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Natura e capitalismo

Autore

Alfonso Maurizio Iacono
già professore ordinario di Storia della filosofia all’Università di Pisa, dove continua la sua attività di docente. E’ stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa (2003-2012) nonché Presidente del Sistema Museale d’Ateneo (2016-2017). Ha collaborato e collabora, tra l’altro, ai quotidiani Il Manifesto e Il Tirreno. Tra i suoi lavori più recenti: Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano, 2000; (con S. Viti), Le domande sono ciliegie, Manifestolibri, Roma 2000; Caminhos de saida do estado de menoredade , Lacerba, Rio de Janeiro 2001; Il borghese e il selvaggio, ETS, Pisa 20032; (con S.Viti), Per mari aperti, Manifestolibri, Roma 2003; Storia, verità, finzione, Manifestolibri, Roma 2006; L’illusione e il sostituto, Bruno Mondadori, Milano 2010; L’evento e l’osservatore, ETS, Pisa 20132; History and Theory of Fetishism, Palgrave MacMillan, New York 2016; Storie di mondi intermedi, ETS, Pisa 2016; Il sogno di una copia, Guerrini Scientifica, Milano 2016; Studi su Marx, ETS, Pisa 2018; The Bourgeois and the Savage, Palgrave MacMillan, New York, 2020.

Tanto per essere chiari, non credo che la natura possa essere salvata dalle catastrofi causate dall’azione umana finché sussisterà il capitalismo come modo di produzione dominante e prevarrà il neoliberismo come ideologia che lo accompagna e lo assiste. Chi ci crede o mente a sé stesso o mente agli altri. O a tutt’e due. L’idea che l’uomo è padrone e signore della natura e la può e deve sfruttare a suo vantaggio risale a Cartesio e a gran parte della filosofia della Modernità. Certo, né Cartesio né William Petty, il quale vedeva nello sporco delle città che crescevano il bello del progresso economico e sociale, potevano prevedere ciò che sarebbe avvenuto qualche secolo dopo, ma quella visione, che allora era rivoluzionaria, si è alla lunga tradotta nell’uso e nello sfruttamento sfrenato della natura con le conseguenze che tutti vediamo e facciamo finta di non vedere. Alla devastazione della natura si accompagna l’aumento delle diseguaglianze. Le due cose vanno di pari passo e si legano a una concezione della conoscenza che riduce le persone a cose e la natura a cosa. Quando Merleau-Ponty, criticando Cartesio, osservava che dopotutto il mondo è intorno a noi, non di fronte a noi, apriva una questione che è ancora oggi di drammatica attualità.  Cosa vuol dire che il mondo è intorno a noi? Vuol dire che è ambiente e che noi non ci collochiamo all’esterno di esso, guardandolo di fronte come fosse un oggetto. Se il mondo è intorno a noi, ciò significa che vi siamo dentro e non dobbiamo pensarlo come qualcosa da rappresentare frontalmente e da manipolare. Se invece il mondo è solo di fronte a noi, là dove la natura e le persone sono ridotti a cose, a merci da vendere, allora lo sguardo stupratore e la mano manipolatrice hanno la meglio.

La cosiddetta finestra albertiana è diventata quasi il sigillo del modo occidentale di concepire e costruire le immagini e, in un mondo globalizzato, circondati come siamo da dispositivi grandi e piccoli, computer, tablet, smartphone, di cui non sembra si possa più fare a meno, dimentichiamo che essi sono tutti un prolungamento e uno sviluppo di ciò che avvenne a Firenze nel XV secolo. Come la merce contiene in sé, nascondendola, la storia della sua produzione, dei rapporti sociali e di potere che la sottendono, così uno smartphone contiene in sé, proprio in quanto è anche una merce, la storia che risale alla finestra albertiana. E come se la finestra albertiana costituisse, per dirla con Husserl, la fondazione originaria. Vi è come un filo che, nel labirinto della modernità, collega quella finestra agli attuali dispositivi elettronici. Oggi stiamo in mezzo alle finestre, guardiamo attraverso le finestre, entriamo nelle finestre per saltare virtualmente oltre, assai più di prima. E’ lontano il tempo del Cantico dei cantici (2,9), quando i due fidanzati si guardano e si desiderano attraverso una finestra chiusa da una rete da cui si può sbirciare e intravedere. Forse è culturalmente e psicologicamente meno lontano il tempo in cui Albrecht Dürer in un’incisione frapponeva tra sé, pittore e osservatore, e una donna sdraiata e osservata, insomma fra un soggetto che domina e un oggetto da manipolare, una finestra dotata di reticolo, che non serve a coltivare come nel Cantico la reciprocità del desiderio, bensì ad applicare la riduzione dell’oggetto in cosa. Tanto è vero che, in un’altra incisione al posto della donna, vi è un liuto. Epistemologicamente, tra la donna e il liuto non c’è differenza. Entrambi sono oggetti da guardare e riprodurre analiticamente secondo quel metodo che più tardi Descartes eleverà a paradigma. Come ha osservato Georges Canguilhem a proposito di Descartes e della sua teoria del corpo-macchina: “Ci troviamo qui in presenza di un atteggiamento tipico dell’uomo occidentale. La meccanizzazione della vita dal punto di vista teorico, e l’utilizzazione tecnica dell’animale sono fatti inseparabili. L’uomo può divenire signore e possessore della natura solo a condizione di negare ogni finalità naturale e di considerare come semplice mezzo l’intera natura, compresa la natura apparentemente animata, fatta eccezione di lui stesso. Per questa via viene a legittimarsi la costruzione di un modello meccanico per il corpo vivente, compreso il corpo dell’uomo, dal momento che per Cartesio anche il corpo umano se non l’uomo è già una macchina”. Nelle due incisioni di Dürer, dove un reticolo della finestra permette di scomporre i corpi in tante parti, vi sono in nuce tutti gli elementi che portano a Descartes. Inoltre, l’immagine moderna della scienza può essere individuata attraverso tre caratteristiche ben sintetizzate da Georg von Wright. La prima riguarda una nuova concezione della natura e del rapporto che l’uomo instaura con essa, fondamentalmente basato sulla frontalità. “ L’uomo, scrive von Wright, sta di fronte alla natura come osservatore, per così dire «distaccato», ma anche come un suo manipolatore”¹. La seconda caratteristica riguarda il rapporto tutto-parti. Queste possono essere scomposte, analizzate e ricomposte per poi arrivare alle proprietà del tutto, così come si può fare attraverso il reticolo della finestra di Dürer e anche con l’orologio di Descartes. La terza caratteristica è l’esperimento in quanto ricerca sistemica delle cause che possiamo riprodurre ed eliminare per controllare gli effetti. “l’esperimento diventa così l’espressione della tendenza a manipolare la natura” ². Se l’osservazione della natura diventa soltanto frontale, è attraverso la frontalità che essa può essere manipolata, violentata, distrutta in nome del mercato e del profitto che si alimentano dello sfruttamento di esseri umani. Certo! E’ vero! Il capitalismo ha fatto grandi cose ed è stato anche rivoluzionario, ma a quale prezzo di natura e di uomini? E con quanta ipocrisia e falsa coscienza? Il fatto è che non sappiamo guardarci più intorno e proprio per questo, quando guardiamo di fronte, non riusciamo più a vedere al di là dell’orizzonte e ancora meno, al di qua, dentro noi stessi. Il problema non è solo storico, sociale, economico, è anche, e forse soprattutto, epistemologico.

¹ G.H. von Wright, Immagini della scienza e forme di razionalità, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 36.

² Ivi, p. 37.

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