Il cieco che ci vede, l’accecato, quello che sa, l’offuscato in missione

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

Esistono tanti tipi di cecità. Non parlo evidentemente della patologia oculare, ma della vista che possiamo o non possiamo esercitare per corrispondere alla nostra natura umana. Si può sostare davanti al mondo e vedere che succede, avendo o meno l’accortezza se per caso cascassedi spostarsi un po’ più in là; si può scegliere di giocarsi in esso e cercare di lasciare un’impronta, si può affrontare la fatica di imparare e si può non farlo affatto, si può esercitare il dubbio o avere solo certezze, mollare tutto per un grande sogno e trovare la felicità nella semplicità di un pezzo di pane davanti un focolare. Tanto dipende dall’atteggiamento con cui ogni singola persona si pone di fronte e nel mondo, con sé e con gli altri; tanto dipende dalla quantità e qualità di vista da cui si parte e molto più da quanto si sceglie di allargarla, coltivarla, esercitarla o non lo si fa.

La mia proposta di riflessione sulle cecità torna con rispetto e umiltà ad uno dei luoghi in cui la nostra cultura occidentale indubbiamente è nata, ricavando dal mito della caverna narrato nell’incipit del Libro VII della Politèia di Platone quattro figure più o meno cieche.

[Non intendendo dare il mito per scontato ma facendo d’altro i conti con lo spazio a disposizione, segnalo che esso è disponibile alla lettura qui: da Platone, Repubblica]

Il cieco che ci vede

«Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. […] Credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?» (Platone, Politèia, 514a-515b. Trad. it. Franco Sartori).

La prima cecità è quella dei prigionieri, che è paradossale: pur avendo intatta la facoltà della vista, sono ciechi nei confronti della realtà. Essi rappresentano coloro che non possono vedere la verità perché incatenati in una situazione che non permette loro nemmeno di accorgersi della loro cecità. È l’ignoranza passiva, subita e quasi senza colpa. Il prigioniero non è mai stato esposto alla vera luce del sole, né è mai stato posto davanti alla scelta tra le catene e la libertà. Il prigioniero è lì dalla nascita, è la sua situazione di partenza (il mito della caverna è prima di tutto una narrazione pedagogica). Il prigioniero sta incatenato quasi senza colpa, non sapendo neppure – cieco, quindi, una volta di più – se qualcuno potrebbe venire a liberarlo o meno. Egli staziona statico in una situazione di cecità della quale non si rende nemmeno conto, convinto com’è che ciò che gli si para davanti alla vista sia l’intero contenuto della realtà, non mettendo in dubbio né il contenuto della sua non-vista né tantomeno il suo punto di vista, cieco in partenza.

La cecità del prigioniero è la posizione di chi non ha gli strumenti prima di tutto per porsi la domanda fondamentale del dubbio: o per l’aridità del contesto di crescita, o per la povertà culturale nella quale ci si può trovare nascendo, o per l’incapacità strumentale di non potersi fare la domanda. Il prigioniero è cieco inerme: è colui che non può vedere per carenza di mezzi e postura esistenziale. Nella conformazione dello stato moderno, alla scuola è dato il compito di inserirsi esattamente in questo spazio per essere emancipatrice, per dare i mezzi a chi non li ha, per piantare il seme della curiosità, del dubbio, della domanda sul proprio punto di vista. E si badi bene: la scuola ha la durata intera della vita.

L’accecato

«Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? […]» (Ibi, 515c-515d).

Avete mai provato a suonare uno strumento musicale? Nel primissimo momento in cui proverete a farlo vi sentirete degli incapaci totali: siano le dita doloranti sulle corde di una chitarra che non suona, il fischio di un’ancia che non vibra o l’impossibilità che si prospetta tentando di affondare nel tempo corretto quattro tasti distanziati su una tastiera. Non è la stessa sensazione che si prova affrontando l’enunciazione di un teorema o la teoria di un filosofo, una formula matematica o l’impugnatura di una racchetta da tennis?

Mossi da curiosità o imbeccati dalla generosità di una persona, la scelta di affrontare il cammino che porta ad ampliare la propria vista produce un nuovo paradosso: quello di trovarsi inizialmente più ciechi di prima. Partendo dalla consapevolezza della propria ignoranza, nel tentativo di superarla ci si trova ancora più ignoranti. In questo passaggio, Platone ci sta illustrando quanto sia determinante il portato della pazienza, della fiducia nel perseverare, dell’intuizione per cui ciò starà dietro a quella fatica ripagherà. Il prigioniero che si libera è subito impattato da dolore fisico che prova muovendo i propri arti e dal bagliore che rende i suoi occhi inutilizzabili perché non abituati a quella luce. Ci sarebbero insomma tutti i presupposti per tornare alla situazione precedente di prigioniero, ed è proprio qui che l’intuizione che valga la pena non tornare a sedersi nell’ombra è cruciale per non rimanere ciechi definitivamente. Si tratta dell’atteggiamento-attitudine, della vista necessaria per poter rimediare alla cecità precedente e guadagnare un nuovo e più ampio sguardo. Se solo avessimo imparato, lungo questi duemilacinquecento anni, l’importanza di questo passaggio non ci suonerebbero certo nuove teorie dell’apprendimento basate sull’abbandono della comfort zone o motti quali “No pain, no gain”!

Quello che sa

«E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. – Non potrebbe certo, rispose, almeno all’improvviso. – Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi, poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. […] Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che più gli è propria. – Per forza, disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano» (Ibi, 516a-516c).

Il prigioniero ormai liberato ha affrontato con pazienza il doloroso cammino che ha spinto i suoi occhi a ritararsi dalla flebile luce che rifletteva le ombre nella caverna per giungere alla contemplazione diretta del sole. Questa vista è finalmente completa, perché ora riesce a vedere la fonte primaria e originale – vera – di ogni altra forma di luce: il sole. Il raggiungimento di questa vista annulla la cecità che egli poteva avere anche rispetto ad altri aspetti del mondo, come i ritmi delle stagioni, dei giorni, degli anni. Chi vede, sa: questo insegnamento è un nostro patrimonio, consegnatoci direttamente da chi prima di noi ha pensato e plasmato i nostri pilastri antropologici. Costoro parlavano in greco, lingua nella quale il passato – «oìda» – del verbo vedere – «orào» – significa propriamente sapere, ovvero: sapere per aver visto. Chi ha pensato il sapere e ci ha insegnato a chiamarlo così, lo ha pensato in questi termini, e lo ha fatto anche e soprattutto in questo passaggio del mito della caverna. Riconoscere le cose nella loro verità e nel luogo della loro verità è indicazione metodologica ancora oggi valida: discutiamo sul dove stia la verità e sul cosa sia, ma siamo ancora d’accordo che essa abbia a che fare con uno sguardo che veda le cose nella loro relazione autentica o con uno sguardo capace di generarla.

Se la cecità teoretica ed estetica sembra a quest’altezza del mito essere stata risolta, essa risulta tuttavia ancora presente sotto il profilo conseguente quest’esperienza, quello etico.

L’offuscato in missione

«E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? – Certo» (Ibi, 516c). 

L’uomo libero che, accompagnato da fatica e dolore, ha raggiunto il compimento del cammino che lo ha portato alla contemplazione della verità, nel punto più alto di quel cammino non è appagato per se stesso, ma immediatamente prova pietà per chi quell’esperienza di pienezza non ha nemmeno il dubbio che possa esistere. Colui che era cieco in verità ha affrontato la cecità fisica e lo smarrimento per arrivare a vedere: quello sguardo gettato fuori che gli ha permesso, liberato dalle catene, di «levare [lo sguardo] alla luce» ora si volta indietro nella compassione empatica della situazione iniziale, in cui la cecità era affogata nell’ombra. Nell’esperienza di verità, l’esperienza estetica è contemporaneamente – sotto il profilo temporale – e conseguentemente – sotto quello logico – esperienza etica, come dirà Brodskij nella sua prolusione in occasione della consegna del Premio Nobel nel dicembre 1987: «Nel complesso, ogni nuova realtà estetica rende la realtà etica dell’uomo più precisa. Perché l’estetica è la madre dell’etica; le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo, estetiche». Ed è in realtà Platone, poco oltre, che lo afferma egli stesso quando fa dire a Socrate: «Ora, ecco il mio parere: nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedersi è l’idea del bene; ma quando si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello» (Ibi, 517c). Per questo la verità, dopo che la si è vista, implica la missione etica di liberazione di chi è ancora cieco. Una responsabilità etica, questa, che mette a repentaglio la vita stessa del liberante.

«Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? – Sì, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con loro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose» (Ibi, 516d-517a).

La fatica e il dolore che sembravano essere alle spalle dell’uomo che ha visto la realtà delle cose si ripropongono con ancora più violenza in un ulteriore paradosso, ancora una volta imperniato sul parallelo cecità/vista. Colui che conosce la verità per averla vista non può comunicare con chi è cieco, in un ribaltamento narrativo straordinario per cui nella caverna i ciechi sono gli unici capaci di utilizzare l’organo della vista mentre l’unico che vede davvero ha la vista offuscata. Ridisceso in missione etica di liberazione, l’offuscato è appiedato dalla sua confusione nelle tenebre, ché non sono più il suo campo. Tentando di generare curiosità, provando ad accendere il desiderio per quello che può essere visto fuori da quella condizione cavernicola, raccontando il suo percorso di liberazione, cercando di dare i mezzi a chi non li ha per uscire, provando a spiegarla come tale, da quella situazione di prigionia scambiata per verità, l’uomo fa la figura del pazzo, viene deriso e messo alla gogna. Di più: fermo nel voler essere liberatore per conoscere il guadagno del dolore che va causando, egli comprende che l’unico modo per liberare un prigioniero è farlo forzandolo, torcendogli fisicamente la testa verso la prima luce accecante nella sua verità. È ora che Platone affonda il colpo più pesante, dichiarando ch’egli, generando quel dolore, anche se a fronte di un bene immensamente più grande, andrebbe incontro a morte certa.

Desidero soffermarmi sull’atteggiamento cieco dei prigionieri che non sono capaci di ascoltare la proposta di cambiamento da parte dell’uomo che è ridisceso nella caverna. Uscendo un poco dal testo platonico, in cui lo scarto comunicativo è uno scarto quasi ontologico per il quale quella comunicazione è fondamentalmente impossibile, vorrei riflettere sulla sordità cieca dei prigionieri nel non saper e non voler ascoltare quello che è pur sempre un compagno cha ha fatto un’esperienza diversa, anzi: l’unico ad averla fatta e l’unico, quindi, a portare una proposta differente. L’ostinatezza con la quale i prigionieri perseverano non in una posizione particolare, ma nella supposta sicurezza di una non-vista che non è mai stata messa neanche lontanamente in discussione è forse, proprio in termini di atteggiamento, ciò che è più straordinariamente ci parla dell’oggi nel mito di Platone. Se sapere di non sapere era il seme sparso da Socrate di contro al sapere creduto tale, Platone non si ferma a smascherare quella falsità, ma offre il gancio per riscattarsi da quella posizione di ignoranza, offrendo anzitutto un punto di vista diverso da poter mettere in pratica per passare dalla cecità alla vista. Per questo l’atteggiamento con il quale non è accolto questo atto fa ancora più male; per questo è devastante – almeno per chi ha la vista per potersene accorgersene e la disponibilità all’atto etico e all’assunzione delle sue conseguenze – imbattersi quotidianamente in comportamenti respingenti perché costruiti su fragilità enormi nascoste dietro incrollabili certezze ostentate con spavalderia, laddove la certezza tradisce goffamente una grande ignoranza.
Ci siamo fatti aiutare, in questi ragionamenti, dal mito. Un’attenzione che prego la lettrice o il lettore di avere è quella di non incorrere nell’opinione iniziale di Glaucone, il quale, in apertura del mito, mentre viene descritta la scenografia della caverna, ferma il dialogo per dire a Socrate (personaggio): «Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi» (Ibi, 515a). Accanto a ciò, riporto con affetto un aneddoto: avendo avuto la fortuna di studiare con Umberto Curi, ricordo la chiusura del corso di Storia della Filosofia al primo anno, le cui ore conclusive furono dedicate al mito della caverna. L’ormai anziano Professore, rivolgendosi alla platea di matricole, con gli occhi lucidi, ci licenziò con un sussurro che ancora oggi risuona forte: «Siate liberatori».

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