“Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nubi dominate dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.” La musica e il profumo di mirto nella lingua di Sergio Atzeni in Passavamo sulla terra leggeri, finalmente ristampato da Sellerio [Palermo 2023], dipingono l’umana vicenda con tragica levità. Di quale felicità siamo alfine felici? Di quella di infliggere la morte? Della constatazione che anche stavolta non è toccato a noi? Del piacere sottile di essere, noi, ancora vivi dopo il rituale liberatorio di ogni funerale? Della protezione garantita dal sipario dell’indifferenza ben calato sulla nostra tiepida e precaria comodità? Della disposizione in fondo comoda a non vedere di non vedere? Di quella peculiare capacità tutta umana di guardare senza osservare, laddove osservare coinvolgerebbe il nostro sentire? Ma non eravamo noi, certo insieme ad altri animali, a essere fatti per risuonare con gli altri, per sentire quello che loro sentono, a simulare a livello corporeo la loro esperienza vissuta? Sì, certo. Però c’è un però. Non sono i neuroni, seppur “specchio”, a decidere i nostri comportamenti. Ne sono una condizione necessaria ma non sufficiente. È la nostra eusocialità che contiene le forme espressive della nostra responsabilità. Diveniamo in funzione di quel che ci precede e dell’istituente delle istituzioni che ci formano. La molteplicità condivisa informa le nostre scelte e mostra ancora una volta che non siamo del tutto padroni di noi stessi.
Quella molteplicità può favorire la nostra capacità di aprire gli occhi o può accecarci. Fino al furore distruttivo condiviso. Da cui ricavare il piacere di essere tra i salvati, da quel luogo dal quale calare il sipario sui sommersi. Che se sono sommersi o se la sono meritata o, comunque è toccata a loro e se la tengono. Noi, salvati, in fondo cosa c’entriamo e cosa ci possiamo fare? Allora siamo felici di non essere loro perché noi siamo noi e con loro non c’entriamo proprio per niente. E poi mica possiamo occuparci di tutto e di tutti. Quanta angoscia possiamo contenere? Se ci facessimo raggiungere da tutte le differenze impazziremmo in poco tempo. Guarda come va il mondo! Non ce la faremmo comunque. Allora bisogna scegliere. L’unica via è sospendere quella risonanza scegliendo la negazione. L’unica via è non guardare, o meglio guardare senza osservare, non vedere di non vedere. Ci vogliono delle palpebre speciali e abbastanza rapidamente ce ne siamo dotati. Potere della tecnologia della mente! Non è una novità assoluta ma ora si impone su larga scala. Certo i precedenti non sono pochi. Andare al circo Massimo a veder sbranare cristiani col tripudio orgasmico delle folle, o precipitarsi in anticipo in Place de la Concorde con trepidante attesa per vedere teste mozzate che cadono nei cesti, sono precedenti illustri. Ma con la gregarietá demografica il gioco si è fatto più sottile. Siamo enormi masse agglutinate e, si sa, Paul Warfield Tibbets Jr (Quincy, 23 febbraio 1915 – Columbus, 1° novembre 2007), generale e aviatore statunitense, noto per essere stato il pilota dell’Enola Gay, l’aereo che sganciò la bomba atomica su Hiroshima nel 1945, ha lasciato detto che dall’altezza a cui volava in quella mattina di sole, Hiroshima era in realtà ai suoi occhi un formicaio. Poi, è vero, dopo molti anni si è suicidato. Ma è un bel prototipo dell’umana cecità. E ci vedeva eccome: ci vide, infatti, benissimo. Poi si pentì fino a togliersi quella strana cosa che chiamiamo vita. Ma i rituali del pentimento, suicidi inclusi, non sono altro che la prova della cecità. La prova del nove di come siamo fatti. O meglio di come siamo anche fatti. L’insopportabile non è altro che la disposizione a vedere dopo quello che non avevamo voluto vedere prima. Ma dopo è tardi. L’indifferenza è la cecità dei vedenti.