“Dal profondo conflitto tra l’insensato
dominio che trasmette
meccanicamente
e le forze educative autentiche
comunicanti
in modo creativo
ne risulterà
il destino del mondo”
Danilo Dolci
E’ tragicamente paradossale pensare che il sistema economico-finanziario affermatosi in questi decenni possa portare alla distruzione del pianeta e quindi anche di se stesso. Eppure è così, se pensiamo alla crisi climatica e all’escalation della guerra che ormai popolano i nostri incubi e soprattutto annientano quotidianamente la vita di tante persone, soprattutto quelle fragili, anche nel mondo occidentale e non solo più nei paesi che lo stesso sistema ha gravemente impoverito. Ricordo le parole di don Carlo Iadicicco, missionario nella Selva Amazzonica, che in un reportage dal Perù, parlando dello sfruttamento della Foresta e del commercio del legname, scriveva: “Gli indios sono teoricamente proprietari di venticinquemila ettari di foresta, potenzialmente ricchi, vivono di caccia, pesca e manioca; vendono cedro e caoba in cambio di qualche radioregistratore, di un orologio, di un motore adatto alla canoa e di qualche vestito. Chi ci guadagna davvero è il padrone dei trattori forestali e delle motoseghe. Chi ci perde davvero è la foresta e quelli che ci vivono dentro, uomini e animali. Cosicché, non c’è un metro di foresta che sfugge all’ingordigia del mercato, figlio di un modello economico ultraliberale, dogmatico e ottuso” (C. Iadicicco, Resistenza e resa degli indios della Foresta Amazzonica, Ed. Lavieri, 2005).
Le sofferenze del vivere quotidiano
Le ragioni del mercato hanno prevalso. Un sistema trainato da un capitalismo liberista sempre più aggressivo, con lo sviluppo delle piattaforme digitali, è riuscito a incunearsi anche nel senso dell’esistenza delle persone, ri-orientando l’immaginario individuale e collettivo. Il conflitto tra capitalismo e realtà sociale si è allargato in questi decenni dalla questione materiale, che ancora persiste – anzi si aggrava a vedere la crescita esponenziale delle disuguaglianze – a quella simbolica, che attiene alla colonizzazione del desiderio e quindi al campo delle scelte personali e collettive. È davvero stravagante dover riflettere sul fatto che all’aumento esponenziale delle opportunità derivanti dalle scoperte scientifiche e dalle innovazioni tecnologiche e tecniche, sono cresciuti in questi decenni i disagi materiali e immateriali e le sofferenze in vaste parti della popolazione mondiale. Stando agli ultimi dati forniti da Oxfam – la confederazione di ONG impegnata nella lotta alla povertà nel mondo – l’82% dell’incremento della ricchezza globale registrato nel 2017 è stato appannaggio dell’1% della popolazione più ricco, mentre il 50% più povero della popolazione mondiale non ha beneficiato di alcuna porzione di tale incremento. L’1% della popolazione continua a detenere più ricchezza del restante 99%. Nello stesso periodo in Italia, l’1% possedeva il 21,5% della ricchezza nazionale netta. Una quota che giunge al 40% per il 5% più garantito degli italiani.
Ciò che tuttavia impressiona, oltre ai dati, è il cinismo e l’aggressività di un sistema capitalistico che si arricchisce sui guai del mondo, di cui è in larghissima parte responsabile. Come è stato scritto di recente: “per i primi dieci miliardari il patrimonio dall’inizio della pandemia è addirittura aumentato di 540 miliardi di dollari. Non è certo sorprendente: da Jeff Bezos a Bill Gates, da Warren Buffet a Larry Page hanno tutti fondato imperi nei settori dove il blocco della mobilità si è rivelato un beneficio come per la tecnologia e l’e-commerce. O nella comunicazione digitale, che ci ha connessi anche se fisicamente distanziati”. (M. Girardo, Mai rassegnati all’impotenza. La forbice ricchi-poveri, i giusti obiettivi, Avvenire, 26 gennaio 2021).
Ma le sofferenze per molti non sono solo dovute alla carenza di beni materiali, spesso primari, ma anche ai problemi di salute mentale, intesa come parte intrinseca del nostro benessere individuale e collettivo. Stando alle cifre contenute nel rapporto World Mental Health dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un miliardo di persone nel mondo soffre di un disturbo mentale, il 14 per cento degli adolescenti ha un problema di salute mentale, mentre più di un decesso su 100 è dovuto a un suicidio e nel 58 per cento dei casi a togliersi la vita sono le persone con meno di 50 anni. Altri indicatori significativi, per comprendere il cattivo stato di salute mentale della popolazione – di cui parlano istituzioni e centri di ricerca competenti – riguardano l’aumento sia delle diagnosi di depressione che di patologie affini, sia della vendita di medicine psicotropiche, soprattutto nei paesi ad alto reddito. Esiste, anche in forme striscianti, non conclamate, una diffusa fenomenologia del mal di vivere, osservabile quotidianamente nei contesti famigliari e organizzativi, soprattutto nella criticità per molti a mantenere legami e relazioni in buono stato.
Un altro modo di relazionarci con gli altri e con la Terra
Nella splendida intervista di Ugo Morelli ad Amitav Ghosh, che appare su questo numero di Passion&Linguaggi, c’è un passaggio saliente nelle parole dello scrittore indiano, quando afferma che “la cosa che la pandemia ha chiarito è che molto di ciò che credevamo durante il periodo pre-pandemico fosse davvero una sorta di illusione ─ l’idea della padronanza umana, l’idea che gli esseri umani fossero saldamente al comando di tutto ciò che stava accadendo sul pianeta, l’idea che la tecnologia avesse risolto tutto ─ tutte queste idee sono ormai estinte. Dobbiamo cercare di trovare un altro modo di relazionarci gli uni con gli altri e con la Terra”.
Ascoltando parole così pesanti e impegnative, viene da chiedersi da dove è necessario ripartire per ripensare un altro modo di abitare la terra e di generare legami cooperativi tra le persone.
Spesso ascoltiamo una frase retorica, buona per tutte le occasioni, che suona più o meno così: “queste cose dovrebbero insegnarle a scuola”. In quest’affermazione è tuttavia contenuta la percezione di un’assenza o quanto meno di una debolezza di percorsi educativi capaci di contribuire a costruire cittadini appassionati del bene comune e vicendevole, quindi non solo delle proprie sorti, ma anche di quelle degli altri e del pianeta che ci ospita. Invece siamo tutti diventati consumatori compulsivi e grandi solisti nella ricerca della realizzazione di sè, all’interno di una società automatica manipolata dal capitalismo dell’ipercontrollo che, secondo Bernard Stiegler, mette in atto un condizionamento “dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana”. Mauro Magatti ha definito questo sistema “capitalismo tecno-nichilista” che induce una trasformazione che è insieme sociale, culturale e antropologica e produce una “libertà immaginaria” funzionale al sistema (M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, 2009). Lo stesso Pier Paolo Pasolini, a inizio anni ’60, aveva intravisto, ai suoi albori, lo sviluppo problematico di tale processo definendolo l’epoca della alienazione industriale.
Conoscere è sentire
Se per educazione intendiamo quel processo capace di far emergere il meglio di sé dalle persone, ossia una pratica di libertà, per citare Paulo Freire, oggi il suo compito primario è ricreare o allargare lo spazio della domanda di senso fortemente impoverita, che vuol dire anche ridare cittadinanza al conflitto generativo, eclissatosi nella nostra società insieme alle narrazioni ideologiche del ‘900 e all’avvento del pensiero unico. E’ un processo di lungo periodo, che trova i suoi ostacoli maggiori paradossalmente proprio nelle istituzioni scolastiche e formative investite anch’esse dalle logiche dell’aziendalizzazione, in quanto baricentrate sempre più sul mercato che sulle persone e sulle relazioni sociali. L’educazione è un’arte, quella della conoscenza, ci ricorda il filosofo Alfred North Whitehead; un’arte capace di mantenere integrate, in un insieme complesso e in un processo, percezioni, sentimenti, speranze, desideri, pensiero. Rileggendo alcuni suoi scritti degli anni ‘20 del Novecento, recentemente pubblicati da Raffaello Cortina e curati da Francesco Cappa (A. Whitehead, I fini dell’educazione, a cura di F. Cappa, Raffello Cortina editore, 2022), il filosofo inglese tratteggia in maniera superlativa la questione dell’educazione, la quale deve suscitare “un senso intimo della potenza delle idee, della bellezza delle idee e della struttura delle idee, insieme con un particolare corpo delle conoscenze che ha peculiari riferimenti alla vita dell’essere che lo possiede”. L’arte della conoscenza si iscrive oggi nella dinamica dell’imparare ad apprendere, importantissima, soprattutto per le giovani generazioni, per orientarsi tra la mole di informazioni disponibili e il saper decidere di sé, immaginando le forme dello stare al mondo nell’era nuova del digitale: non esistono soluzioni che non siano creatrici, suggerirebbero in proposito Deleuze e Guattari.
Un apprendimento che ha due dimensioni inseparabili, ci ricorda Ugo Morelli: il sapere (know how) e il sapere perché (know why). Un apprendimento che non può rimanere circoscritto al solo aspetto cognitivo ma che è inscindibile dalla dimensione intersoggettiva e dalle emozioni, che vuol dire anche rimettere in gioco il corpo in un contesto di virtualizzazione delle relazioni che tende a ridurre il contatto con l’altro. L’apprendimento è un abito senza cuciture, afferma Whitehead. Conoscere è sentire, direbbe Antonio Damasio, un concetto abbastanza prossimo a quanto affermato, nel 1725, da Giambattista Vico: “Gli uomini dapprima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura” (Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni).
È possibile trovare un altro modo di relazionarci gli uni con gli altri e con la Terra, come auspica Amitav Ghosh? Una strada, impervia ma obbligata, è certamente quella educativa, oltre a quella politica, che comunque ha bisogno di cittadini responsabili e attivi per rigenerarsi. Nella prospettiva pedagogica indicata da Whitehead. Il filosofo inglese appartenente alla corrente del naturalismo critico, parla della saggezza come fine dell’educazione, ossia la “capacità di trasformare ogni fase dell’esperienza immediata in qualcosa che si riempie di senso per sé e per le relazioni nelle quali siamo coinvolti”. Un’educazione capace di generare, anche politicamente, una “sensibilità del noi”, quell’educazione sentimentale, necessaria e urgente perché, come avrebbe detto Luigi Pagliarani, “in materia di amare siamo semi-analfabeti”.