In molti vocabolari le parole “guerra” e “conflitto” sono considerati sinonimi. Ma così non è perché, in realtà, la guerra è il fallimento del conflitto, che non necessariamente deve essere armato, ma anzi dovrebbe consistere soprattutto in una contrapposizione tra idee e tesi diverse. La guerra, insomma, è lo sbocco quasi inevitabile di quegli irrigidimenti che annichiliscono i ragionamenti. Proprio il conflitto di idee, come è stato magistralmente spiegato da Ugo Morelli in uno dei suoi libri (“Conflitto. Identità, interessi, culture”, Meltemi, 2006) avrebbe potuto essere l’unica strada – per venire ai nostri giorni – capace di impedire l’invasione russa dell’Ucraina. Però ancora una volta ha vinto la pigrizia perché, come aveva sottolineato Luigi Pagliarani, «ci vuole più coraggio nell’affrontare la complessità e conflittualità della pace che non nel fare la guerra».
E la guerra, alla fine, ha riproposto un trito canovaccio, già visto non soltanto dopo Monaco 1938, nel quale tutti coloro che aiutano gli invasi sono etichettati come “guerrafondai”, mentre quelli che manifestano per veder concretizzare le trattative di pace, sono considerati servi degli invasori. In casi estremi questo può anche essere vero, ma è certo che ridurre a due sole tesi contrapposte un argomento così complesso è un’offesa al concetto stesso di specie intelligente attribuito all’umanità. Ogni contrapposizione totale, infatti, nega qualsiasi approfondimento, impedisce di spiegare perché la si pensi in un certo modo, porta a rifiutare di capire l’altro e, quindi, a negare a sé stessi la possibilità di capire se si è sbagliato da qualche parte e se le proprie convinzioni possono, o devono, essere corrette, o addirittura cambiate.
In politica, quando la maggioranza – che non necessariamente è tale perché titolare della verità – pretende di procedere sulla propria strada senza tener conto degli altri, invocando la “governabilità”, la conseguenza inevitabile è l’indignazione di alcuni, o di molti, per decisioni prese dall’altro che non possono essere messe in discussione, ma solo accettate. E quasi sempre alla lunga l’indignazione finisce per trascolorare in rabbia e a innescare una qualche forma di protesta attiva contro conformismo, passività, indifferenza. Perché, come scriveva Ekkehard Krippendorff ne “L’arte di non essere governati” (Fazi, 2005), «il principio di insoddisfazione costituisce la vera fonte di energia del progresso».
Nascono, così, forme di protesta individuali, pacifiche nei confronti degli altri, ma non di sé stessi. Pensate a Socrate che si indigna contro una legge ingiusta che lo condanna a morte, ma esprime la sua superiorità morale rifiutando di contestare lo Stato e dandosi la morte. O ad Antigone che, davanti a una legge ingiusta, sceglie la strada opposta disobbedendo platealmente e accettando il supplizio. Oppure a Jan Palach che a Praga, nel 1968, decide di darsi fuoco per porre sotto l’attenzione del mondo le nefandezze dei sovietici che stanno invadendo la Cecoslovacchia.
Poi, a livello collettivo, la storia è piena di rivolte e rivoluzioni, che sono cose diverse: la rivolta, infatti, ha nella violenza la sua precipua caratteristica e anche il suo limite, visto che non porta a cambiamenti profondi e duraturi, ma soltanto a mutamenti apparenti e temporanei. La rivoluzione, invece, trova la propria sostanza non tanto nell’uso della forza, ma nel cambiamento deciso e stravolgente che provoca, capace di mutare in profondità e a lungo, soprattutto dal punto di vista sociale e quindi etico, la realtà nella quale si origina.
Nelle democrazie le forme di protesta sono soprattutto i cortei e le manifestazioni che normalmente sono eventi pacifici e possono degenerare in violenze, o per combinazioni fortuite, o perché qualcuno dei manifestanti, o delle forze dell’ordine, perde il controllo di sé stesso. O anche – ricordate il G8 di Genova? – se parti delle parti in causa scelgono deliberatamente l’uso della forza. Poi, con qualunque forma di governo, nascono i terrorismi, nelle loro varie forme, in cui sono le armi a entrare in campo.
Ma un popolo maturo rifiuta l’uso della forza e delle armi, anche perché sa che già le parole possono diventare armi, leggere ma potenzialmente letali, come un’arma pesante può essere il pensiero, se non si limita a formare ragionamenti e frasi che li rendano utilizzabili da tutti, ma deve tracciare tattiche e strategie fondamentali per dare concretezza ai propri obbiettivi. Per esempio, sarebbe sciocco pensare che la protesta possa sortire i medesimi effetti in qualsiasi sistema politico in cui prende vita. Non serve riferirsi a teocrazie, monarchie assolute, o dittature in cui la regola è la repressione: basta pensare ai diversi effetti che può avere in sistemi politici democratici, ma eletti con sistema proporzionale, o maggioritario.
In un proporzionale puro, infatti, una manifestazione può esercitare pressioni fortissime soprattutto sui partiti più piccoli che fanno parte della coalizione governativa: anche soltanto mezzo punto percentuale perduto tra gli insoddisfatti per una protesta non tenuta in considerazione può determinare una crisi del gruppo e, quindi, del governo. Dunque ogni partito diventa molto più sensibile alle necessità della piazza e attento alle sue indicazioni
Questo non succede, invece, se la maggioranza è composta da un partito soltanto, o da una coalizione in cui le insoddisfazioni di elettori ed eletti possono apparire facilmente assorbibili. Il maggioritario è richiesto della tanto invocata “governabilità”, che dovrebbe racchiudere la possibilità di progettare senza la fretta dettata dalla precarietà e, quindi, di fare buone leggi per la comunità, ma spesso, invece, è associata soltanto alla facilità di legiferare per venire incontro alla variabilità dei mercati finanziari, o per favorire la parte dell’elettorato che ha determinato il successo alle urne. Allora governabilità altro non significa che decisionismo che tocca il suo culmine in una dittatura monocratica.
Con il proporzionale i governi cadevano troppo spesso? Sì. Ma si guardi a come l’Italia è uscita dalla ricostruzione postbellica e poi è cresciuta con governi che cadevano e a come si è sgretolata con i governi teoricamente capaci di durare a lungo. E non è superfluo ricordare che le Costituzioni nascono per limitare il potere a chi rischia di averne troppo e per difendere coloro che il potere non hanno.
Resta il fatto che una manifestazione di protesta può incidere in maniera totalmente diversa su un governo di coalizione, o su uno che ha magari goduto di premi di maggioranza. Quindi appare altrettanto chiaro che coloro che non sono soddisfatti devono passare dall’opposizione, che è esclusivamente parlamentare, alla resistenza che, invece, è squisitamente popolare. In pratica, visto che la democrazia rappresentativa, anche a causa di leggi elettorali che tolgono potere di scelta agli elettori, finisce per rappresentare sempre meno il popolo, occorre ridare, almeno nella fase di contestazione e di proposta, spazio maggiore a una democrazia diretta che in questo periodo può esprimersi soltanto con la protesta sempre rigorosamente non violenta, ma ben decisa anche a non lasciarsi sottomettere dalla violenza altrui.
Una protesta che deve tornare a essere l’impulso primario di ogni fase politica senza lasciarsi irretire, appunto dalle accuse di “fare politica” fuori dal Parlamento. Ognuno di noi, in ogni momento, infatti fa politica. Pensate a quante manifestazioni sindacali sono state accusate di essere politiche. E, allora, perché non si è mai parlato di inerzia, o addirittura di acquiescenza politica quando i sindacati non sono scesi in piazza?
Anche nel discorso sulla guerra la protesta, di qualunque segno sia, non soltanto è lecita, ma democraticamente doverosa. La tesi espressa nel libro “Conflitto”, fa capire che il concetto di mantenere e alimentare la pace non è simile allo scivolare, bensì al camminare: non è un passare senza sobbalzi da un momento di tranquillità a un momento di tranquillità, ma è la gestione di un disequilibrio provocato dall’impulso della protesta a un altro equilibrio momentaneo destinato a tramutarsi in breve in un nuovo disequilibrio che porta, però, a una posizione più avanzata. Si deve passare, cioè, da un conflitto a un altro conflitto in un continuo e cosciente cadere controllato. Altrimenti, se temiamo il conflitto alimentato dalla protesta, finiamo deprecabilmente per far nascere un compromesso aprioristico dentro di noi, ancor prima che il conflitto possa diventare quello che dovrebbe essere: cioè una conseguenza commendevole dell’incontro con l’altro, un avvicinarsi delle rispettive diversità per permettere la convivenza.