Secondo me non siamo diventati ciechi,
secondo me lo siamo,
secondo me lo siamo,
ciechi che, pur vedendo, non vedono
J. Saramago, Cecità
Dottor Frankenstein – Oh… Scusa… Io…
non voglio metterti in imbarazzo ma…
sono un chirurgo di una certa bravura.
Potrei forse aiutarti con quella gobba.
Igor – Quale gobba?
Frankestein junior
1. La cecità della cecità
Oliver Sacks ci ha raccontato decine di storie di uomini e donne alle prese con la propria identità offesa da malattie o incidenti. Uomini e donne che lottano con eroismo per provare a restare o a ritornare tra noi, per ricongiungersi con il proprio sé alla deriva. Due storie in particolare mi sembrano adatte per il tema di questo mese. La prima è intitolata L’ultimo hippie e la si trova in Un antropologo su Marte, la seconda si può leggere nel Post scriptum di Un marinaio perduto ed è contenuta in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.
In L’ultimo hippie, Sacks racconta di un giovane uomo, Greg, nato negli anni Cinquanta a New York. La sua famiglia è benestante e lui, scrive Sacks: «era un bel ragazzo piuttosto dotato e sembrava destinato a seguire le orme del padre affermandosi come professionista o forse come autore di canzoni, attività per la quale aveva dimostrato un talento precoce».
Qualcosa però ben presto mutò il corso delle cose. Si era negli anni Sessanta e la biografia di Greg iniziò, quasi inevitabilmente, a somigliare a quella di tanti baby boomer. Divenne dapprima scontroso poi sempre più arrabbiato e infine ribelle. Contestava tutto: la famiglia, il governo, la guerra del Vietnam. Perciò, dopo aver fatto varie esperienze, essersi lasciato crescere i capelli e aver abbandonato la scuola, lasciò casa per andare a vivere «al Village, dove cominciò a far uso di LSD e si unì alla cultura della droga: alla ricerca, come molti altri suoi coetanei, dell’utopia, della libertà interiore e di uno “stato di coscienza superiore”».
Greg aveva però anche un grande bisogno di trovare una guida e fu così che nel 1969 cominciò a frequentare un maestro spirituale induista, lo swami Bhaktivedanta e la sua International Society for Krishna Consciousness. Grazie a queste influenze smise di drogarsi. Insomma, sembrava che la sua vita avesse trovato una direzione e «all’inizio degli anni Settanta, si stabilì nel tempio principale della setta, a Brooklyn».
I genitori, pur non entusiasti, non si opposero, nella speranza che il figlio stesse trovando la propria strada e agli inizi infatti non ci furono problemi. Greg, a detta di tutti, «era obbediente, semplice, osservante e pio. È un santo, diceva lo swami, uno di noi». Qualche tempo dopo Greg venne però trasferito al tempio di New Orleans e ai genitori, che qualche volta andavano a trovarlo, non fu più possibile vederlo.
Dopo un anno Greg cominciò a manifestare chiari segni «di un indebolimento della vista». Il fenomeno venne interpretato dalla comunità dove viveva in modo errato. Greg «era un illuminato», dissero: «la “luce interiore” stava crescendo dentro di lui». Così tranquillizzato, anche se la vista continuava a peggiorare, Greg, felice di questa rassicurante spiegazione smise di lamentarsi. Tutti attorno a lui dicevano che stava diventando un santo. Ciò nonostante era però chiaro che Greg ormai aveva bisogno di essere costantemente aiutato perché praticamente non riusciva più a fare niente da solo. I contatti fra Greg e il mondo esterno divennero nel frattempo sempre più rari fino a scomparire del tutto. I genitori ricevevano «brevi rapporti» che parlavano in termini lusinghieri del suo «progresso spirituale».
Passarono così alcuni anni finché, nel 1975, i genitori di Greg decisero di andare a trovarlo nel tempio degli Hare Krsna di New Orleans. «Quando lo videro furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso “ebete”». Ma quel che è peggio, era ormai anche completamente cieco. Si decisero quindi a farlo ricoverare e la diagnosi arrivò rapidamente. Greg aveva un tumore. Si trattava, ma questo soltanto il chirurgo lo poté scoprire, di «un meningioma di natura benigna». L’intervento riuscì a rimuoverlo ma non si poté porre rimedio ai danni che ormai aveva provocato. Greg, oltre che cieco, aveva subìto danni neurologici irreversibili e venne perciò «ricoverato nel cronicario di Williamsbridge: aveva venticinque anni, e la sua vita attiva era finita, condannato com’era da una prognosi senza speranza». Fu quindi a Williamsbridge che Sacks incontrò Greg nell’aprile del 1977. Ecco come Sacks lo descrive:
«Sembrava più giovane dei suoi venticinque anni… Sedeva immobile sulla sedia a rotelle, grasso come un Buddha, con un volto inespressivo, indifferente, e gli occhi ciechi che giravano senza più scopo nelle orbite. Mancava di spontaneità e non era mai lui a cominciare una conversazione, ma quando gli rivolgevo la parola rispondeva subito e in modo appropriato».
Greg non sapeva spiegare perché si trovava in ospedale. Non sembrava: «consapevole dei propri problemi: non era consapevole di essere cieco, di non poter camminare senza appoggio o di essere in qualche modo malato». Appariva del tutto indifferente. Come se la cosa non lo riguardasse.
Anche la memoria aveva subìto gravi danni. Non solo «non ricordava nulla di ciò che era avvenuto molto dopo il 1970» ma era anche incapace «di registrare nuove esperienze». Quando Sacks provò a dargli una lista di parole, dopo solo un minuto lui non ne ricordava più neanche una. Ciò che era invece rimasto quasi intatta era la passione per la musica. «Quando cantava, sembrava trasformato – una persona diversa, una persona integra… ricordava perfettamente le canzoni dal 1964 al 1968… Era prigioniero degli anni Sessanta… Era un fossile – l’ultimo hippie».
Quando gli chiedevano come andava la sua vista, non avendo la consapevolezza di essere cieco, Greg ammetteva che i suoi occhi non erano «un gran che», però aggiungeva subito che comunque gli piaceva «guardare» la televisione. Perché per Greg: «”guardare” la televisione significava seguire con attenzione la colonna sonora di un film o di uno spettacolo, inventando le scene visive che la accompagnavano… Sembrava convinto che il significato di «guardare» fosse realmente questo, e che con «guardare la televisione» tutti intendessero ciò che intendeva lui».
«Greg», conclude Sacks, «aveva perduto l’idea stessa di «vedere».
Fu proprio questa inconsapevolezza della propria condizione ad attirare l’attenzione di Oliver Sacks. Greg sembrava ormai non conoscere più il significato di parole come «vedere» o «guardare» e ciò «sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice “deficit”; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità». Del resto questo Sacks lo aveva già percepito quando aveva esaminato la memoria di Greg scoprendo che essa «era confinata a un attimo isolato (il presente), del tutto ignara di un passato, o di un futuro». Soprattutto di un futuro.
Per il resto invece, cioè per quanto riguardava gli altri tipi di memoria, Greg non presentava problemi. Ricordava la geometria che aveva studiato a scuola, sapeva ancora suonare la chitarra ed era anche in grado di imparare nuove canzoni e nuove tecniche. Insomma, la sua memoria procedurale era intatta. «Per esprimerci con le parole di suo padre, Greg era stato “spodestato” da una sorta di sosia o di sostituto che aveva la voce, i modi, l’umorismo e l’intelligenza di Greg, ma non il suo “spirito”».
Sacks a questo punto era perplesso. Il tumore aveva causato lesioni strane e complesse che lui, in qualità di neurologo avrebbe saputo definire come «deficit». Al tempo stesso però sentiva che la sua terminologia medica era davvero poca cosa: non era sufficiente a descrivere la condizione di Greg. Mentre si dibatteva in questi dubbi, decise di fare un tentativo ulteriore: provare a convincere Greg a imparare il Braille.
«Ma Greg non volle imparare il Braille; fu sorpreso e confuso da questa imposizione e gridava: «Che cosa sta succedendo? Pensate forse che non ci veda? Perché sono qui, in mezzo a tutti questi ciechi?»… Ai nostri tentativi per spiegargli la situazione, egli rispose, con logica impeccabile: «Se fossi cieco, sarei il primo a saperlo»… ci assalì una sensazione di impotenza e di disperazione che forse invase anche Greg. Sentivamo di non poter fare più altro, per lui: Greg non aveva alcuna possibilità di cambiare».
Greg non era solo completamente cieco, era completamente cieco davanti alla sua cecità.
Qualche tempo prima Sacks aveva già incontrato una situazione simile.
«[…] in un mio paziente un’improvvisa trombosi nella circolazione cerebrale posteriore causò la morte immediata delle parti visive del cervello. Il paziente diventò subito completamente cieco, ma non se ne rese conto. Sembrava cieco, ma non se ne lamentava. Le domande e i test rivelarono al di là di ogni dubbio non solo che egli aveva una cecità centrale o “corticale”, ma che aveva perso ogni immagine e ricordo visivi, che li aveva persi totalmente; eppure non avvertiva alcuna perdita. In realtà egli aveva perso l’idea stessa di vista, e non solo era incapace di descrivere qualcosa visivamente, ma rimaneva sconcertato quando usavo parole come “vista” e “luce”. Era diventato, in sostanza, un essere non-visivo. Era stato derubato di tutta la sua vita vedente, della visualità. Tutta la sua vita vedente era stata in realtà cancellata, e cancellata permanentemente, nell’istante dell’ictus. Tale amnesia visiva, tale (per così dire) cecità alla cecità, amnesia dell’amnesia, è in effetti una sindrome di Korsakov “totale”, limitata alla visualità».
Noi possiamo chiederci: se una cosa simile avvenisse a noi, se noi fossimo ciechi, saremmo i primi a saperlo?
2. La letteratura ci salverà dall’estinzione
Nel suo bel libro La letteratura ci salverà dall’estinzione, un libro appassionato e soprattutto necessario, Carla Benedetti ci porge una domanda che a me sembra simile, una domanda cui non possiamo sfuggire, una domanda che ci interroga sulla nostra cecità.
«I danni irreversibili che i viventi di oggi stanno procurando all’ambiente e che verranno pagati dalle generazioni più giovani, e ancor più da quelle che devono ancora nascere, sono ormai noti. Eppure si continua a immettere quantità proibitive di CO2 nell’atmosfera, a usare combustibili fossili, a consumare indiscriminatamente risorse non rigenerabili… Siamo le prime generazioni a vivere nella prospettiva di una possibile estinzione di specie. Una tale esperienza, mai vissuta prima da nessun altro uomo in nessun’altra epoca storica… dovrebbe provocare un terremoto nelle menti degli uomini… dovrebbe sconvolgerne i sentimenti, creare voragini nelle strutture della nostra vita individuale e sociale, mandare fuori asse i cardini spaziotemporali su cui siamo abituati a percepire la storia. Perché invece non succede?»
«Perché la conoscenza che ormai abbiamo acquisito non riesce a creare un positivo senso di emergenza?». Evidentemente, conclude Carla Benedetti, «sapere non basta».
«[…] tutto va avanti come prima o quasi […] È enorme la cosa che sta accadendo, ma lo è anche ciò che non sta accadendo.
Che fare dunque – si chiede a questo punto Carla Benedetti – quando la conoscenza non spinge all’azione, quando gli scienziati ci informano ma gli uomini non ne sono smossi?».
Che fare quando si è ciechi?
Non è qui possibile, né mi parrebbe corretto, riepilogare le tante riflessioni, i percorsi e le proposte indicati nel prosieguo del libro. Ricorderò soltanto due delle tante suggestioni che si ricavano dalla lettura. Secondo Carla Benedetti – che riprende un’espressione coniata dal filosofo tedesco Günther Anders – dovremmo essere capaci di farci acrobati del tempo: «mettersi nei panni di chi si troverà, in un futuro assai prossimo, a vivere su un pianeta dal clima sconvolto, dove scarseggiano l’acqua, il cibo e l’energia».
Per gli uomini non è agevole mobilitarsi per emergenze che paiono ancora lontane. Forse la letteratura, questa è la sua speranza, può mobilitarsi per aiutarci a concepire «un cambiamento radicale dei modi di pensare che stanno portando la specie umana alla catastrofe». Una letteratura capace di suscitare il «coraggio di guardare ciò che altri tende a rimuovere… Una potenza simile a quella che Günther Anders immagina sorgere in Noè mentre si dispera per il diluvio che sta per cancellare l’intero genere umano». E qui Carla Benedetti riassume il senso di un breve racconto, intitolato Il futuro rimpianto, che Günther Anders scrisse nel 1961.
Noè, l’unico uomo retto rimasto sulla terra, viene avvertito da Dio del diluvio con cui intende seppellire il Male dell’intera umanità. Dimostrando un’eccezionale lungimiranza lo fa con largo anticipo: ben centoventi anni prima, giacché tanti sono gli anni necessari a far crescere alberi di cedro abbastanza alti e ottenere così la legna necessaria a costruire l’arca.
La Bibbia non ci dice che cosa faccia Noè in questo lungo lasso di tempo. Günther Anders invece immagina che, dopo aver provato in tutti i modi a convincere gli uomini della catastrofe che si sta per abbattere su tutti loro, Noè abbia compiuto un estremo tentativo. Anders ci mostra cioè l’ultima mossa, la mossa estrema con la quale infine Noè riuscì «a farsi ascoltare dagli altri uomini e a persuaderli». Ed ecco come ci sarebbe riuscito.
Noè si presenta in pubblico vestito a lutto e afflitto. La sua non è finzione. Noè è davvero disperato. Ovviamente in molti gli si radunano attorno incuriositi.
«Chi ti è morto?», gli chiedono.
«Molti mi sono morti», è la sua risposta.
«E quando è accaduta questa disgrazia?».
«È accaduta domani».
È in questo modo che Noè, acrobata del tempo, sarebbe riuscito a penetrare nelle menti degli uomini, inducendo chi lo ascoltava a pensare a dopodomani, cioè a dopo il diluvio, «a dopo la fine del mondo» quando «tutto ciò che esiste oggi sarà come non fosse mai esistito».
Questa prospettiva si rivela sconvolgente.
«Sapere che nessuno porterà il lutto per te, che nessuno reciterà la preghiera sulla tua tomba, che nessuno quindi si ricorderà di te perché non ci sarà più nessuno a pregare e a ricordare: questo pensiero ha la forza di terrorizzare gli ignavi, poiché non avere chi ti ricorda e chi ti piange equivale a non essere mai stato».
È questa la mossa estrema con la quale Noè, secondo Anders, riesce a convincere gli uomini ad aiutarlo nella costruzione dell’arca.
Noè, conclude Carla Benedetti, riesce a raggiungere il suo obiettivo perché utilizza una nuova forma di parola profetica, una forma che da assertiva si fa suscitatrice. Una parola capace cioè di provocare «un sommovimento e un ri-orientamento nelle strutture di pensiero di chi ascolta ed è in grado di suscitare il senso di un’emergenza».
Questo è anche il compito che si può sperare la letteratura vorrà provare a darsi nei nostri giorni.
3. Qual è la mia cecità?
Esistono diverse forme di cecità.
Esiste una cecità capace di leggere nel domani. La cecità di Tiresia, accecato da Atena per aver visto (o forse detto) ciò che non avrebbe dovuto. La dèa però, commossa dal dolore della madre di Tiresia, volle bilanciare questa pena dandogli appunto il dono di prevedere il futuro.
Esiste la doppia cecità di Edipo: dapprima incapace di vedere dentro di sé quando ancora è dotato di vista; capace infine di conoscersi soltanto dopo essersi punito autoinfliggendosi la cecità.
Esiste la cecità disperata di Hamm: «Ma in che cosa sperate, alla fin fine? Che la terra rinasca a primavera? Che il mare e i fiumi ridiventino pescosi? Che cada ancora la manna dal cielo per degli imbecilli come voi?» (Samuel Beckett, Finale di partita).
Esiste la tragica cecità di Lear. I suoi occhi sono in grado di vedere ma lui è incapace di giudicare.
E chissà quante altre cecità esistono ancora.
Perché esiste la cecità degli occhi e la cecità dell’immaginazione, la cecità della vista e quella della mente.
Esiste poi, come ci ha detto Sacks, un’altra cecità, forse la più tragica perché irrimediabile: la cecità alla cecità.
Ed esiste infine un’ultima cecità, la cecità volontaria, la peggiore di tutte, ben conosciuta dalla saggezza popolare: la cecità di chi non vuol vedere. E forse proprio questa è la mia cecità.
Si tratta di una forma rassicurante di cecità. Una cecità gaudente che mi consente di sopravvivere ancora per qualche tempo, scaricando i problemi in un futuro che sento lontano, che non mi interessa più. Che sembra non riguardarmi.