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Ogni 8 secondi, un nuovo mondo

Autore

Chiara De Pol
Professionista della comunicazione e lavora in una delle aziende più importanti del settore turistico in Italia, Trentino Marketing. Si laurea in management per il turismo e si specializza in social media customer care a H Farm, e ottiene un master a IED Milano in Influencer marketing. Dopo un’esperienza pluriennale nel mondo della comunicazione tradizionale italiana ed estera, si specializza nella comunicazione dei nuovi media. Grazie al lavoro degli ultimi anni si è ritagliata un ruolo importante all’interno dell’azienda diventando il membro più giovane del Team di management di Trentino Marketing; è inoltre member dello strategic editorial commitee dell’azienda e ricopre il ruolo di Responsabile Social Media & Influencer Marketing oltre che a quello di Vice Head of Brand & Communication. E’ altresì a capo della comunicazione social di alcuni dei più importanti eventi del Trentino, tra cui Il Festival dell’Economia, Il Festival dello Sport e I Suoni delle Dolomiti e coordina l’intera comunicazione dei canali social di Visit Trentino. Ha collaborato come Guest Professor per IED Milano, Università di Verona e Trentino School of Management. I suoi hobby invece la portano in montagna: è infatti Founder di Trekking Rosa, un progetto di comunicazione non convenzionale per la prevenzione del tumore al seno, contributor di Donne di Montagna e Presidente dell’Associazione Lotus - oltre il tumore al Seno.

Stando ad alcuni recenti studi la capacità di concentrazione degli esseri umani si sta riducendo sempre di più, così tanto da avvicinarsi alle capacità mnemoniche di un pesce rosso. Sembra infatti che dopo 8 secondi quest’ultimo azzeri il proprio universo mentale ritrovandosi in un nuovo mondo. Così, succede oggi, ad una qualsiasi persona sui social: ogni 8 secondi si ritrova catapultato in un nuovo mondo, fatto da nuove immagini, nuove persone, nuove informazioni. Ad ogni scroll del mouse, ad ogni swipe del pollice, nuovi stimoli vengono lanciati al nostro cervello, che in un frenetico scrollare ne recepisce una minima percentuale. In parte perché non è in grado di assorbire la mole delle informazioni con cui lo stiamo super-stimolando, dall’altra perché mancano anche gli strumenti (soprattutto tra i più giovani e i più anziani) per capire cosa stiamo vedendo e/o leggendo.

E questo si ripete, in un loop perenne “di superficialità infinita” dove non c’è il tempo per l’approfondimento delle informazioni che riceviamo sui canali social e sui siti web. In tal senso si può parlare di “cecità digitale”: non essere in grado di vedere la notizia, di approfondirla, di verificarne le fonti e limitarsi invece a recepirne quanto in 8 secondi, il nostro cervello può assorbire.

La velocità a cui corre lo sviluppo del mondo digitale risulta essere così rapida che il nostro cervello, fermo ad un’evoluzione di qualche millennio fa, non riesce a starvi al passo, a processare ed evidentemente a sostenere questo ritmo. In questa galassia di contenuti e di informazioni, definita da molti “infodemia”, si nota l’amplificazione di un problema già esistente: l’incapacità di valutare la rilevanza di un’informazione rispetto ad altre e orientarsi nel mare magnum delle news in rete. Diamo al nostro cervello così tanti stimoli da processare senza dare priorità a nulla: il problema è che il nostro cervello non ha una cartella spam. Quindi quando poi arriva una cosa importante non si ha più l’energia mentale per affrontarla. E di nuovo, nel circolo “di superficialità infinita” che ciascuno di noi continua ad alimentare non si ha più tempo né energie per approfondire, valutare e capire. Ci si ferma sulla superficie.

Tutta questa velocità a cui ci stiamo abituando, senza averne i mezzi per sostenerla, è poi così necessaria? Dove stiamo correndo così velocemente? Perché? Chi è l’allenatore che ci sta preparando per correre questa corsa? Cercherò di rispondere a queste domande di seguito, con degli esempi pratici. 

Era il giugno del 2020, e l’America era scossa dalla morte dell’afroamericano George Floyd. In quello stesso mese un impiegato di Facebook scrisse all’interno della chat aziendale “racial-justice chat board” di togliere dalla news feed del social le notizie provenienti dalla testata di estrema destra “Breitbart”: «Get Breitbart out of News Tab», scrisse, corredando il messaggio da alcuni screenshot della testata: «Minneapolis Mayhem: Riots in Masks», «Massive Looting, Buildings in Flames, Bonfires!» e «BLM Protesters Pummel Police Cars on 101». 

La sezione news-feed è una funzione che aggrega e promuove articoli di vari editori, tutti comunque selezionati da Facebook. Ora, l’intento di quanto scritto non è condannare o meno la testata di estrema destra o valutare se Facebook abbia fatto bene o male a censurare queste informazioni ma, piuttosto riflettere sul fatto che Facebook lo possa fare. Facebook decide cosa, come e quando puoi leggere, privandoci o concedendoci le informazioni a seconda di interessi politici ed economici, del miglior offerente di turno. Offerente che “compra” in base a quanto un contenuto riesce a viralizzarsi e ad ottenere più commenti, reazioni e visualizzazioni. Questi parametri sono quelli, infatti, che gli garantiranno una visibilità. 

Stando a quanto dichiara Frances Haugen, tra le ultime, ma non per importanza, whistleblower uscite da Facebook, alla base del problema ci sarebbero stati gli algoritmi introdotti nel 2018, che secondo lei sarebbero stati pensati per aumentare l’engagement (il coinvolgimento degli utenti): e per Facebook, un modo facile per aumentare l’engagement sarebbe stato quello di pubblicare contenuti che instillassero paura e odio negli utenti. «È più facile infondere nelle persone la rabbia che altre emozioni», ha detto Haugen. Su Facebook, così come Twitter o altri social, un contenuto (falso e/o carico d’odio) pubblicato da una sedicente fonte ha la stessa visibilità di un contenuto vero. Un post vale un post. È la viralità, poi, a fare la differenza. Sappiamo che i post constano di poche righe e di qualche immagine: un copy ad effetto, con parole che agganciano determinate emozioni, un’immagine forte, ed il pesce, quello che ogni 8 secondi resetta il suo mondo, ha abboccato. Si innesca così la viralità di un contenuto, che conta sulla superficialità e la velocità di fruizione dell’informazione. A questo meccanismo si aggiungono i motori di raccomandazione, i potentissimi software che “personalizzano” i contenuti offerti a ciascun utente. Scandagliano i nostri interessi ma anche le nostre paure, andando a colpirci proprio là, dove ci sentiamo più fragili. 

Su questo meccanismo si collocava anche la campagna di comunicazione a favore della Brexit, ad esempio. La campagna della fazione “Leave” era, infatti, basata per lo più su messaggi molto intuitivi e diretti, semplici e corredati da immagini forti. Questi fattori risultano strategici e di fondamentale importanza per le campagne che si articolano sui social media. In secondo luogo, i messaggi prodotti da “Leave” erano anche molto carichi di emozioni, il che ha facilitato la diffusione virale delle idee del “Leave”. Le confessioni della Haugen suggeriscono che emozioni ad alta eccitazione, come rabbia e irritazione si diffondano più velocemente dei messaggi incentrati su argomenti razionali o economici, in particolare sui social media. La campagna di comunicazione degli avversari, che invece puntava a rimanere in Europa era molto più articolata e prevedeva approfondimenti puntuali su questioni economiche e giuridiche. Argomentazioni che in 8 secondi sicuramente non si ha il tempo di approfondire. Ed ecco che quindi le ragioni del “Leave” prevalgono così, su quelle dello “Stay”. Alcuni dicono che questo sia stato il banco di prova, un test, per le successive elezioni americane che videro Trump eletto a Presidente degli Stati Uniti nel 2016. 

Prima di lasciare Facebook, Haugen copiò migliaia di pagine di ricerche interne che mostravano come l’azienda avesse mentito sui progressi fatti per contrastare l’odio, la violenza, la rabbia e la disinformazione e insabbiò gli studi sui disagi psicologici provocati sugli adolescenti dai canali social. Questo evidentemente per continuare a nutrire il pesce rosso. 

E allora, tutta questa velocità che ci rende ciechi di fronte ai complessi meccanismi del digitale che quotidianamente contribuiamo a nutrire, forse non serve. È necessario avere più consapevolezza di quello che frettolosamente leggiamo online ed è necessario, oggi più che mai, introdurre nelle nostre vite una gestione del tempo di connessione, o meglio ancora di quello dedicato alla disconnessione.

Richard Watson, autore di Future Minds: How the Digital Age is Changing Our Minds, Why this Matters and What We Can Do About It, afferma che è indispensabile pensare a un modello slow media capace di reintrodurre la complessità all’interno di una comunicazione lenta e approfondita. 

Forse così, ci saranno meno semplici pesci rossi e più complessi esseri umani.

1 commento

  1. Oggi siamo talmente coinvolti da quello che ci propone il web che non siamo più in grado di discernere gli argomenti. Il bombardamento continuo di notizie vere o false ci condiziona e ci riduce la concentrazione di quanto abbiamo letto. Dobbiamo farci condizionare meno e ragionare di più con la nostra testa.

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