Sulla soglia. Il piacere e il terrore della guerra

Autore

Ugo Morelli
Ugo Morelli, psicologo, studioso di scienze cognitive e scrittore, oggi insegna Scienze Cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità al DIARC, Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli; è Direttore Scientifico del Corso Executive di alta formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso CUOA Business School, Altavilla Vicentina. Già professore presso le Università degli Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni, tra le quali: Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Noi, infanti planetari, Meltemi, Milano 2017; Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018; Noi siamo un dialogo, Città Nuova Editrice, Roma 2020; I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020. Collabora stabilmente con Animazione Sociale, Persone & Conoscenza, Sviluppo & Organizzazione, doppiozero, i dorsi del Corriere della Sera del Trentino, dell’Alto Adige, del Veneto e di Bologna, e con Il Mattino di Napoli.

Una breve storia

Si avvicina e protende la mano. Con uno scopo evidente: fare una carezza al bambino che gli sta accanto. Il tocco atteso però non riesce ad andare a buon fine. Prima che accada il contatto, l’altro allunga il braccio e con una spinta lo fa cadere di lato. Lo stava cercando col gesto della mano, ma chissà cosa ha suscitato quel gesto. Un tentativo di approssimazione che si traduce all’istante in un atto aggressivo. Il primo dei due bambini, che ancora non camminano, non si arrende. Puntando i piedi su uno dei cuscini sui quali sono seduti, si rimette a sedere e si avvicina di nuovo all’altro riprovando ad accarezzarlo. La spinta questa volta è ancora più vigorosa. Ma non basta a distogliere il primo dal tentativo di contatto. Né dissuade però l’altro dalla negazione, quando il primo ci riprova. Cadendo ancora una volta di lato, il bambino che voleva fare una carezza al suo vicino questa volta si mette a piangere. L’altro allora si avvicina e con inequivocabile mimica facciale e postura corporea inizia a spingerlo con più forza. Fino a quando, spingendolo, non lo fa rotolare fuori dal tappeto. Dopodiché, appagato e vincente si ritira nel proprio spazio, incurante delle urla e dei pianti dell’altro.

Prendiamo in considerazione una frase di questo breve racconto relativo a una situazione realmente osservata:

L’altro allora si avvicina e con inequivocabile mimica facciale e postura corporea inizia a spingerlo con più forza…”

Una variazione di quella situazione potrebbe essere descritta dalla seguente frase, che introduce una evoluzione diversa laddove si situa un punto di soglia:

L’altro allora si avvicina e con inequivocabile mimica facciale e postura corporea inizia a consolarlo abbracciandolo o…a piangere insieme a lui.

Dal confronto fra le due situazioni nasce un’ipotesi sulla distruttività e la guerra che le considera come una possibilità umana, una possibilità di soglia, dalla quale una delle direzioni che può scaturirne è l’attrazione desiderante e giocosa del piacere che deriva dalla sofferenza e dall’annientamento dell’altro. Qualora dal livello di coppia si passi a quello di gruppo o collettivo, i rinforzi derivanti dalla molteplicità condivisa possono produrre, e producono, macchine di distruzione basate sul principio del piacere, fino all’appagamento e alla lunga elaborazione della colpa. 

Una simile ipotesi implica la necessità di accogliere l’inconscio come forza generativa più che come difesa. Sembra importante privilegiare una lettura psicoanalitica dei fenomeni intesa come esperienza radicale di apertura [Fachinelli, E., (2022), Esercizi di psicanalisi, Feltrinelli, Milano], volta a comprendere anche uno dei fenomeni più perturbanti della nostra vita collettiva, come la guerra. Prima ancora che una terapeutica, solo una comprensione derivante da un adeguato esame di realtà potrà aprire a qualche possibilità di intervento per prevenire la distruttività umana. Per ora, siamo ben lontani da una comprensione attendibile, e il moralismo non aiuta.

Domande

Da cosa è governata la reiterazione compulsiva che trasforma l’aggressività, l’atto di avvicinarsi così caratterizzante gli animali sociali che siamo, in atto distruttivo? Siamo di fronte al dolore e alla morte dell’altro che perseguiremmo come elaborazione paranoide del lutto e della nostra angoscia di morte, o si può ipotizzare che qualcos’altro si agiti e che debba essere considerato per comprendere la distruttività umana? Non c’è forse qualcosa che può avere a che fare con il desiderio e la giocosità come emozioni di base, che in ragione di una certa mediazione istituzionale e collettiva che ci fa regredire ad orda, muove comportamenti individuali e collettivi che possiamo connotare moralmente come cinici e distruttivi? Qual è il bivio che imbocchiamo in direzione della distruttività, scegliendo di non sostare nell’elaborazione delle differenze mediante il linguaggio e nella buona gestione del conflitto? Cosa accade una volta che, superata la soglia, iniziamo a percorrere la via distruttiva?

Dalle microaggressioni quotidiane alla guerra tra popoli

Un esame di realtà è necessario, a fronte dell’insufficienza e del fallimento delle invocazioni morali che denunciano, giustamente, la distruttività umana, dalle microaggressioni [Wing Sue, D., Spanieman, L. B., (2022), Le microaggressioni. La natura invisibile delle discriminazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano] alla guerra, come esecrabili e da evitare; come da interrompere per ritornare ad una situazione pacifica.

Non è mai stato facile stabilire che cosa sia una situazione pacifica. Possiamo immaginare che si tratti di una situazione di accordo tacito, ma è difficile pensare che in ogni situazione di accordo non intervenga, prima o poi, un motivo di confronto su qualche differenza. Come sarà affrontato? Valorizzando i reciproci punti di vista e definendo delle rinunce relative da parte di ognuno, insomma ricorrendo ad una forma efficace di gestione del conflitto come prevenzione dello scontro, come avrebbe detto Luigi Pagliarani [L. Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nella società, Guerini e associati, Milano 1993], oppure degradando verso l’antagonismo? Al protrarsi di situazioni di latente accordo, inoltre, possono intervenire, come è noto, noia o indifferenza, che si configurano come focolai di potenziali forme di antagonismo e, quindi, di aggressione e di guerra. Lo stesso costrutto di non-violenza mostra limiti euristici ed esperienziali. Ogni azione che riguardi e coinvolga un altro, intervenendo nel suo mondo vitale, è una violazione almeno relativa della sua autonomia. La violazione è implicita, almeno in una certa misura, nell’espressione della relazione stessa. 

Lo sfogo pulsionale e compensativo a partire dal cosiddetto istinto di morte forse non può bastare.

Nel corso dell’eccidio in Ruanda, quello che sentiva coloro che erano barricati nelle case era l’equivalente degli echi di una grande festa. Le radici dell’odio collettivo richiedono, anche secondo M. Balint, la considerazione dell’organizzazione relazionale e istituzionale che favorisce e incentiva la traduzione dell’aggressività in distruttività. Non è possibile immaginare di costruire una via di comprensione della distruttività umana senza cercare di comporre l’attenzione al ruolo degli antecedenti evolutivi nelle manifestazioni aggressive e distruttive; del ruolo dei processi inconsci, di quelli psico-sociali e di quelli istituzionali.

Sappiamo oggi che vi sono aree cerebrali come l’insula destra, la corteccia destra e il giro fronto-mediale destro che risultano correlati linearmente con i livelli dichiarati di odio. Non solo ma il modello di attività cerebrale che opera nel contesto dell’odio, sebbene distinto dal modello di attività correlato all’amore romantico, condivide tuttavia due aree con quest’ultimo, vale a dire il putamen e l’insula. [Zeki S., Romaya J. P., (2008), Neural Correlates of Hate, Plos ONE 3(10): e3556].

Abbiamo potuto riconoscere, da oltre cinquant’anni e grazie al lavoro di Franco Fornari [Fornari, F., (2023), Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano] e Luigi Pagliarani, l’ipotesi che la guerra sia correlata ad una elaborazione solo paranoica del lutto, cioè ad una difesa dalle angosce psicotiche depressive e persecutorie che accompagnano il nostro rapporto interno con ciò che è terrificante. Non si tratterebbe, perciò, di una regressione della vita umana allo stadio dei comportamenti degli altri animali, ma del dispiegamento di istanze pulsionali che provengono dall’inconscio.

Rimane però la domanda di fondo: che cosa induce e determina il salto dal mordicchiare al mordere, per dirla con Gregory Bateson? Il “fare come se”, rimanendo al di qua della soglia della distruttività, accompagna ogni forma di approssimazione intersoggettiva e presidia ad ogni processo di individuazione. Quel piacere regolato può evolversi in piacere praticato a certe condizioni, per divenire travolgente e incontrollato. La tensione distruttiva a quel punto non si ferma sulla soglia per salvare l’oggetto buono, ma il piacere deriva dal distruggerlo.

È forse di una certa importanza domandarsi se si tratti solo di una posizione difensiva e, quindi, compensativa, o non vi siano anche in azione, nell’avvento della distruttività, fattori generativi che volgono in quella direzione il desiderio e la giocosità, superando in direzione distruttiva, appunto, la soglia dell’investimento nel perseguimento del piacere. 

La distruttività come espressione del piacere del potere e delle sue malattie

La guerra tra popoli e paesi, e l’antagonismo distruttivo tra gruppi e individui diffuso nella vita di ogni giorno, richiedono una considerazione attenta dell’humus in cui si generano. La distruttività è una forma di esercizio del potere, nelle relazioni di coppia e supportata dai comportamenti a massa collettivi. Comprendere le malattie del potere può aiutare ad esplorare, con ogni probabilità, il terreno di coltura dell’odio e della distruttività. Se c’è un modo per comprendere le fenomenologie del potere, in particolare nelle società, nelle organizzazioni e nelle istituzioni odierne, è studiarne le dinamiche perverse e le sintomatologie che portano alle cattive forme del suo esercizio; quelle che con un’espressione sintetica possiamo chiamare malattie del potere. Le cattive forme dell’esercizio del potere risultano quasi sempre connesse all’attivazione intensiva di paura e desiderio, spesso in modi incontrollabili e incontrollati. Pericle domina da solo la vita politica ateniese con una concentrazione altissima di potere nelle proprie mani. Non solo, ma mentre conduce Atene ad una fioritura economica artistica e culturale che è faro dell’antichità, trascina la città nella guerra del Peloponneso che si risolverà nell’annientamento della città. Non solo sono complesse le vie del potere, ma soggette a degenerazioni patologiche, a vere e proprie malattie che attraversano la vita di tutti, le realtà organizzate e le istituzioni che creiamo e in cui viviamo, incluse quelle democratiche, e la storia in ogni periodo. Perché come scrive Giulio Busi recensendo il libro di Bettina Stangneth su Karl Adolf Eichmann: “Il male è sfrontato, tenace, vero” [G. Busi, Il male consapevole, il Sole 24 ore, 13 agosto 2017; B. Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, Luiss University Press, Roma 2017].

E ora?Siamo di nuovi risvegliati dal male, soprattutto perché lo percepiamo vicino, con la tragedia russo-ucraina. Non si può certo sostenere che di guerre e tragedie distruttive causate dall’uomo sull’uomo non ce ne siano state in questi anni e non ce ne siano oggi in altre parti del mondo. L’effetto distanza è un altro dei nostri autoinganni, per noi che siamo alla ricerca di una rassicurazione ad ogni costo. Era stato Carlo Ginzburg, da storico, a mostrarci il ruolo della distanza in Occhiacci di legno. Dieci riflessioni sulla distanza, riedito da Quodlibet nel 2019. Ma ancor prima l’effetto Milgram era stato rilevato fin dal 1961 e aveva mostrato cosa succede con la distanza a noi umani. Ora la guerra è vicina e diventa “nostra” ogni giorno di più. L’escalation si è innescata e procede come da manuale, mettendo in discussione anche il deterrente della guerra atomica. Solo un esame di realtà dei nostri comportamenti aggressivi e distruttivi, unitamente all’approfondimento delle strategie per la gestione non distruttiva dei conflitti, ci potranno aiutare. Riusciremo a fermarci prima che si espanda ulteriormente e prenda il definitivo sopravvento il piacere della distruttività?

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