Il momento rituale rimette in gioco l ‘ordine del Tempo rispetto alla dimensione della Morte, dunque, la sospende, vi patteggia, la rimanda o eventualmente la rende significativa. La convivialità individua anch’essa una condivisione di tempo rituale, un momento definito, distinto dalla quotidianità informe, un momento sacro, di allontanamento ed esorcismo della morte, di gioia
In questo periodo vi sono molte offerte di spettacoli con cena, o varianti di una combinazione tra momento enogastronomico e momento teatrale. Per alcuni: un abbassamento della nobile arte scenica a intrattenimento. Per altri: una conseguenza delle politiche culturali e produttive in ambito teatrale praticate dai recenti governi, tali per cui ai giovani artisti o alle piccole compagnie indipendenti dai pochi organi di produzione riconosciuti dal Ministero sia reso necessario spostare di sede e contesto la propria attività, ritornando a uno stato di guitti che offrono arte astutamente e abilmente riutilizzata, in cambio di pane. Per alcuni altri potrebbe essere un inutile appesantimento di momenti goduriosi, con parti culturali che spostano l’attenzione da una fragranza dei sensi senza implicazioni meditative. Per altri ancora sarebbe necessaria espressione di vitalità dopo gli austeri tempi del lock down, assecondando necessità di vicinanza e condivisione di spazi e tempi festosi, derivata dal lungo e spiacevole isolamento subito. È possibile che ciascuna di queste osservazioni contenga parte di verità, ma è proprio dall’ultima asserzione che la mia riflessione trova sviluppo.
C’è una insopprimibile esigenza dell’essere umano rispetto alla dimensione sociale, un bisogno di condividere e rappresentarsi, di riconoscersi nell’altro, rispecchiarsi o distinguersi, di guardare ed essere guardati come forma di inveramento di sé. E questo in forma non casuale, ma all’interno di spazi e comportamenti cui si attribuiscono valori precisi. Questa esigenza ci riporta a una nostra relazione col piano simbolico che non approfondiremo in questa sede, ma evidenzia anche una necessità di ritualizzazione ben radicata nell’ essere umano.
Le forme rituali mi hanno sempre affascinato per la loro relazione con la dimensione del Tempo. Il momento rituale pone il soggetto che vi partecipa in una dimensione temporale altra, discontinua e separata, ovvero sacra e festiva, estrapolata dal tempo della vita quotidiana e dal suo scorrere senza ritegno e senza rimedio, senza significanza e potenzialmente anonima e indifferente. Il momento rituale rimette in gioco l ‘ordine del Tempo rispetto alla dimensione della Morte, dunque, la sospende, vi patteggia, la rimanda o eventualmente la rende significativa.
Non esisterebbe Teatro se tutto questo non fosse profondamente e universalmente sentito- quale che sia la forma che si voglia riconoscere in senso estetico al termine Teatro (e rimando alle preziose ricerche del grande maestro Peter Brook, che a questa ricerca dedicò molta parte della sua esperienza scenica e molti studi, fra i quali desidero citare L’Espace Vide, che individua una radice comune di tipo teatrale, nelle più disparate fenomenologie -dal teatro greco antico al Tazie persiano, dal teatro No giapponese alla commedia dell’arte etc- Egli osserva che tutte queste forme, a monte di qualsivoglia opzione estetica, debbono partire dalla individuazione di uno spazio ‘vuoto’, ove una azione prodotta da qualcuno sia concordemente osservata da qualcun altro: almeno uno che agisca sapendo di essere guardato e uno che guardi, in un vincolo di accordo precedente, che rende l’osservatore non casuale ma, appunto, spettatore- che leggerà quell’ azione ricodificandola in una ‘dimensione altra’ , discontinua, non casuale ma significativa, stilizzazione di qualcos’altro di più importante che si distanzia dal piano contiguo del reale, una dimensione simbolica, che trova senso in un contesto di fatto rituale).
Il Teatro rende partecipe lo spettatore di una dimensione spazio-temporale altra, separata da chi guarda, profondamente inattingibile. Il maestro Roberto De Simone, in un incontro con un gruppo di studenti, evidenziava il rischio assoluto del palcoscenico, perché “Fare Teatro apre porte”: bisogna stare ben attenti a quali porte si stiano aprendo… Il Teatro apre porte invisibili su dimensioni nascoste: spalanca lo sguardo e la coscienza sul terrore; e tuttavia consente di affacciarsi e partecipare al viaggio abissale variamente declinato (del personaggio, dell’eroe, del sacerdote di quel rito ecc.) e di riemergerne vivi e vivificati, di condividere in qualità di testimoni dimensioni ulteriori e partecipare di incontri e saperi che da queste dimensioni ci possano pervenire. Mi vengono in mente i rituali di sepoltura, quelli etruschi per esempio, con divanetti e triclini e protagonisti che affreschi tombali rappresentano in banchetto eterno al quale sono (tra)passati, in lieto convivio con cibi e bevande, canti e danze, alla presenza di alcune divinità, e in condivisione rituale perenne con i propri cari. Convivio, banchetto: la radice è Cum-vivere, condividere momenti di vita. La convivialita’ individua anch’essa una condivisione di tempo rituale, un momento definito, distinto dalla quotidianità informe, un momento sacro, di allontanamento ed esorcismo della morte, di gioia.
Teatro e convivialita’ mi appaiono due dimensioni che non si diminuiscono reciprocamente, ma che ci riportano alla stessa questione cruciale: al nostro rapporto profondo con la Vita, al suo inesorabile rapporto con il Tempo e ai modi di cui disponiamo perché questa relazione sia feconda e significativa.