curia fiorentina per il suo esilio. Ma don Milani dovrebbe essere ricordato soprattutto per la sua capacità di dire e sostenere i suoi “no” che derivavano dal sottoporre continuamente non la fede, ma la religione cui si era votato, al severo filtro del ragionamento, ma soprattutto a quello dell’amore e del rispetto per il prossimo; in una parola, della solidarietà.
Non si può escludere che su don Milani abbiano influito le infiammate omelie di don Primo Mazzolari, antifascista e poi partigiano, che, con il suo pensiero, anticipò alcune realtà poi fatte sue dal Concilio Vaticano II: la Chiesa dei poveri, la libertà religiosa, il dialogo con “i lontani”, la distinzione tra errori ed erranti. Tutte realtà che ancora oggi dividono profondamente le varie anime della Chiesa.
È evidente che il ventennio fascista e la guerra hanno avuto un’importanza determinante nell’indirizzare in senso sociale e, quindi, evangelico, il pensiero di non pochi preti e, conseguentemente, di ancor più laici credenti, o almeno osservanti. Fare un elenco completo di questi sacerdoti sarebbe impossibile, ma mi sembra doveroso appuntare, almeno fugacemente, la nostra attenzione su tre che hanno lasciato un’impronta profonda ben al di là dell’ambito di fedeli che li ascoltavano direttamente.
Padre David Maria Turoldo, anch’egli partigiano, è stato sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso, di ispirazione conciliare, diventando uno dei più rappresentativi esponenti di un cambiamento del cattolicesimo nella seconda metà del ’900, tanto da farlo definire “coscienza inquieta della Chiesa”.
Padre Ernesto Balducci proprio dalla lotta di Resistenza ha tratto l’immagine dell’“Uomo planetario” che deriva da «un rapporto di collaborazione fra uomo e uomo, fra civiltà e civiltà, fra cultura e cultura, in cui la cultura della pace diventa fondamentale per ogni società che voglia essere adeguata alla sfida storica attuale».
Un altro esempio di questi sacerdoti illuminati è don Pierluigi Di Piazza, scomparso da un anno, che ha sempre continuato a ripetere che il suo cammino era «indicato da due bussole: il Vangelo e la Costituzione» a sottolineare che non c’è differenza nell’individuazione del buono e del giusto tra credenti e non.
L’elenco potrebbe essere ancora molto lungo, ma credo sia il caso di ricordare ancora soltanto quei laici che alla fine degli anni Sessanta erano chiamati “i cattolici del dissenso” e che hanno lasciato alcuni semi che hanno dato frutti, ma che, in gran parte, sono stati letteralmente soffocati da una Chiesa che, soprattutto nelle sue realtà periferiche, sembrava aver già completamente dimenticato lo spirito conciliare.
Questi uomini e questi movimenti sono stati osteggiati tacendo il fatto che la loro protesta non era rivolta contro Dio, bensì contro quelli che si definivano i suoi portavoce, i suoi interpreti.
È stato proprio nella prima metà del secolo scorso, quando il linguaggio della dittatura fascista si era imposto come valore sacrale che negava qualsiasi possibile obiezione, che è cominciato ad apparire chiaro che quando si vuole imbrogliare qualcuno, il primo strumento da utilizzare è il linguaggio. Pensate a come da secoli si è volutamente equivocato sui concetti di “sacro” e di “santo” che spesso usiamo indifferentemente, come fossero sinonimi, e che, invece, con le loro differenze ci portano a osservare come il nostro vocabolario spesso sia dolosamente truffaldino e comunque comodamente inadeguato.
Per capire cosa significhi “sacro”, di solito si risale al latino sacer – consacrato, ma anche separato – però è molto più utile partire dal suo opposto, “profano”, la cui etimologia dal greco indica che si riferisce a tutto ciò che sta davanti (εμπρός) al tempio dove Dio amerebbe apparire (φανείν). Davanti e, quindi, fuori dal tempio. Sacro, invece, è quello che avviene nel tempio, che partecipa della potenza divina, o, almeno, vi è molto vicino. Quindi il termine “sacro” definisce l’ambito del fenomeno delle religioni molto più che quello delle fedi poiché non esprime direttamente la sostanza del rapporto dell’uomo con il divino (questa sarebbe l’eventuale santità), bensì la forma esteriore e visibile che tale rapporto assume, quindi la sacralità. Una sacralità che è legata al totalmente altro, al mistero e, quindi, inevitabilmente, al temuto.
La distinzione tra sacro e santo, dunque, è profonda e non nasce contemporaneamente alla nascita delle religioni, ma si forma successivamente come frutto di una critica continua e raffinata, da parte di quella che chiamiamo “profezia”, a una ritualità cui non sempre corrisponde la convinzione dell’esistenza di Dio e la consonanza del cuore con i suoi insegnamenti. Per capirci meglio il “sacro” è elemento che può coinvolgere soltanto chi professa una religione, magari anche senza crederci molto. Il santo, invece, può interessare non soltanto chi crede, ma anche atei, agnostici e chi vive nel dubbio.
Da tutto ciò si capisce che, poiché caratterizza il fenomeno religioso e non la sua essenza, l’apparenza e non la sostanza, il sacro diventa spesso ambivalente: offre sicurezza e contemporaneamente costituisce una minaccia, si propone come benedizione e talvolta finisce per essere una maledizione. Ma soprattutto pretende di costituire non uno spazio simbolico, ma l’unico spazio simbolico per avere con il divino rapporti nei quali si possa esprimere il bisogno di speranza e di salvezza, affidandosi a lui, o, viceversa, esorcizzandolo, ma in ogni caso facendovi riferimento, perché fuori di esso – sostengono taluni custodi del sacro – Dio non potrebbe essere incontrato e affrontato; quasi che la dimensione più intima del nostro cervello e del nostro sentimento dovesse fermarsi esclusivamente dentro i confini del visibile e del tangibile.
Quindi il sacro permea la vita del fedele, offrendogli la tranquillità propria di chi sa che sta facendo quello che ritiene essere il proprio dovere, ma esponendolo anche a rischi terribili, se qualcuno è in grado – e la storia insegna che purtroppo è accaduto troppe volte – di manipolare il sacro millantando di essere il depositario della verità e della purezza dei riti. Insomma, è sempre la religione – e quindi il sacro – e non la fede – e quindi il santo – a spingere, ancora oggi come secoli fa, in Palestina e in tutto il Medio Oriente, ma non solo lì, gli uomini l’uno contro l’altro.
Comunque da tutto questo appare evidente che il “sacro” è un ambito creato dall’uomo e non da Dio (visto che di sacri ce ne sono tanti, ancor più che religioni), mentre è il “profano”, invece, che proprio da Dio – ammesso che ci si creda – promana, anche perché è unico, coerente, indiviso se non dalle smanie umane di potere, o di egemonia filosofica, religiosa, politica, economica, militare, sessuale, culturale, sociale, talvolta addirittura alimentare.
Don Milani e gli altri preti citati spesso sono ricordati perché capaci di dire di “no”, di non accettare imposizioni ecclesiastiche che, per la maggior parte, non sono neppure “ex cathedra”. In realtà, però, dovremmo ricordarli soprattutto in quanto dal delicato edificio della fede hanno avuto la capacità di togliere tutte quelle sovrastrutture, spesso dannose più che inutili, che rischiano, quando mostrano la loro vera natura e crollano miseramente, di trascinare con sé in macerie non soltanto la fede, per chi ce l’ha, ma anche gli stessi ammaestramenti del Vangelo che è stato il primo scritto nel quale si è esplicitata la necessità di un impegno comune per l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà, valori che nel nostro mondo rischiano di apparire ancora più rari della stessa fede.