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Questioni sulla guerra per Gianfranco Bettin

Autore

Gianfranco Bettin
(Marghera, Venezia, 1955) scrittore e saggista italiano. Ha insegnato e lavorato a lungo nel campo della ricerca sociale. Collabora a diversi quotidiani e riviste, tra cui il manifesto, i giornali locali del gruppo Repubblica-Espresso, il mensile Lo Straniero, Micromega. Ha esordito nel 1989 con Qualcosa che brucia, romanzo autobiografico ambientato nel degrado di Marghera. Si è specializzato nel romanzo-reportage (Eredi: da Pietro Maso a Erika e Omar, 1992; Sarajevo Maybe, 1994; Petrolkimiko, 1998; La strage. Piazza Fontana, verità e memoria, 1999, con M. Dianese) in cui l’attualità diventa materia della narrazione. In Nemmeno il destino (Feltrinelli 1997), Nebulosa del Boomerang (Feltrinelli 2004) e Le avventure di Numero Primo (Einaudi 2017), pur non rinunciando alla sua vena «civile», si è allontanato dalla cronaca per tornare all’invenzione di trame e personaggi. Nel 2019 è uscito Cracking (Mondadori). All’attività di scrittore è andato affiancando negli anni quella politica, sempre più consistente: dagli interventi giornalistici su temi politico-sociali e ambientali, sui quali ha pubblicato anche numerosi saggi come Il clima è fuori dai gangheri (Nottetempo 2004), all’attività nella Federazione dei Verdi.

[Dialogo con Ugo Morelli]

Considerando la storia e questo nostro difficile presente, attraversato da guerre vicine e lontane, possiamo considerare la guerra una malattia della civiltà?

Molte civiltà, se non tutte, sono state edificate con la guerra. Quindi, è difficile considerare una malattia ciò che in realtà ha contribuito, spesso in modo decisivo, a generare e consolidare un sistema. È vero, tuttavia, che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra e poi con la fine della Guerra fredda, si è giunti a considerare la guerra un elemento destabilizzante e, più radicalmente, antagonista appunto della civiltà (intesa come un sistema che si regge sullo stato di diritto al proprio interno e, sulla scena globale, sulle buone relazioni tra popoli e nazioni, integrate nelle istituzioni internazionali). In questo senso, forse più che una malattia, la guerra rappresenta una regressione, un’involuzione rispetto allo stadio di rapporti e di equilibri a cui, a un certo punto della storia umana, si è giunti.

Quale rapporto ritieni esista tra aggressività umana e distruttività?

La distruttività è una forma dell’aggressività, senza la quale non esisterebbe. Vale per i rapporti inter e intra personali e vale per le relazioni tra i popoli e gli stati. Mettere al bando l’aggressività, gestirla, addomesticarla e, sul piano delle relazioni sociali e istituzionali, interne e globali, imbrigliarla con regole, leggi e trattati, significa anche inibire la distruttività, depotenziarla. In casi particolari, è anche possibile separare l’aggressività dalla distruttività e, senza spegnerla, metterla al servizio di spinte vitali, come una specie di energia. Ma è un esercizio meno semplice di quel che sembri e si creda.

In alcuni studi abbiamo cercato di sostenere, nel corso del tempo, che la ricerca della buona elaborazione del conflitto avrebbe potuto e potrebbe aiutare a prevenire la guerra. Che cosa impedisce l’affermazione di una cultura del conflitto e del confronto, causando le degenerazioni antagonistiche?

Lo impedisce l’incapacità di gestire o anche solo di reggere la complessità, l’escursione emotiva e intellettuale che implica stare dentro ai conflitti senza eccedere nell’agirli, esprimendo radicalità senza volgerla in estremizzazione gratuita (che è sempre una forma di superficialità, l’opposto esatto della radicalità). Sconfinare nella violenza e nella distruttività, varcare anche il confine del bellico, è segno di tale incapacità, dell’illusione o della pretesa di inforcare scorciatoie, vie brevi e soluzioni pronte che invece quasi mai sono davvero possibili. L’ansia semplificatoria – tagliare il nodo anziché scioglierlo, come fece il drastico allievo di Aristotele – diseduca al conflitto e al confronto e spinge al mero scontro, spesso ottuso, niente di elaborato, niente di costruttivo.

Quale è stato e può essere il ruolo del pensiero non violento, delle esperienze di non violenza, pur così significative, nel creare una cultura del dialogo che cerchi di prevenire la distruttività?

Nella prevenzione della distruttività la nonviolenza ha dato e dà il meglio di sé. È uno strumento straordinario, da potenziare, scoprire e riscoprire, arricchire, diffondere. La sua sfida più difficile, e non risolta, sta però altrove, nell’intervento nei conflitti in corso, nell’aggressione dei prepotenti ai deboli, agli inermi, nelle guerre di invasione o di oppressione. La sua efficacia, in questi casi, è molto relativa. 

Nell’attuale guerra tra la Russia e l’Ucraina, oltre ai costi umani e ambientali e ai rischi di ulteriori escalation, quali pericoli vi sono per l’ordine liberal democratico?

L’ordine liberal-democratico è già stato compromesso nella vicenda russo-ucraina, ancor prima che la guerra scoppiasse con l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Il timore (fondato) che avvenisse, le manovre per condizionare i governi ucraini, i precedenti specifici di Putin nell’area ex sovietica, a cominciare dall’infame guerra in Cecenia, oltre ai metodi utilizzati da Putin all’interno della Russia, hanno pesato sull’andamento e sulla qualità della democrazia in Ucraina, che ha evidenti zone di opacità e arbitrio (motivate, appunto, prima con la minaccia e poi con l’invasione russa). Sempre, però, la guerra produce questa regressione della democrazia. Lo stesso Putin ha utilizzato le “minacce” alla sicurezza interna come formidabili armi propagandistiche e infine come motivazioni per la stretta repressiva, cioè per deformare lo statuto democratico della Federazione russa e impedirne un pieno e maturo sviluppo.

Tra guerra, distruttività umana e ecologia, quali interdipendenze ritieni evidenziabili?

La dissipazione e la degradazione degli ecosistemi, l’indifferenza verso la crisi climatica (e i tempi nuovi e le nuove priorità che dovrebbe imporre alla nostra civiltà), sono aspetti in parte di una propensione a (de)predare il patrimonio naturale e in parte di un’incapacità di leggere la nostra vicenda umana come interna a quella naturale, come se ci fossimo conquistati – o avessimo ereditato per diritto o editto divino, diciamo – una sorta di autosufficienza (e di superiorità) rispetto ad essa. Entrambi gli approcci, convergenti infine, preparano anche la guerra dentro l’umanità, ne ispirano la legittimità e ne motivano la necessità. Chi si reputa padrone della natura non esita a cercare di essere, con ogni mezzo, padrone della Storia.

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