Tutte le vacche sono. A proposito del naturalismo critico

Autore

Mariano Croce, Emilia Margoni, Andrea Salvatore
Mariano Croce Mariano Croce insegna filosofia politica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa di critica sociale, postcritica, battaglie LGBTIAQ+ e politiche della trasformazione sociale. Scrive per portali letterari come Minima&Moralia, OperaViva, Limina. Emilia Margoni Fisica di formazione e filosofa di professione, nella sua ricerca dottorale in filosofia della fisica guarda ai tentativi più promettenti di conciliare la teoria della relatività con la meccanica quantistica. Collabora regolarmente col portale letterario Doppiozero. Andrea Salvatore Insegna filosofia politica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa di anarchismo e di conflitti politici. Collabora con i portali Leparoleelecose, Minima&Moralia, Operaviva.

Proponiamo un testo che approfondisce l’argomento affrontato nel numero di febbraio e che dialoga sul Naturalismo Critico

Pare che in alcune malattie che colpiscono la memoria, prima di nuove e più severe acuzie, il paziente transiti per momenti di lucidità, che ristabiliscono una presa sul reale capace di illudere e presto ahinoi deludere tutti i suoi affetti a proposito di una guarigione del tutto insperata. A noi sembra sia questa la condizione odierna della teoria critica, che va ingrossando uno stato di vitale resipiscenza con energiche insufflate di naturalismo, lasciate aleggiare sul proprio corpo con aspersorio pendulo, come a officiare una sorta di auto-esorcismo. Il punto, se si vuole, può essere riportato con una sintesi che certamente non soddisferà autrici e autori del rito: a lungo, troppo a lungo, la teoria critica ha esercitato la propria indubbia influenza, concettuale e pratica, nel campo di un pensiero novecentesco che ha fatto di tutto per nutrire il mitologema della cultura come opposta alla natura. L’idea, tipica di un novero così vasto di paradigmi che sarebbe vano tentare di farne menzione, è quella di una prima natura, trapunta di istinti, pulsioni, affetti pre-linguistici, che ha da essere superata da una seconda natura, il mondo solo-umano del linguaggio, fatto di quei simboli che consentono la presa di distanza tra la realtà materiale e la sua elaborazione concettuale ed epistemica. Questa distinzione tutta tardo-moderna ha via via prodotto una sorta di effetto collaterale, secondo cui l’oggetto della critica non può che essere l’insieme simbolico-linguistico di strumenti che consentono l’articolazione di questa salvifica seconda natura. La critica servirebbe così a denunciare come occulti meccanismi di potere e di dominio tendano a presentare la cultura come affetta dallo stesso vizio della natura, vale a dire quello di essere astorica, immutabile, inscritta nel genoma delle identità individuali e collettive. La critica, insomma, storicizza e così libera da meccanismi oppressivi che denaturalizzano e alienano. Eppure, per forza di questo ideale quasi-eroico, si faceva un duplice disservizio: si riduceva la natura a fatto bruto senza storia, mentre la cultura veniva ipostatizzata come unico oggetto degno di essere indagato nei suoi meccanismi di copertura e sfruttamento. 

La vicenda è troppo nota perché la si debba percorrere di nuovo. Sicché, passiamo al ravvedimento operoso di alcuni recenti e apprezzabili rivoli della teoria critica. L’idea dell’autrice e degli autori del Manifesto per un naturalismo critico è quella di recuperare un concetto di natura tratto fuori dall’archivio angusto degli oggetti caricaturali della filosofia tardo-moderna e riportarlo al centro della speculazione filosofica. A loro avviso, occorre immaginare una natura al plurale, come insieme delle circostanze materiali entro le quali gli esseri umani elaborano le loro risposte all’ambiente. La teoria critica per i giorni nostri deve quindi prendere le distanze sia da chi perde traccia dei confini tra natura e cultura, come quelle nuove ontologie che tendono a naturalizzare tutti i simboli con le loro semiotiche materiali, sia da chi vede nella natura un puro meccanismo di conservazione dello status quo, là dove essa viene utilizzata come dispositivo che giustifica, senza ulteriore appello, una serie di costrutti culturali che invero nulla hanno di naturale (ad esempio, il genere, il sesso, il colore della pelle). Insomma, il naturalismo critico mobilita un concetto di natura sottile ma non diafano, tale da non poter ridursi a pura invenzione dei dominatori né lasciarsi risucchiare nei semplicismi di chi pensa che non si sia mai stati moderni. 

Il problema è che chi scrive non intravvede l’elemento di novità, a meno che appunto non lo si legga come crisi interna della teoria critica, recupero di una natura che il Novecento critico ha racchiuso nell’atlante degli oggetti non-esistenti, oppure, al meglio, ha presentato come residuo di cui la cultura si libera attraverso i suoi arnesi linguistici. In fondo, la natura di cui si parla nel Manifesto è quel nesso ibrido che emerge dalle attività con cui l’essere umano si costruisce gli strumenti per superare la propria carenza istintuale. Quella natura, tutt’altro che vituperata, che era al centro delle riflessioni dell’antropologia filosofica tedesca e che nel secondo Novecento è rivissuta nelle riflessioni neo-wittgensteiniane e neo-pragmatiste di chi in Italia meditava sulle forme di vita – si pensi, tra gli altri (pochi), ai lavori di Paolo Virno e Massimo De Carolis. Insomma, ci si dice che, per comprendere una cultura, non si può intendere la natura come zavorra inerte di cui ci si deve liberare, ma come serie di limiti e possibilità materiali che incidono attivamente sulla costruzione dell’universo simbolico. Se così è, sotto il sole della teoria critica, il nuovo che s’intravvede è poco e poco scalda.

Ma chi qui scrive non può nascondere più di qualche simpatia per una di quelle ali estreme che il naturalismo critico vorrebbe mettere fuori dall’ordine costituzionale di un pensiero per bene, ovvero quell’ontologia piatta da cui i naturalisti critici prendono accortissime distanze. Il punto di dissenso consisterebbe nella superficiale dismissione della distinzione stessa tra natura e società. Eppure, i piattontologi (in particolare Bruno Latour, ma non solo lui) non tanto negano l’esistenza di quel che va chiamandosi “sociale”, quanto insistono sul fatto che tutto ciò che è sociale, come tutto ciò che è naturale, è comunque un ibrido, ovvero un assemblaggio di elementi materiali, che perimetrano le possibilità linguistiche e concettuali degli animali umani. Detto in termini assolutamente semplici, la produzione di un universo simbolico insiste su una materialità che ha caratteristiche sue proprie e che, in virtù di queste, esercita effetti sulle produzioni umane. La piattezza, in tal senso, è un invito a non attribuire, come si è sin troppo fatto, più valore all’uno e all’altro dei due poli della materialità e della semiosi. Ora, crediamo sia più o meno questa l’intuizione cui il naturalismo critico cerca di dar corpo e che già era sottesa all’antropologia filosofica, salvo poi ripiegarsi, appena possibile, sullo studio dei fenomeni culturali e lasciare alle scienze dure l’incombenza di studiare la realtà materiale. E, per tale ragione, se si enfatizzasse l’alleanza un poco spuria e poco santa con l’ontologia piatta, forse del naturalismo critico si potrebbe esaltare una capacità innovativa più probante e dinamica, capace di andare ben oltre il ruolo non-detto e auto-ascritto di tarlo della coscienza infelice della teoria critica. Ma questo è solo un sospetto, e, si sa, il sospetto è appannaggio dei critici. Lasciamo quindi che valutino, in caso, costoro.

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