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Un vedere che è un non vedere L’invidia come forma (dolorosa) di cecità

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

Che la vista sia, almeno per la cultura occidentale, il più importante tra i cinque sensi è cosa difficilmente contestabile. Nel mondo greco classico – per andare alle radici della nostra civiltà – il primato concesso alla vista a scapito dell’udito, del tatto, dell’olfatto e del gusto è consustanziale ai termini che designano le tipologie del conoscere. Pensiamo ad esempio alla parola idéa che, rimandando all’atto dell’idéin, del vedere, rappresenta il perno dell’attività razionale o, ancora, al vocabolo theorìa (che significa propriamente visione), impiegato per designare la maniera in cui concetti e giudizi sono compaginati per costituire una costellazione in sé solida e congruente. 

«Tutti gli uomini – scrive Aristotele nell’icastico incipit della Metafisica, a suggellare quanto appena esposto – tendono per natura al sapere (tou eidenai oregontai physei)¹. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi infatti amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo modo, a tutte le altre sensazioni; e il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose»².

Anche nella tradizione biblica – passando all’altro imprescindibile cespite culturale di cui il nostro mondo è debitore – il caleidoscopico dinamismo del vedere si pone come segno dell’inesausta capacità di trascendenza dell’uomo e come manifestazione della sua originaria fiducia nei confronti dell’intellegibilità del reale. C’è di più, tuttavia: nella Scrittura, il vedere e il suo contrario – la cecità – sono indice pure della capacità o dell’incapacità spirituale di ravvisare l’opera di Dio in ciò che accade e dell’idoneità morale da parte del soggetto a riconoscere il bene (e ad agire di conseguenza) o meno.

«È per un giudizio che sono venuto in questo mondo – afferma Gesù nel nono capitolo di Giovanni – perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi»³.

E in un altro passaggio significativo del Vangelo di Matteo, Cristo afferma in polemica con il perbenismo di alcuni suoi interlocutori:

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito»⁴.

Ebbene, facendo leva proprio sul versante specifico del nesso sussistente tra visione e sfera morale, voglio qui concentrarmi brevemente su quella forma particolarissima di cecità interiore che è l’invidia. Sulle prime, l’accostamento tra le due dimensioni – la cecità e l’invidia – potrebbe apparire strano: l’invidioso non sembrerebbe affatto cieco; il suo sguardo parrebbe segnato piuttosto da una particolare acutezza, portato com’è a considerare di continuo la dismisura altrui come lesiva della propria identità. È tuttavia sufficiente riflettere un poco per accorgersi di come, in realtà, l’invidia equivalga ad un incessante e doloroso auto-accecamento: ad attestarlo non è tanto l’etimologia del termine (dal latino in – avversativo – e videre, guardare contro, ostilmente, biecamente o, genericamente, guardar male), quanto la testimonianza di una miriade di filosofi e scrittori che ci insegnano come l’invidioso non solo non sappia vedere correttamente l’altro, ma non sia neppure in grado neppure di leggere (e di accettare) se stesso. 

Tra tali pensatori mi piace richiamare Tommaso d’Aquino: egli giunge a definire l’invidia come quella dinamica opacizzante che fa sentire il bene altrui quale male proprio, collegando tale polarità alla tristitia; una dinamica di natura eminentemente relazionale dunque, dal momento che la hybris dell’invidioso – non tollerando limiti, arresti o intrusioni di sorta – coglie il bene dell’altro come una diminuizione del proprio essere. 

«L’oggetto della tristezza – si legge nella Summa theologiae – è il male proprio. Ma può capitare di vedere il bene altrui come un male proprio, nel qual caso il bene altrui può essere oggetto di tristezza. E ciò può capitare in due modi. Primo, quando uno si rattrista del bene di un altro in quanto è per lui nocivo: come quando uno si rattrista dell’esaltazione del suo nemico perché ne teme un danno. Tale tristezza però non è invidia, ma è piuttosto un effetto del timore, come nota il Filosofo. Secondo, il bene altrui può essere creduto un male proprio in quando sminuisce la propria gloria, o la propria eccellenza. Ed è in questo modo che si rattrista del bene altrui l’invidia. Ed è ancora per questo, come osserva il Filosofo, che gli uomini hanno invidia specialmente di quei beni “che implicano la gloria, e da cui gli uomini ambiscono di cogliere l’onore e la reputazione»⁶.

Le righe dell’Aquinate mostrano esplicitamente come nell’atto dell’invidioso non ci sia la risposta felice e gioiosa del desiderio che muove da dentro il soggetto umano né il riposo e la quiete di un suo consegnarsi assoluto, ma – come sostiene Silvano Petrosino – solo rimbalzo e cieco riflesso⁷; implicitamente, il Dottore d’Aquino ha invece modo di farci capire come la cecità dell’invidia sia nefasta non solo per la sua capacità di nuocere all’altro, ma anche per l’autolesionismo da cui procede e verso cui converge. Le due direttrici vanno considerate congiuntamente: esse rivelano la vocazione nichilistica dell’invidia e la sua folle irrazionalità, un’illogicità tanto potente da spingere l’invidioso persino a sacrificare se stesso pur di non concedere nulla all’altro e, addirittura, a trascinare quest’ultimo nel gorgo oscuro della sua sconfitta, preferendo l’uguaglianza dell’annientamento all’intollerabile spessore della differenza.

Sono considerazioni queste che ci portano a vedere nell’invidia una passione, oltre che cieca, anche implosiva. Essa è forse la più tetra tra quelle che Miguel Benasayag e Gérard Schmit – riferendosi al nostro contesto sociale – hanno definito passioni tristi, manie aporetiche nel loro essere prive di qualsivoglia risvolto edonistico.

«L’invidia – afferma assai opportunamente Elena Pulcini – è qualcosa che rode l’anima e corrode l’identità, è una specie di implacabile verme roditore come dice Cervantes nel Don Chisciotte, che esclude ogni forma di godimento, ogni momento sia pure fugace di soddisfazione. […] È questo un aspetto che la distingue radicalmente dagli altri vizi capitali. La superbia si appaga nel compiacersi della propria eccellenza, l’ira nello sfogo di aggressività, la gola e la lussuria nei piaceri della carne, l’avarizia nel possesso, l’accidia nella beatitudine dell’ozio. L’invidia, invece, non conosce appagamento: è dolorosa, letale, in primo luogo per chi la prova»⁹. Ponendosi come ostacolo alla felicità umana, l’invidia risulta, oltre che tradimento dell’altro, abiura della nostra autentica identità. Sebbene quest’ultima espressione possa risuonare alle orecchie di qualche cinico e disincantato figlio della post-modernità come un che di obsoleto e pedante, non ho certo paura di utilizzarla: credo infatti che solo scoprendo la vera fedeltà verso se stesso, il soggetto umano possa non solo riappropriarsi dell’unica chance che ha di trasformare la cecità maligna con cui sovente inquadra l’alterità in uno sguardo di riconoscimento, ma anche aprirsi per suo tramite al senso ultimo di ogni esistenza.

¹ Sapere è la traduzione letterale del termine greco eidenai, forma verbale di modo infinito, la cui prima persona nel modo indicativo è oida, so. Solitamente questo verbo è utilizzato solo al tempo perfetto, con il significato appunto di sapere, e all’aoristo, eidon (indicativo) e eidein (infinito), con il significato di vedere. La sua radice, infatti, è Fid, da cui il latino video. Eidenai, dunque, pur essendo al tempo perfetto non significa aver visto, ma sapere, anche se il collegamento tra i due significati risulta indiscutibile.

² Aristotele, Metafisica, I, 980 a, Bompiani, Milano 2000, p. 3.

³ Giovanni 9, 39.

Matteo 23, 23-26.

⁵ Cfr. E. Pulcini, Invidia. La passione triste, Il Mulino, Bologna 2011, p. 11.

⁶ Tommaso d’Aquino, Somma teologica, q. 36, a. 1, Esd, Bologna 2014, vol. III, p. 400.

⁷ Cfr. S. Petrosino, Piccola metafisica della luce, Jaca Book, Milano 2004, pp. 88-89.

⁸ Cfr. M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005, p. 15.

⁹ E. Pulcini, Invidia. La passione triste, p. 21.

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