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L’uomo è quando mangia

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

Quest’anno dicembre, come si dice, “cade male”. C’è il fine settimana del 4, ma è presto; poi è subito il ponte dell’Immacolata, ma tanti sono via; rimane il 18, ché poi è subito la settimana di Natale e non c’è più spazio. Ma quel fine settimana, ormai, tutti o quasi ne abbiamo già fissata una, sicché si sfonda il muro moralmente invalicabile dell’infrasettimanale, proposto col sorriso cortese che allude ad un malcelato ricatto qual prova d’amicizia.

Ma per che cosa siamo così in difficoltà? Per fissare una cena, what else?

Il pretesto degli auguri mette in scena ogni anno questo rito culturale, uno spettacolo sempre identico a sé stesso in cui tutti ci troviamo sul palcoscenico imbandito, protagonisti e comparse ad intermittenza, con lo stomaco sempre pieno. Se dicembre è il reuccio dei mesi in cui va in scena il ritrovarsi gastronomico, la proposta è quella di problematizzare e spendere due pensieri sulla relazione che la convivialità, prima di tutto, è.

Pensiero e convivialità: seconde solo a “i filosofi hanno la testa tra le nuvole”, le espressioni popolari che narrano la nascita della filosofia e ne mantengono l’eccelso status culturale (almeno oggidì) sono spesso incentrate sulla tavola. Spaziamo infatti dall’hobbesiano “Primum vivere, deinde philosophari” – spesso tramutato proprio in “Primum edere, deinde philosophari” (“prima si mangi, poi si faccia filosofia”) – a “la filosofia nasce con la pancia piena” e variazioni sul tema che illustrano come l’uomo si sia storicamente concesso il lusso di riflettere soltanto dopo aver risolto problemi evidentemente più grandi legati alla sussistenza. Non è questo il luogo né l’occasione per approfondire le ragioni del torto (se l’uomo ha di proprio il sapersi porre delle domande e sapersele porre sul senso del suo esserci, filosofia c’è dal suo primo stupirsi davanti al fuoco), ma appunto per raccogliere lo spunto.

La filosofia nasce definitivamente (nel senso proprio, per cui da lì in poi cominciamo a chiamarla filosofia) con il dialogo: due persone che si trovano a discutere, spesso condividendo un tratto a piedi e ancor più spesso sedendo allo stesso tavolo. Il focolare della filosofia è senza dubbio alcuno la situazione del greco simposio, il sùn pìnein – bere insieme – condividere una coppa e con essa un discorso, una domanda, una riflessione. Una modalità dello stare insieme che ritroviamo identica a Roma nel convivio – convitto, banchetto – e che nel medioevo scolastico prosegue laicamente nelle corti e ancora più vede radunarsi monaci e religiosi nei refettori, luoghi in cui il dibattito e l’esercizio argomentativo trova la sua massima espressione. E se tra Illuminismo e Romanticismo il languore filosofico sembra passare in secondo piano, con prepotenza torna sulla scena il materialismo di Feuerbach al grido: “Der Mensch ist, was er ißt” (“l’uomo è ciò che mangia”). Alle porte del Novecento gli fa eco Nietzsche nella sua (anche) autobiografia Ecce homo, leggendo la quale si riscontrerà un lamento od una lode relativi all’accoppiata teoretica cibo ingerito-qualità del pensiero prodotto per ciascuno dei luoghi in cui il tedesco si trasferì nel corso della sua vita (il raffronto Germania-Italia, in particolare, è impietosamente divertente).

Oltre la leggerezza di questa ricostruzione, quel che è certo è che da sempre l’uomo si trova attorno alla tavola per produrre pensiero oltre che per mangiare, tanto da ricercare quella situazione appositamente per avere uno scambio, per cercare un’idea, manifestare la propria opinione con schiettezza, trovare un confronto intimo.

Alla prova dei fatti, insomma, la convivialità risulta centrale in tutta la nostra storia umana per almeno due fattori, un “cosa” e un “come” legati a ciò che avviene in quella situazione. Il “cosa” è l’incontro: utilizzare una necessità di sussistenza animale – nutrirsi per sopravvivere – come motivo per incontrarsi insieme. Condividere un pasto realizza fattivamente la necessità politica di incontrare l’altro, scambiarsi lo sguardo e la fisicità tridimensionale come bisogno quasi paritario rispetto a quello della sussistenza. Un elemento talmente vitale da essere una costante di tutta la nostra storia, punto d’incontro tra il nostro essere animali e il nostro distinguerci da essi perché capaci di sviluppare pensiero. Condividere il momento del cibo ha a che fare con la nostra individuazione personale oggi allo stesso modo che in passato, è un’autentica necessità. Pensiamo, da ultimo, ai tempi più duri della pandemia, in cui questo incontro non era possibile: che cosa ci siamo inventati se non la videochiamata mentre si beveva un caffè o si prendeva l’aperitivo? E probabilmente non è un caso che pure Dante scrisse il Convivio in esilio, tra il 1304 e il 1307.

C’è poi il “come”, che vale probabilmente ancor più del cosa: la parità e l’uguaglianza in quello stare, un concreto essere al medesimo livello nella condivisione: di uno stesso spazio, di uno stesso cibo, di una reciproca prossimità. Il sedersi, vicini, alla stessa tavola annulla le diversità e le divergenze nel gesto più antico del mondo, ricordando in quello stare l’identica necessità di rispondere alla fame – di cibo e socialità, di sussistenza e senso – che elimina tutte le sovrastrutture altrimenti normalmente attive. È il concetto di fraternità (chi è più alla pari di due fratelli?) che anzitutto le lingue – e quindi la storia – del nostro continente narrano: tra i molti termini che i greci avevano coniato per significare gli uomini, quello di bròtoi ci distingue nell’accezione di mortali “mangiatori di pane”; dalla stessa radice provengono quindi l’inglese bread e il tedesco Brot, e a loro volta i corrispettivi brother e Bruder.

Dacché mondo è mondo, fratello è chi condivide il pane. Un binario antropologico che ritroviamo non a caso in uno dei simboli cristiani più forti, l’ultima cena ricordata nel rito della messa, e ancor prima nella celebrazione della pasqua ebraica; pure le teorie anarchiche si rifanno originariamente allo stare alla pari tipico della convivialità, proponendo quel modello di uguaglianza quale sostituto di ogni gerarchia verticale.

Gran parte di quello che chiamiamo civiltà, cultura e in cui riconosciamo valore nasce, si alimenta, vive di convivialità. In nome di tutto ciò che ritrovarsi attorno a un tavolo significa, comprendiamo dunque le ragioni del desiderio di incontro che in questo mese si moltiplicano come in nessun momento dell’anno. Ci riuniamo a condividere un pasto per ritrovarci fratelli e sorelle, per condividere le nostre domande e cercare insieme nuovi orizzonti di senso e letture della realtà che rispondano alle solite care domande sul nostro essere al mondo. È il momento migliore dell’anno, il momento delle cose belle, il momento che sentiamo di meritare.

Ma in nome di quegli stessi valori e di quella stessa, nostra, civiltà della fratellanza basata sullo spezzare il pane, dovremmo di necessità essere capaci di accorgerci che il numero di persone che nel mondo hanno un pasto da condividere è in realtà ristretto. Che troppi non sanno come riempire un piatto mentre noi proviamo a far quadrare l’agenda per infilare una cena in più. Alla tavola della civiltà universale manca il pane da condividere, e senza pane, per definizione, manca l’essere fratelli e il coltivare la nostra parte più pregiata. È una questione di coerenza con i valori di cui siamo figli e che noi stessi ci siamo scelti: davvero abbiamo un concetto di fratellanza così a corto raggio, davvero non facciamo nulla per rispondere queste disparità essenziali?

Ah, già, ma noi abbiamo appena istituito il Ministero della Sovranità Alimentare.

Buon appetito, e buone feste.

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