Riflessioni in risposta al Manifesto del naturalismo critico per un ripensamento delle forme di vivibilità
Il documento “Naturalismo critico: un manifesto” apparso poche settimane fa sulla rivista Krisis e al quale questo numero di Passion&Linguaggi si propone di rispondere, si apre con una premessa decisiva. Decisiva perché dal suo incipit pone immediatamente il punto nodale del ragionamento che da quella premesse e da quelle tesi può scaturire su nuove forme di vivibilità.
«Questo manifesto è un invito. Invita diverse pratiche di critica sociale, filosofica, artistica e scientifica a prendere sul serio le enormi sfide che le nostre società si trovano ad affrontare nei confronti della natura interna ed esterna». (Cfr. premessa, https://criticalnaturalism.com/)
Natura interna ed esterna: la questione del rapporto che l’uomo ha intrattenuto, intrattiene e soprattutto intratterrà d’ora in avanti secondo le azioni stesse del manifesto è una questione di interazione tra la natura interna e la natura esterna dell’essere umano – ed entro questa cornice di senso dev’essere intrapresa la sfida di cui la natura stessa ormai con violenza ci chiede conto. Nessuna leva esteriore sarà infatti mai valida quanto una comprensione interna dell’urgenza del problema, espresso sia nei termini dei primordiali istinto e necessità di sopravvivenza, sia nei termini del pensiero riflessivo quale attributo altrettanto fondamentale dell’uomo. Soltanto l’essere umano è capace di una riflessione sulla natura: da questo onore gli deriva – perché insieme essere simbolico – la responsabilità per la quale si impone di rispondere da essere umano al problema del suo stare (stato in luogo, abitare) nella natura, al problema dell’ambiente – sia essa convivenza, sfruttamento, rispetto, mitizzazione,…e tutte le forme che questa relazione simbolica e di pensiero ha assunto nei secoli.
Questa è la cornice all’interno del quale muoversi per affrontare il problema e cogliere l’«invito» offerto dal manifesto del naturalismo critico, che ha il grande e poco discutibile merito di inquadrare la questione nella sua premessa ontologica. Una riflessione sul nostro stare nella, di fronte, sopra, in rapporto costante e insieme scostante con la natura e sul nostro supposto desiderio di starvi in armonia è richiesta nel momento stesso in cui, esattamente in virtù della nostra proprietà di pensiero, «il concetto e la realtà» della natura «sembravano un tempo superati» (cfr. 1° tesi, idem). Ciò che qui è in discussione e che ormai da anni viene affermato è l’urgenza di disfarsi dell’idea distruttiva per la quale l’uomo è padrone assoluto della natura. Un riciclaggio necessario del paradigma antropocentrico che, al netto di resistenze attive presenti trasversalmente a tutti i secoli della storia del pensiero, è stato e continua ad essere il riferimento dell’antropologia occidentale da quando ha cominciato a pensare strutturalmente, ovvero dal pensiero greco classico, ma non già in quello arcaico («Una risposta razionale alle catastrofi attuali deve includere tentativi di cogliere sia queste nuove realtà della vita sia i modi di pensare obsoleti che le sostengono. Questa è stata la rivendicazione della teoria critica. Il naturalismo critico la porta nel nostro tempo» – 3° tesi, idem).
Ecco una proposta critica in risposta al naturalismo critico: una via di comprensione e ripensamento dell’interazione uomo-natura che ridisegni i limiti di significato della vivibilità basata su un’armonia tra interno e intorno, natura interna e natura esterna, potrebbe partire propriamente recuperando in parte il colpo di coda rappresentato dalla sensibilità romantica e soprattutto il sentire stupito della filosofia arcaica, laddove il pensiero fondamentale e fondante si attestava all’altezza dei problemi integrali e totali sull’origine, sul divenire, sulla caducità del transito prima di divenire necessariamente – e quasi esclusivamente – antropocentrato. Recuperare quella sensibilità di fronte alla vita tutta è ciò che potrebbe nei fatti aiutare la nostra natura interna a mettere a fuoco anche la nostra vivibilità nella natura esterna, portandoci a vedere e riscoprire con occhi nuovi la relazione nella quale da sempre – in quanto nati – intratteniamo e con tutto ciò che ci circonda e con tutto ciò che ci si scatena dentro.
La vivibilità va contemplata coi tratti di una relazione, un ingaggio, un coinvolgimento con quella natura che credevamo di poter dominare e di cui pensavamo di poter disporre a nostro uso e consumo come fosse altro da noi, un che di cui poter servicene, non comprendendo ancora che distruggere la natura equivale alla nostra autodistruzione. Autodistruzione che giammai si perpetua soltanto nei termini della sussistenza animale che ci vede dipendente dai bisogni primari legati alla sopravvivenza del nostro corpo, ma anche e soprattutto esistenziale, dal momento che il percorso di autodefinizione è un percorso di confronto e di alterità: con l’altro esterno, con l’ambiente che mi circonda, con lo stile e l’atteggiamento che assumo nel mentre che sto al mondo, con i comportamenti che imparo/distruggo/ricompongo vivendo nella e in rapporto con la natura che mi offre il suolo sul quale appoggio, lo spazio in cui si svolge il tempo che mi è dato di vivere nella finestra del mio transito terreno.
In questa prospettiva si inserisce quindi anche l’urgenza di proporre nuove vie per una vivibilità rispettosa e condivisa, o meglio: si pone anzitutto la domanda fondamentale che chiede quale sia il pilastro sul quale far poggiare tale ripensamento e proposta alternativa. In risposta al manifesto del naturalismo critico, di cui siamo debitori di aver messo in chiaro lo stato dell’arte e l’urgenza di collaborare ad una nuova proposta di atteggiamento che tenga conto del nostro essere al mondo, si ritiene che non abbandonandosi al dato di fatto che vede una natura che assume le sembianze di un’autovendicatrice («ritorna in virtù della sua stessa repressione» – 1° tesi, idem), ma stando saldamente nella relazione con essa stia il nocciolo della questione da riscoprire e riesplorare. L’ingaggio con l’essere umano, l’impasto a due ingredienti di cui è costituita la relazione dev’essere chiaro, ed è quella relazione ontologica e fondamentale che assume la connotazione dell’unica via, l’unica leva che nella pratica può riuscire a far scattare un cambio di atteggiamento, laddove essa fa a sua volta da raccordo e armonizza la natura interna ed esterna dell’essere umano nel senso sin qui esposto.
Pensare a nuove forme di vivibilità e rispetto ambientale è quindi pensare a nuove forme di stare insieme, di confrontarsi in modo pacifico e schietto, nuove forme di retorica e relazione con l’interno e l’intorno impregnate di collaborazione e sforzi di uguaglianza laddove la natura in primis e la nostra mano pesante in secundis rendono invivibile sempre più spazi – fisici e figurati («Le catastrofi possono essere perpetuate amministrativamente. Il 2020 potrebbe andare avanti» – 2° tesi, idem) –; relazioni possibili da attuare per far fronte esattamente a quelle disparità naturali che popolano con noi la natura terrestre. Non solo e non tanto perché diversamente andiamo verso l’estinzione, ma per abitare ed attraversare la questione, nel breve periodo del nostro transito terreno, propriamente in quanto esseri umani.
«Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola».
(Giacomo Leopardi, XXXIV – La ginestra, o fiore del deserto, Canti, 1830)