Intervista ad Agostino Burberi

Autore

Andrea Donegà
Direttore delle sedi Enaip di Lecco, Monticello Brianza e Morbegno, impegnato nella formazione professionale con giovani e adulti. Un passato da educatore che ha preceduto 15 anni di impegno sindacale che lo hanno portato a ricoprire la carica di Segretario Generale della Fim Cisl Lombardia e di responsabile nazionale dei giovani metalmeccanici con i quali ha organizzato diversi campi di lavoro nei terreni e nei beni confiscati alla camorra nel casertano, approfondendo le conoscenze su economia civile e agricoltura sociale. Laureato in Sociologia in Bicocca, da sempre impegnato nel sociale, ha vissuto molte esperienze di volontariato negli orfanotrofi rumeni con l’associazione fondata da don Gino Rigoldi “Bambini in Romania” la prima delle quali, a 18 anni, fu decisiva per l’ingresso nel mondo degli adulti e la presa di consapevolezza del valore dell’impegno civico che, da allora, ha sempre coltivato. Oggi è componente del Direttivo dell’Associazione Amici Casa della Carità e attivista della Fondazione SON – Speranza Oltre Noi, realtà che lavora sul tema delle fragilità e del “dopo di noi”. Cofondatore di Passion&Linguaggi, collabora con il mensile Mosaico di Pace ed è autore del libro “Don Colmegna: al centro dei margini”. Nato a Como il 26/11/1981, convive con Francesca ed è papà di Carlotta, Tommaso e Samuele e genitore affidatario di Jason.

Agostino Burberi, lei è stato uno dei primi sei allievi di don Milani. Ora è Presidente della Fondazione don Lorenzo Milani. Cosa ha ricevuto dal priore e da quella straordinaria esperienza?

Posso dire di aver ricevuto tutto. Io ero un semplice bambino di Barbiana, una terra di contadini di montagna, isolata da tutto. Mancavano luce e acqua. Non c’erano strade ma c’era molta disperazione. Chi non c’è nato lì, in quegli anni, non riesce a immaginare. E, quindi, se non avessi incontrato don Lorenzo non so davvero cosa sarebbe stato di me. Mi ha letteralmente cambiato la vita, indirizzando tutte le mie scelte future. L’impegno sociale che ho portato avanti nel corso della mia vita è dipeso dalla sua educazione e dal suo esempio. 

Ricorda come ha incontrato don Lorenzo?

Sono stato il primo a conoscerlo. Ma fu un caso. Mi trovavo nella piccola chiesa di Barbiana e stavamo recitando le preghiere. Io facevo il chierichetto. Era il 7 dicembre del 1954. Ricordo che pioveva e lui entrò in chiesa. Non era mai stato a Barbiana. Aveva semplicemente obbedito alla decisione del Vescovo senza mai voler conoscere prima quella che sarebbe stata la sua destinazione. È arrivato e non se ne è più andato.

Avevo 8 anni. Il giorno seguente il suo arrivo, don Lorenzo informò i nostri genitori dell’intenzione di avviare un doposcuola. Noi, la mattina, frequentavamo una scuola “pluriclasse” dove la nostra maestrina doveva badare a cinque classi insieme. Iniziammo così il doposcuola a Barbiana dove don Lorenzo ci accolse nel salotto della canonica. Anche quello fu un fatto rivoluzionario perché fino ad allora nessuno vi era mai entrato, nemmeno io che facevo il chierichetto. 

Certo, la scuola allora funzionava in modo diverso. Il tempo pieno fu introdotto nel 1971 dopo un lungo percorso di rivendicazione, passato proprio attraverso i doposcuola parrocchiali stessi e le scuole popolari. Nonostante la legge, l’attuazione del tempo pieno restò a lungo subordinata alla richiesta e alla discrezionalità degli istituti scolastici quando, invece, rappresentava uno strumento pedagogico di cui avrebbero dovuto beneficiare tutti i bambini e tutte le famiglie, anche come mezzo per contrastare le disuguaglianze e promuovere giustizia. Come funzionava, invece, la scuola di Barbiana?

Va anche ricordato che la scuola media fu istituita nel 1962. Quindi, terminate le elementari, don Lorenzo si propose di offrirci un percorso di studi di un livello superiore al ciclo delle elementari. Eravamo in sei, tutti maschi. Le tre famiglie che avevano figlie femmine avevano già lasciato Barbiana.

La nostra, nei fatti, era una scuola di avviamento industriale, dedicata ai maschi. Il modello di allora era così e per le ragazze era prevista una scuola di avviamento commerciale. Davamo gli esami da privatisti ogni anno. 

Facevamo 12 ore di lezione al giorno, per 365 giorni l’anno che diventavano 366 negli anni bisestili. 

Non era troppo?

La fortuna di don Milani fu quella di aver trovato ragazzi che non avevano altre distrazioni visto che l’alternativa alla scuola, per noi, era il lavoro nei campi o con gli animali. La scuola era quindi meno faticosa. Alla scuola di Barbiana si imparava facendo. Don Lorenzo voleva preparare delle persone che sapessero vivere consapevolmente nella società e allo stesso tempo che conoscessero un mestiere. Diventavamo così bravi che i contadini della zona venivano da noi a riparare i loro attrezzi quando si rompevano. 

L’insegnamento, comunque, prendeva sempre spunto dalla nostra condizione e dalla vita reale e quotidiana. Don Lorenzo, ad esempio, ci fece costruire una piscina per aiutarci a prendere confidenza con l’acqua; ogni giorno ci faceva leggere i giornali per approfondire le notizie di cronaca, di politica e di economia e, soprattutto, per imparare parole nuove; ci insegnava a discutere con chiunque arrivasse a trovarci, che fosse gente comune, un contadino, un operaio, o personalità pubbliche come politici, sacerdoti o intellettuali. Voleva che noi fossimo in grado di interrogare tutti e se non lo facevamo ci inceneriva con gli occhi! Erano questi i suoi modi per educarci al confronto, al dibattito, all’importanza di formarci un’opinione e di essere capaci di sostenerla. Anche per questo ci spingeva a imparare le lingue, per poter comunicare anche con le persone di tutti i paesi.

Alla scuola di Barbiana non c’erano voti né registri. La lezione proseguiva solo quando tutti avevano capito. Così, seguivamo il passo dell’ultimo e scattava il meccanismo dell’aiuto: chi aveva capito andava in soccorso di chi era in difficoltà, altrimenti non si proseguiva. I primi quattro anni partecipavamo alla scuola solo noi sei bambini del primo nucleo. Poi arrivarono la seconda e terza generazione di bambini e ragazzi barbianesi.

Cosa accadde dal 1962 con l’introduzione della scuola media?

Parecchi studenti che frequentavano le scuole medie vennero bocciati. Le famiglie di quei ragazzi, allora, iniziarono a guardare con speranza alla scuola di Barbiana l’unica capace di accoglierli e seguirli. Di colpo arrivano 25 studenti. Erano ragazzi che avevano vissuto un percorso di fallimento e che ce l’avevano con la scuola perché li aveva respinti.  Noi in quel periodo aiutavamo don Lorenzo nella gestione delle lezioni perché lui era già malato. Tranne due, riuscimmo a recuperare tutti quei ragazzi che vennero promossi. Fu una grande soddisfazione.

Dopo la morte di don Lorenzo abbiamo portato agli esami gli ultimi quattro ragazzi. Poi l’esperienza di quella scuola cessò, non aveva più senso proseguire, anche perché a Barbiana, in quel momento, abitavano soltanto una ventina di persone. 

Don Milani viene spesso dipinto come una persona con carattere ruvido. Al tempo stesso è riconosciuto come un grande educatore e uno straordinario maestro. Come si coniugano queste sue caratteristiche?

Certo, le sue regole erano rigide e lui era molto fermo nel farle rispettare. Ad esempio, se uno arrivava in ritardo a scuola, ben che gli andava si prendeva qualche urlo. Ma non solo. Si arrabbiava molto quando perdevamo tempo perché il tempo è prezioso e va usato bene, diceva. Ecco perché non voleva leggessimo i giornali sportivi, spingendoci a letture più impegnative con un continuo richiamo a schierarci e a non essere mai indifferenti. Quindi da una parte era duro ed esigente, ma dall’altra ci amava tanto.

Mio padre lavorava a Firenze e si doveva alzare tutte le mattine alle 4. Poi, la sera, rientrava alle 22. Lo vedevo praticamente solo di domenica. Mio padre don Milani, invece, lo vedevo quotidianamente, per 12 ore al giorno. Si preoccupava della nostra salute e della nostra alimentazione e ci faceva curare dai migliori medici. A volte capitava di prenderci anche qualche schiaffo da lui e ci rimanevamo così male, non tanto per il dolore, quanto perché la vivevamo come un’ingiustizia oppure un tradimento alla sua fiducia visto che lui stravedeva per noi, come fanno tutti i genitori. 

In fondo, è questo che ha voluto dirci con il suo testamento quando rifletté sul fatto di aver voluto più bene a noi che a Dio, conservando però la speranza che lui non badasse troppo a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.

Don Milani insegnò il rispetto delle leggi e il valore dell’impegno civile e sociale, ribadendo che gli strumenti per cambiare lo stato delle cose, anche davanti a norme ingiuste, erano lo sciopero e il voto. In questo modo sottolineava l’importanza del ruolo del Sindacato e della Politica. Che ruolo ha avuto don Milani rispetto alle sue scelte di impegno sociale?

Il suo esempio e la sua educazione hanno inciso su tutte le mie scelte. Iniziai a lavorare come metalmeccanico e mi impegnai fin da subito nella Cisl. Don Milani, da sempre, ci ripeteva che se avessimo voluto fare i sindacalisti avremmo dovuto trasferirci a Milano. Fu così. Arrivai a Milano ai tempi di Pierre Carniti. Nella concezione di don Lorenzo, noi avremmo dovuto dedicarci agli altri, soprattutto agli ultimi, per restituire il privilegio di aver ricevuto la scuola gratuita. Da qui l’esortazione a diventare preti, sindacalisti, assistenti sociali. Una decina di noi scelse la strada del sindacato, a tempo pieno o come delegato di fabbrica. Era questa la traduzione del motto I CARE. Nessuno però andò a prete, accipicchia!

Celebre fu anche la sua lettera ai cappellani militari, con cui si schierò a favore dell’obbiezione di coscienza. Una posizione che pagò cara. Per gli stessi motivi, padre Balducci finì in carcere…

Beh, condividevo quelle idee ma partii per il servizio militare. Semplicemente non me la sentivo di andare in galera. Mi arruolai negli alpini perché noi barbianesi eravamo montanari. Fu l’anno in cui le condizioni di salute di don Milani precipitarono. Ricevetti un congedo di 15 giorni per rientrare a casa. Fu una fortuna perché potei alternarmi con gli altri ragazzi per accudire don Lorenzo gli ultimi giorni della sua vita. 

Sono stati anni intensi. Conserva anche dei ricordi difficili?

No! Ho passato con lui circa dieci anni e quindi, in un periodo così ampio, è possibile ci siano stati degli alti e bassi. Ma è stato un periodo bellissimo di cui conservo solo ricordi positivi. Anche l’esperienza sindacale è stata straordinaria.

Da “Lettera a una professoressa” nacquero tantissime scuole popolari sparse in giro per l’Italia che contribuirono ad alzare il livello culturale nel paese e a far maturare la conquista delle 150 ore per il diritto allo studio. Un grande pezzo della Storia del nostro Paese.

L’esperienza di Barbiana è irripetibile perché quella era una comunità. Per questo non può essere replicata. Tuttavia il suo messaggio è ancora forte e potente se pensiamo che, a distanza di così tanti anni, moltissimi ancora ne parlano, in tutto il mondo, e se consideriamo che Papa Francesco, il 20 giugno del 2017, venne a Barbiana e che Mattarella ci verrà il prossimo 27 maggio. Mai un papa e mai un Presidente della Repubblica erano stati qui. 

Siamo un paese che ha bisogno di simboli che spesso vengono agitati impropriamente. Cosa bisogna fare per non farlo diventare un simbolo vuoto?

I festeggiamenti per i 100 anni dalla sua nascita spero diventino l’occasione per riflettere sui valori che ci ha insegnato e ragionare su come riattualizzarli.

Forse qualcosa abbiamo sbagliato anche noi se le generazioni di oggi sembrano sbandate e rischiano di perdersi. Abbiamo bisogno di recuperare lo spirito di Barbiana facendo sperimentare ai giovani delle esperienze positive. Dopo il covid, tantissime famiglie hanno iniziato a chiederci di poter visitare Barbiana con i loro figli. Lo vedo come un segnale positivo.

Ci sono tante ragazze e tanti ragazzi impegnati certamente, ma dobbiamo aiutarli a rimettere in moto questi sentimenti e questo spirito. Forse ai giovani abbiamo insegnato ad avere tutto e loro si sono adagiati in queste comodità. Ecco, dobbiamo accendere tanti fuochi per riparare ai danni che sono stati fatti, ad esempio rilanciando il tema del volontariato, creando occasioni per viverlo e sperimentarlo anche all’interno dei percorsi scolastici da studenti. C’è bisogno di accendere tanti fuochi per rimettere in moto questo spirito e risvegliare questi sentimenti.

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