Eccedenza. Siamo scivolati lí. Tutto è troppo. Addirittura avanza. E ci circonda, generando reattività; distratti, si diviene irrequieti.
Ecco il problema dell’eccedenza: il suo eccesso, quindi l’avanzo che non è più in relazione col tutto. La sua sovrabbondanza, esagerazione, esuberanza e sproporzione genera un resto che non ha luogo, non si incarna; esce dal sistema, ma resta.
La sua esistenza distrae e fa dimenticare che ciò che ci muove ed ‘emuove’, non è ciò che avanza, ma è la mancanza.
Ogni autentica pratica artistica è una pratica incarnata che nasce da una mancanza; come quell’architettura che si costituisce attraverso un’autentica esperienza emotiva e multisensoriale, portatrice simultaneamente di originaria•originalità (considerato che il nuovo diventa vecchio) quindi di meraviglia attraverso il potere di quella forma fondamentale, che è la medesima in un tempo circolare (più eloquente di quello lineare). Forma archetipica, quindi alla base della riconoscibilità di un patrimonio.
A proposito, qual è il patrimonio contemporaneo?
Se ci educassimo al meno, torneremmo a riconoscerlo, a vederlo.
La Terra lo suggerisce da tempo, per essere sostenuta nel sostenerci. Occorre essere in ascolto, andare oltre le reazioni sollecitate dall’eccedenza degli stimoli proposti ovunque – anche malgrado noi – nella nostra quotidianità, e riuscire ad agire liberi dai condizionamenti.
Intervenire sui condizionamenti, sulle credenze, porta a bellissime modificazioni mentali e percettive che rimuovono questa eccedenza e, insieme ad essa, il velo dell’ignoranza, che copre ciò che esiste.
Questa eccedenza, distraendo l’essere umano nei suoi aspetti fisici, emotivi, vitali, inconsci e intellettuali, impedisce l’espansione della consapevolezza che ha come urgenza quella di sanare un senso profondo di separazione.
L’eccedenza come sintomo dell’assenza, riempie la mancanza che nasce dall’innato senso di separazione e tradisce la meraviglia. Quest’ultima, vitale motore dell’incessante creazione e distruzione, coinvolge l’universo intero ed è alla base di tutta l’esistenza e di tutti i fenomeni naturali (la terribile bellezza del mondo animale; il dì che nasce ogni giorno e muore ogni notte; le stagioni che si susseguono ogni anno, che viene sostituito, senza obsolescenza – nei processi vitali non esiste l’obsolescenza). La meraviglia raggiunge e coinvolge anche l’essere umano se esiste la complessità che si apre alla rete di relazioni tra le varie parti di un tutto unificato. Anche la pandemia lo ha suggerito a suo modo.
L’eccedenza come sopra intesa impedisce questo divenire – che richiede necessariamente la relazione – ostacolando anche l’essere; addirittura oltrepassa la questione dell’avere. Continua a muoverci senza tregua, rischiando di fermarci intimamente.
Il tutto è un paradosso dell’esistenza, oltre che della fisica quantistica e del codice naturale che nell’eccedenza si chiama sostenibilità (talvolta un nuovo artificio che annulla l’ascolto e l’osservazione di ciò che manca in questa contemporaneità, aggiungendo altro, eccedendo appunto).
Per fortuna, come sempre, l’ambivalenza di una parola è il suo progetto e l’etimologia ci porta più in profondità, a confrontarci con ex cedere, col ritirarsi fuori, col camminare fuori. Allora all’eccedenza come superamento di un determinato limite per stare fuori, per evitare l’interno – come l’architettura eccedente, che separa l’interno dall’esterno concentrandosi sulla messa in scena – preferiamo qui il senso dell’eccedenza come oltre il limite, per crescere, per espandersi e scoprire che non esiste separazione tra interno ed esterno. Torna il codice naturale e tutto diviene sostenibile; senza etichette; nei fatti; oltre le parole svuotate o perdute.
Così ogni mancanza diviene conoscenza, diviene esperienza di superare i propri limiti e svela un potere da attivare. Il potenziale che sta nelle nostre mancanze coincide con possibili nuove energie da ritrovare e da rivelare; così come il potenziale dell’architettura contemporanea – nell’accezione di contemporaneità offerta da Agamben – sta nelle forme del vuoto. Oltre la superficie dei contenitori, oltre la delega ai tecnicismi, agli estetismi, ai mimetismi o ai contrasti, “può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità”, “una sfasatura e un anacronismo” (G. Agamben, 2008, p.14 e p. 3). Il dì nasce dall’oscurità.
Ecco il potere del lavoro dell’architettura: quando svela l’invisibile eccedenza, che non distorce la superficie distraendo e riempiendo spazi e tempi (non certo luoghi) svuotati, senza permettere di trasformare l’innata mancanza in potere.
Riempire la mancanza porta quel cedere comune a ‘eccesso’ come a ‘successo’, affine a cadere. Le eccedenze così intese passano, come le mode, perché non sono sostanziali, non nutrono; non sono sostenibili. Si occupano della superficie delle apparenze, deformando; appunto distraendo.
D’altra parte c’è il potere sostanziale dell’eccedenza, quello proprio delle opere di architettura: se la realtà di ciò che si vede eccede il suo fenomeno, allora l’eccedenza invisibile all’occhio, capace di trasformare l’indicibile in ineffabile, diviene prezioso tramite del risveglio dell’umano. E’ la sostanza di ogni pratica artistica, che va oltre il figurativo, oltre il soggetto e l’oggetto. Così accade a quell’architettura che va oltre la funzione, accogliendo l’uso anche poetico; e va oltre la figura e la materia e diviene Forma, ovvero capace di portare. L’eccedenza distrae, la Forma porta, accompagna e si fa carico di eguagliare il fine con l’origine. Ben oltre la messinscena di una certa eccedenza.
Evviva allora l’invisibile eccedenza: la forma responsabile che permette di accedere, di accostarsi alla verità per ognuno, all’autenticità che giace sempre nel fondo invisibile.
La via della forma diviene un percorso verso l’interno, verso quel luogo da cui ogni cosa ha origine, essenza del naturale processo creativo; l’originale. E l’eccedenza della forma davvero contemporanea raggiunge quel momento (dato che il luogo diviene esperienza!) originario; ha in sé la possibilità della genesi, da cui tutte le genti, e lo stesso mese di gennaio provengono: come la generazione che dopo ogni espiro suggerisce un inspiro e dopo una notte, un nuovo giorno, nella danza incessante che è la vita, nei suoi multiformi equilibri. Per questo l’architettura è il vuoto che poeticamente usiamo, una meridiana di luci e ombre; tempo della nostra esperienza portatrice di meraviglia. L’eccedenza così intesa ci conduce all’essenza, a ciò che costituisce qualcosa che, se la togliessimo, distruggerebbe il fatto in questione, ben oltre la cosa.
L’esperienza di considerare essenziali fatti dei quali prima neppure ci accorgevamo, mentre altri che ci sembravano importanti ci appaiono ora superflui, è peraltro un’esperienza che la pandemia, le guerre, le malattie e i dolori ci portano; di nuovo una mancanza. Incontrare il proprio limite permette di vedere l’invisibile eccedenza della pratica artistica che offre alle cose significati diversi da quello che credevamo. Diviene così parola e idea fondamentale e rigenerativa ovunque: il patrimonio, ha una sua stabilità, ma la contemporaneità ne chiede il necessario continuo aggiornamento. E così nasce l’opera, d’architettura o d’arte che sia. E con essa la Bellezza.
Invisibile eccedenza, fonte di bellezza, ti evochiamo in questo nuovo anno.