«Fu a questo punto che mi venne l’idea (e chi sa a quanti è venuta!) di proporre l’erezione di un ossario per tutte queste povere membra sparse lassù. In alto non c’è pace, non c’è riposo, non c’è sepolcro. […] Basta una costruzione semplicissima, ma solida come sanno fare i nostri montanari, sormontata da una croce. […] Sorga questo semplice monumento come simbolo di pietà e di gratitudine verso i morti della guerra di liberazione e come prova della nostra fede che queste ossa un dì verranno richiamate dal loro Creatore ad una nuova vita. E se, come è avvenuto di altri ossari, si vorranno collocare, accanto ai nostri, anche i morti dell’altra sponda, meglio ancora. Oltre la tomba non vive ira nemica, e questa gran croce sulla strada di Rolle dovrà ricordare ai viandanti che queste sono le ultime vittime d’un mondo che finisce. Una nuova vita, un mondo diverso deve sorgere sulle rovine, e sarà il mondo della fratellanza dei popoli e della libertà delle nazioni».
Con queste parole il 22 agosto 1919 Alcide De Gasperi dalle colonne de Il Nuovo Trentino conclude il racconto di una recente escursione in montagna, nelle vicinanze di Passo Rolle (Trentino), intrapresa per visitare la vecchia prima linea italo-austriaca. La constatazione dello stato di degrado in cui versavano tanto le trincee abbandonate quanto i vari, piccoli, cimiteri di guerra, lo spinge a proporre la costruzione di un ossario comune a Paneveggio, in memoria di tutti i caduti in guerra, sia imperiali, che italiani. In modo da non dimenticare tutti coloro che erano morti e che in molti casi giacevano ancora insepolti tra trincee e ricoveri.
La proposta del trentino, già membro del Parlamento viennese e futuro deputato del Regno d’Italia, costituisce un esempio evidente di come, a quasi un anno di distanza dalla fine del conflitto, l’impatto dei combattimenti fosse ancora perfettamente riscontrabile da chi si avventurava in numerosi teatri di guerra, quasi si trattasse ancora del giorno successivo all’armistizio. Non era affatto raro imbattersi, soprattutto tra le cime, nelle grandi foreste o nei luoghi più isolati, in cadaveri abbandonati alla luce del sole o sepolti alla bell’e meglio in temporanei cimiteri di guerra vicini alle prime linee. La situazione era talmente conosciuta tra le popolazioni che diversi governi, da un lato, dovettero emanare rigide direttive che impedissero alle famiglie di provare a cercare in modo autonomo i cadaveri dei propri cari rimasti insepolti o addirittura esumarli dai cimiteri campali e, dall’altro, avviarono in pochi mesi la realizzazione di grandi sacrari militari dove raccogliere in modo ordinato le spoglie di centinaia, se non migliaia, di giovani caduti.
Questi cimiteri divennero fin da subito siti di imprescindibile importanza a livello statale per la commemorazione civile di fronte all’enormità della tragedia che interi Paesi avevano appena vissuto. Il loro compito fu, tuttavia, anche di tipo spirituale: la sepoltura nel grande cimitero, spesso allestito in località dall’alto valore simbolico per il ruolo avuto nel corso del conflitto, doveva rimandare a un ideale e richiamare la narrazione del militare sacrificatosi per la sopravvivenza della patria o la gloria della nazione. Una sorta di «templi del culto nazionale», per riprendere la definizione utilizzata da George Mosse.
Accanto ai cimiteri giunsero vie, piazze, scuole e case popolari tutte titolate a luoghi e protagonisti della guerra all’interno di grandi progetti di educazione nazionale. In questo contesto i veri nuovi protagonisti furono però i monumenti commemorativi, eretti con una capillarità ancora oggi ben riscontrabile nelle nostre città e sobborghi. La costruzione sistematica dei monumenti ai caduti li rese fin da subito i luoghi ideali per rituali e cerimonie collettive, siti dove le persone potevano manifestare il proprio cordoglio e renderlo al contempo pubblico, condivisibile, superando la dimensione individuale. Al loro interno si trovano ancora oggi intrecciati in misura variabile l’esaltazione del sacrificio glorioso con l’espressione della perdita tragica e intollerabile. Lo stesso significato della morte venne reinterpretato e letto talvolta come un debito contratto dai sopravvissuti nei loro confronti. Caratteristica apparve anche la volontà di creare dei luoghi simbolicamente protetti dall’ambiente circostante, da qui la presenza di siepi, catene o vialetti d’accesso.
Il confronto che l’Europa tutta, per la prima volta nella sua storia, dovette avere con i milioni di persone morte costrinse in modo trasversale le rispettive comunità nazionali a elaborare nuovi linguaggi per affrontare i lutti e la scomparsa di un’intera generazione. In molti casi, già durante la guerra, si era venuto a creare un sistema di forme espressive, un insieme di rituali dedicati alla memoria dei caduti e un recupero di antiche fantasie apocalittiche e tradizioni religiose che segnarono profondamente le popolazioni dell’epoca. Tutto ciò fece sviluppare un vero e proprio “linguaggio del lutto” che valicò i confini dei singoli stati attingendo a simboli, abitudini, narrazioni tra loro molto simili e con elementi ricorrenti. Secondo gli spunti dati da Jay Winter, uno dei più importanti storici europei che hanno scritto su questo argomento, la codificazione culturale del lutto è avvenuta attraverso tre sistemi: visivi (immagini, metafore), verbali (poesia, prosa) e sociali (iniziative locali e nazionali). Un lutto che divenne quindi mediatore tra il dolore, inteso come stato d’animo, e la perdita, una condizione in cui si vennero a trovare migliaia di famiglie. Accanto a ogni “comunità in lutto” nacquero con notevole rapidità articolati sistemi di mutuo aiuto che vennero in soccorso degli innumerevoli paesi che contavano almeno un caduto al proprio interno. In questo contesto interessante risulta essere il ruolo svolto da associazioni ed enti (su tutti la Croce Rossa) che operarono per chiarire definitivamente la sorte dei soldati ancora dispersi oppure individuare i luoghi in cui erano stati sepolti. Dato il così alto numero di coloro che non risultavano avere ricevuto sepoltura ufficiale, rimase infatti viva a lungo in svariate famiglie la speranza che i loro parenti fossero ancora vivi, magari dall’altra parte del mondo. Tra i casi limite è possibile citare quello dei soldati australiani venuti a combattere in Europa sotto le insegne dell’esercito britannico e per i quali l’arrivo di notizie in patria risultava estremamente lento e complicato.
Di fronte all’impossibilità di restituire realmente ogni defunto alle proprie famiglie, oppure di dare un nome a ciascun corpo, nei primi anni Venti grande rilievo assunsero le iniziative simboliche di rimpatrio dei caduti o le inumazioni di ideali “militi ignoti”, due azioni volte entrambe a rappresentare tutti coloro che la guerra aveva portato via e mai più restituito alla comunità. Progetti che si trasformarono in vere e proprie cerimonie di massa volte a rafforzare lo spirito nazionale e ad elevare il sacrificio per la patria come atto di supremo valore per ciascun cittadino. Progetti in questo senso si possono riscontrare in Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Italia, Belgio e Portogallo per citare i principali esempi.
Un intero mondo collegato al lutto ma lontano dalla memoria “materiale” del conflitto è invece quello rappresentato dalle diverse declinazioni di linguaggio utilizzate per esprimere la perdita durante e dopo la Grande Guerra. Dalle trasposizioni filmiche della guerra, inserite nel solco della tradizione religiosa popolare, alla tradizione grafica artistica di matrice francese, le “imagerie d’Epinal”, che conobbe una rinnovata fortuna nel corso del conflitto e in altre forme espressive ed artistiche che impressero e diffusero l’immaginario catastrofico dei loro autori. La guerra rappresentò un’importante cesura nell’utilizzo di scenari apocalittici, dove comparve l’uso massiccio dell’allegoria come tecnica di collegamento tra creatore e pubblico, artificio atto a descrivere la catastrofe bellica in corso e linguaggio per narrare l’orrore e lo stupore a cui anche gli artisti assistevano impotenti. Nel dopoguerra, come in molti monumenti ai caduti, comparvero anche nelle opere artistiche numerosi richiami alla speranza per un nuovo inizio, una rinascita. In questo contesto il sacro fece più volte ritorno nel vocabolario del lutto.
Nell’ambito della letteratura, romanzi e racconti recuperarono tematiche e immagini di tradizione classica, romantica e religiosa; si ritrovano anche in questo caso gli scenari apocalittici che aiutarono a descrivere le proporzioni del conflitto e allargarono il tempo del racconto verso una dimensione eterna, lontana dal tempo storico. La poesia di guerra divenne, invece, strumento usato soprattutto da poeti-soldati per raccogliere le riflessioni sui morti e la loro scomparsa andando in contrapposizione (e talvolta in polemica) con la letteratura e la poesia borghese elevata. Accanto al ricordo emerse decisamente il sentimento della pietà e addirittura dell’assunzione di colpe o responsabilità per le stragi avvenute.
Il caso della reazione collettiva al termine della Prima Guerra mondiale resterà, tuttavia, un laboratorio a sé stante nei decenni a venire, tanto era stato forte l’impatto esercitato dalle conseguenze del conflitto su tutte le popolazioni, al punto da rimuovere radicalmente l’aura di ottimismo ed entusiasmo che aveva accompagnato le entrate in guerra del 1914-1915.
Artisti, scrittori, reduci e intellettuali reagiranno in modo estremamente diverso al termine della Seconda guerra mondiale. Ancora riprendendo Winter
«in un certo senso, i morti delle due guerre mondiali vennero a costituire un’unica comunità di caduti. Ma con l’andar del tempo tanto il carattere politico del secondo conflitto quanto alcune sue raccapriccianti caratteristiche resero impossibile per molti sopravvissuti esprimere il proprio senso della perdita dopo il 1945 ricorrendo al linguaggio del cordoglio generato nel 1914-1918. […] Forse non esisteva una maniera adeguata per esprimere l’orrore e l’enormità delle atrocità di quel conflitto»¹.
Una tale rottura a livello di linguaggio avverrà anche per quanto riguarda il ricorso ad elementi religiosi o arcaici che scompaiono quasi del tutto dopo il 1945. In gran parte assente sarà anche l’ottimismo verso una rinascita e una ripartenza della nazione che era stato invece possibile trovare in numerosi esempi post 1918 che avevano interpretato la fine della guerra come una possibile risurrezione della società occidentale. Nonostante sia stato probabilmente a lungo sottovalutato, il 1945, sotto questa prospettiva, costituirà per la storia culturale europea e per il linguaggio delle società occidentali uno spartiacque decisamente più marcato rispetto al 1918.
¹ J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande guerra nella storia culturale europea, Il Mulino, 1998 (ed. orig. Sites of memory, sites of mourning. The Great War in European cultural history, Cambridge University Press, 1995), p. 18