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Una disciplinata stravaganza. L’attualità di Ivan Illich

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

When I
Die
I’m sure
I will have a
Big Funeral…
Curiosity
seekers…
coming to see
if I
am really
Dead…
or just
trying to make
Trouble

Mari Evans, The Rebel

Il 2 dicembre 2002 Ivan Illich viene trovato morto, nel suo studio a Brema. «Come desiderava: tranquillamente e circondato da amici», commentò Jean Robert, grande amico e collaboratore di Illich. Biografia complessa, la sua, fuori da ogni schema, da ogni moda. La vita lo preparò alla non-conformità intellettuale, rendendolo un intellettuale dalle molte radici ma paradossalmente senza radici. Riferendosi alla sua storia personale, che ha intrecciato lingue e materie di studio in classico stile nomadico, amava ripetere le parole di Ugo di San Vittore: “Non sono nato per un solo luogo, la mia patria è tutto questo mondo”.

           Nato a Vienna nel 1926 da un dalmata cattolico e un’ebrea tedesca battezzata luterana, con antenati spagnoli e americani, studiò cristallografia, storia, filosofia, teologia in Europa fino alla laurea, trasferendosi in America nel 1951 e poi in Messico. Nel 1969, divenuto «oggetto di curiosità, di meraviglia, di scandalo» per la chiesa cattolica romana, fu convocato al quartier generale dell’Inquisizione, dove prese la decisione di ritornare irrevocabilmente allo stato laico rinunciando a tutti i privilegi sacerdotali per potersi dedicare unicamente al suo impegno nella militanza culturale internazionale. Dall’Europa all’America fino all’Asia e all’Africa, durante tutta la sua vita si è sforzato di percorrere, valorizzare e incrociare tutte le strade delle culture, con una sensibilità particolare per le differenze (sul piano dei mondi materiali e mentali tra loro contemporanei e in tensione, spesso all’interno di una stessa civiltà) e per i pericoli dell’omologazione. Muovendo dal riconoscimento di una molteplicità di soggetti e prospettive, si è battuto affinché non si piegasse la storia universale a un decorso e discorso privilegiati.

            Figura divisiva, polarizzante, in grado di suscitare tanto adulazione quanto disprezzo, ondeggiando con moto quasi perpetuo fra l’essere accolto o rifiutato, estremamente affabile o inavvicinabile, largamente benvoluto o profondamente odiato, conservando un magnetismo affascinante e difficile da spiegare. Quasi la totalità di quanti sono venuti in contatto con lui concorda nel ritrarlo come una potenza vorticosa, capace di trasformare chiunque incrociasse. Una personalità così carismatica che un suo sguardo dava l’impressione di poter fermare l’orologio. In presenza di Illich, pensare diventava tutta un’altra cosa: il pensiero diventava vivido, turbolento, si intensificava, e aveva delle pretese. Sotto i suoi colpi sono andati in frantumi l’istituzione scolastica, la politica energetica dei maggiori Paesi occidentali, la professione medica e l’organizzazione ospedaliera iper-burocratizzata, con una vis dissacratoria che lo rese sospetto alla CIA, al governo americano e al Vaticano.

            L’attività intellettuale di Illich rievoca la funzione creatrice della teoria, la sua capacità di rimuovere tutte le incrostazioni morte e stratificate di quell’istituzione-zombie a cui di solito ci riferiamo come “accademia”, la quale, impermeabile alle guerre, agli sconvolgimenti e ai riassestamenti dell’epoca contemporanea, continua a muoversi sugli stessi arrugginiti binari. Illich indicò il cuore del problema, l’origine della malattia, la madre di tutte le contraddizioni che affliggono la scuola: la scuola e l’insegnamento non sono in crisi perché troppo scollegate rispetto alle finalità perseguite dallo stato o dalla società o dal mercato, cioè rispetto alla domanda di formazione che emerge dall’esterno, dal “mondo”, come spesso si sente dire da più parti; piuttosto, scuola e insegnamento languiscono proprio perché hanno perduto una certa capacità di realizzare quello scollegamento, di eccedere cioè, per vie non programmate, gli obiettivi di produzione e addestramento dei cittadini imposti dal potere politico alla scuola di massa.

            La reazione di Illich alla prigione iper-specializzata dell’autolimitazione accademica non fu però la fuga, ma al contrario lo sforzo di farla esplodere dall’interno, trasformandola in qualcosa d’altro. Usando le sue macerie come materiale di riuso per nuove architetture. Anziché abbandonare la teoria, ha provato a viverla, collettivamente ancor prima che individualmente, dimostrando di capirla meglio di quanto possa mai fare il più scrupoloso burocrate accademico. Ed è questo che lo rendeva un insegnante straordinario, in grado di porsi sin da subito in un modo estremamente aperto, egualitario, ben lontano dai protocolli accademici: una grande forza fecondatrice, creativa e originale.

            Il suo pensiero, ancora oggi, permette di illuminare di luce nuova antichi problemi, facendo emergere dimensioni della nostra realtà che resterebbero altrimenti nascoste. Criticando la maschera umanitaria che nasconde lo sfruttamento economico che vi è sotteso, ha messo a nudo il modo in cui, nel filantropismo occidentale, lo sfruttamento viene “espiato” per mezzo di successivi atti di carità eludendo così la questione centrale: la complicità e responsabilità del Nord globale nelle miserabili condizioni del “Terzo Mondo”. Sempre alla ricerca delle condizioni di emersione di un nuovo rapporto tra bisogni collettivi, strumenti e soddisfazione, ha individuato sin da subito le storture che si annidano nelle soluzioni tecnologiche alla crisi ecologica: quelle del “capitalismo verde” o della “geo-ingegneria”, che vagheggiano un controllo del cambiamento climatico e degli effetti nefasti dell’Antropocene-Capitalocene come se si potesse avere accesso alla stanza dei bottoni del pianeta e, tramite  una mera implementazione di tecnologia e capitale, si potesse risolvere in breve tempo il problema.

            Ha indagato in dettaglio i modi in cui il capitalismo, inteso come una “forma di vita”, regoli non solo l’orbita economica, ma anche tutte le altre sfere della società, gettando in ogni punto le fondamenta dello sviluppo delle specialità e degli specialisti, di quel “frazionamento dell’umano” che è la ragione profonda dell’alienazione generalizzata che, in tutte le sfere sociali, affligge il sistema capitalista. La dimostrazione migliore lasciata da Illich, che il superamento della divisione del lavoro nella sua forma attuale costituisce l’inizio del superamento dell’alienazione, è la sua stessa opera. In essa non si riscontrano tracce di “divisione del lavoro”: intraprese ogni sorta di studi e incorporò nelle sue indagini ogni sorta di materiali, antichi e moderni; fuse discipline separate nell’enorme alveo di una scienza sociale comprensiva, che è in se stessa e in virtù della sua impostazione la maggiore accusa contro l’estraniazione delle “specialità”. Realizzando nella sua personalità scientifica ciò che considerava come condizione basilare del processo di disalienazione: il superamento della divisione del lavoro, esente da ogni sclerosi accademica. Non era né economista, né sociologo, né filosofo, né letterato, né politico puro: era uno scienziato completo della realtà sociale, che non troverebbe posto preciso in nessuna delle sezioni specializzate delle università odierne.

            Tutte le opere di Illich sono progetti di profonda collaborazione nati da amicizie di lunga durata e da un intenso lavoro di colleghi e colleghe, che ha ispirato a intraprendere nuove direzioni e che, a loro volta, fornivano nuovo materiale per il suo pensiero. Il discorso di Illich si sviluppa come un lavoro di gruppo e alla radice della sua insofferenza per gli steccati c’è il bisogno di sviluppare un nuova prospettiva che sappia essere all’altezza dei problemi del presente. Ogni testo di Illich è leggibile come il frutto di una riflessione a più voci, un punto di approdo provvisorio di un percorso collettivo, pensato appositamente per stimolare discussioni sul tema in questione, il più delle volte polemiche – da ciò derivano la predilezione per i pamphlet, una forma di “scrittura d’occasione”, e il carattere provocatorio del suo stile, che distilla sapientemente analisi critica e sarcasmo. Rappresenta anzitutto un modo diverso di intendere e praticare la vita filosofica, una modalità inconcepibile senza i costanti e vivificanti stadi intermedi dei rapporti interculturali e trans-disciplinari. Il suo metodo caratteristico di lavoro è quello che caratterizzerà i suoi anni al CIDOC, un laboratorio di contro-ricerca sui cambiamenti sociali nell’America Latina che diventa il punto d’osservazione privilegiato per poter decifrare criticamente la società industriale occidentale a giusta distanza. I critici di destra definivano il CIDOC come un “luogo di incontro di quasi tutti i guerriglieri latinoamericani”, “paradiso di attività sovversive”. Certo è che nessun altro istituto fosse alla ricerca così intensa di alternative all’esistente in Sud America, com’è certo che in nessun altro istituto la situazione di quel continente fosse così accuratamente esplorata. La ricerca per la ricerca, la discussione per la discussione e un alto tasso di anticonformismo erano pietre angolari di un ambiente che avrebbe prodotto mentalità non facilmente addomesticabili. In una delle sue ultime interviste descriverà così lo spirito che ha animato quella fucina intellettuale: «In quel circolo di una dozzina di amici stretti che s’incontrano regolarmente per criticarsi e godere della compagnia reciproca, ciascuno sa bene perché ha bisogno di coltivare una disciplinata stravaganza, ma ciascuno è sulle tracce di un gioco diverso».

            Parlare di disciplina, o della sua assenza, al CIDOC vuol dire parlare di stile, un concetto a cui Illich ha attribuito grande importanza: il suo stile, estremamente disciplinato senza essere disciplinato, era al servizio dell’influenza delle idee. Queste, diceva, non sono mai il frutto inodore di cervelli isolati, ma nascono come voci, conversazioni, atti di coraggio – o codardia – incarnati in persone concrete. Il CIDOC ha chiuso i battenti dopo una sontuosa celebrazione durante l’estate 1976. La ragione fornita era che aveva compiuto la sua missione. Dopodiché, Illich vorrà diventare un filosofo itinerante. È mai stato altro che un pellegrino? E il CIDOC un luogo di pellegrinaggio di menti non addomesticate e non soddisfatte di alcun cliché?

            Dev’essere questo il motivo per cui Illich almeno per un paio di generazioni è stato considerato alla stregua di un profeta e di un eretico. Ma è stato anche un pensatore contestato, spesso inascoltato, la mente inquieta riconosciuta da ogni movimento di rivolta alternativa: da quello del Sessantotto internazionale allo zapatista, dagli argentini ai greci, dagli indignados spagnoli all’“Occupy Wall Street” statunitense, dalle lotte libertarie alle battaglie contro globalizzazione e globalismi, ma contribuendo a coltivarne essenzialmente lo stato nascente senza mai legarsi a qualche dogma e anzi rifuggendo ogni forma di istituzionalizzazione.

            Uno degli aspetti in particolare su cui si è soffermato il dibattito critico è quello relativo al tema della “convivialità”. Concetto che attraversa l’intera opera di Illich e che lui sviluppa con specifica attenzione in Tools for Conviviality del 1973, è stato spesso recepito come il portato di un’idea di libertà concepita in senso egologico e identitario, come un’esperienza sottratta a ogni condizionamento e mediazione con la vita collettiva, un’assoluta autodeterminazione ed emancipazione dalla dipendenza. Nulla di più lontano da ciò che Illich intendeva, nella misura in cui la “convivialità” è da intendersi precisamente come un tentativo di rompere con l’idea classica della libertà come egolatria: si tratta di costruire l’autonomia nell’eteronomia – nelle parole di Illich: «Libertà individuale realizzata nell’interdipendenza personale». La “convivialità” non è da intendersi neanche come uno stadio precedente la modernità, una sorta di arcadia a cui ritornare, ma piuttosto come un progetto politico da costruire collettivamente – in questo senso, è indicativo il fatto che il titolo originale dell’opera sia “Tools for Conviviality”, ad enfatizzarne il carattere programmatico, in vista di una ricostruzione conviviale della società a partire dalla sinergia positiva tra modalità di produzione autonome ed eteronome. Questo è il senso del contributo illichiano al processo politico che deve portare i cittadini a riconoscere le soglie socialmente cruciali dell’arricchimento e a tradurle in tetti o limiti validi per l’interesse sociale: la proposta di un limite allo sviluppo, del riconoscimento di una soglia di equilibrio tra produzione autonoma ed eteronoma.

La soglia a cui Illich fa riferimento, pertanto, non è un limite “naturale”, ma politico: si tratta di una “soglia critica”, da individuare di volta in volta in seguito a un processo decisionale collettivo e democratico (un intero capitolo dell’opera è dedicato al diritto come strumento politico da risignificare e rifunzionalizzare per fini emancipatori). Nelle parole di Illich: «Non propongo una utopia normativa, ma i presupposti formali di una procedura che permetta a qualunque collettività di scegliersi continuamente la propria utopia realizzabile. La convivialità è multiforme: si basa non sul dogma, ma sull’anatema delle condizioni che la renderebbero possibile».

            Dopo la sua morte, la sua figura è stata riscritta da una parte secondo i canoni di un’anima pia e sofferente, dall’altra come il rappresentante di una generazione sconfitta, quei dinosauri spazzati via dai meteoriti che la cometa del capitalismo lascia dietro il suo trionfale cammino. Sottoposto, negli anni dell’ondata di moda che pure l’avvolse in ambigue operazioni, il suo pensiero è oggi relegato alla condizione di una curiosità intellettuale e storica. Molti se lo contendono, cercando di reclutarlo post-mortem, ma nessuna forza politica e sociale è riuscita ad appropriarsene.

            Si sa, le tombe dei ribelli sono sempre molto frequentate. C’è chi va per gettare fango sulla loro tomba, non essendo riuscito a dargli battaglia mentre erano vivi. C’è chi, nonostante il divieto di farlo, ogni anno si riunisce lì per porgergli omaggio, per onorarne la memoria. C’è poi chi, come i “curiosity seekers” nella poesia di Mari Evans, va lì a controllare se quei ribelli sono morti davvero, o se stanno soltanto cercando di creare altri problemi.

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