Manifesto del Naturalismo Critico, 9: «La natura ha storie contingenti e plurali. È orientata al cambiamento e alla variazione. Il naturalismo critico riconosce la natura come ordinata e disordinata, in bilico tra stabilità e precarietà. La natura ha carattere transeunte».
Il secolo da cui veniamo, cercando di renderle giustizia, ha raccontato una doppia storia della natura: “la natura dice manifestazione e nascondimento”; “la natura è potenza metamorfica, energetica che sta prima di ogni forma vivente”. Forse di fronte alla crisi del nostro tempo, o piuttosto forse di fronte al modo in cui il nostro tempo è come sospeso fra la catastrofe che lo minaccia e l’urgenza di una passione che lo anima, scopriamo che questo doppio paradigma non ci permette più di vedere le storie contingenti e plurali della natura.
Limitandoci ad un unico esempio, anche questo esposto qui di necessità in forma scorciatissima, il pensiero biologico contemporaneo (penso alle ricerche riconducibili al modello della sintesi estesa evoluzionistica, o alla riflessione sui vincoli materiali della forma indagati nelle ricerche sull’origine della forma organica) ci presenta un fortissimo ritorno d’interesse per l’organismo nella sua singolarità formata ovvero – al di fuori di ogni riduzione alla sola dimensione quantitativa della variazione negli adattamenti funzionali – si offre come interesse per un rinnovato approccio capace di teorizzare la molteplicità irriducibile delle dimensioni che concorrono e cooperano nel dar origine alla forma organica e alla sua interazione con la realtà – tanto quella “interna” dello stesso organismo, quanto le relazioni con l’ambiente fisico e biotico, sino alle implicazioni comportamentali e persino sociali, culturali, simboliche.
L’elaborazione di un simile concetto di organismo implica la messa in luce di un sistema di relazioni che chiamano in causa non solo il farsi della forma organica e delle sue interazioni ambientali, ma anche, in modo del tutto specifico, le modalità possibili di costruzione dell’esperienza da parte di un organismo vivente.
In questa luce, il problema filosofico che pone il naturalismo critico non è forse dunque quello della relazione fra una riserva inattingibile e il mondo, fra un potenziale di trasformazione e ciò che ci circonda, quanto piuttosto il debordare del carattere inesauribile della realtà nel suo porsi fra la necessità della manifestazione nella formazione e lo scarto della forma nella sua singolarità irriducibile («identità senza sovrapposizione, differenza senza contraddizione, scarto dell’interno e dell’esterno che ne costituiscono il segreto natale», come dice l’ultimo Merleau-Ponty).
In qualche modo è come se dinanzi alle catastrofi attuali il pensiero ci conducesse a una inedita inversione della relazione fra energetica e dinamica interna della forma. Come se, nella relazione con la potenza metamorfica dell’energetica, la dinamica interna della forma costituisse lo scarto non preventivabile, a cui il pensiero deve sapere essere fedele. È così che l’essere umano non si pone più dinanzi alla natura come giudice o come signore, né illusoriamente si dice assolutamente parte di essa, ma piuttosto si riconosce in quello scarto fra l’interno e l’esterno, fra ordine e disordine, e fa di questa posizione il suo modo di essere occhio del mondo. Dice ancora Merleau-Ponty: «Questa lacerazione della riflessione (che esce da sé volendo rientrare in sé) può forse finire?»
Lontano dall’illusione mortifera di dominare la natura sottraendovisi, il naturalismo critico non teorizza certo un mero “indebolimento” del soggetto sovrano della modernità, ma piuttosto riconosce le forme di vita nella loro tangibile molteplicità, ed attende da tale molteplicità – dalle storie contingenti e plurali e dall’innovazione formale ed esistenziale mai preventivabile di cui sono capaci i viventi – lo spazio immaginativo per far ricominciare il futuro.