1. Tools for conviviality (1973) è uno dei manifesti politici più importanti del post-sessantotto, ma anche un’idea genuinamente originale della convivialità. Idea certamente attuale, ma non saprei dire se come un’utopia critica o una finestra potentemente distopica sul nostro futuro. Forse è entrambe le cose. O forse un percorso dall’una all’altra. Il suo autore è Ivan Illich, libero pensatore di una tradizione da sempre influente: l’anarchismo cristiano, una delle fonti della pedagogia degli oppressi di Paulo Freire e della teologia della liberazione di cui l’attuale Papa Francesco è stato uno degli esponenti più moderati. La sua vocazione filosofica lo ha inoltre spinto a creare una teoria della politica configurata come una gigantesca utopia della libertà. Non a caso è riuscito ad attrarre personaggi atipici come Giorgio Agamben che ha voluto scrivere la prefazione all’edizione italiana delle sue opere complete. Per certi aspetti, che cercherò qui di descrivere, Illich può certamente comparire a pieno titolo nell’album di famiglia dei neo-complottisti che si sono attivati durante la recente pandemia del Covid (Massimo Cacciari, Diego Fusaro, Carlo Freccero, oltre lo stesso Agamben).
L’aspetto più attrattivo della proposta post-sessantottina di Illich è stata, a suo tempo, proprio la ridefinizione e la torsione in senso politico della nozione di «convivialità». Dell’accezione ordinaria del termine non resta quasi nulla nei suoi Tools for conviviality. Tranne, forse, una vaga attinenza con la sensazione di soddisfazione per una naturale consonanza dell’umano con il suo ambiente naturale, sociale, tecnologico e culturale. Per Illich la convivialità è infatti «una relazione autonoma e creativa tra le persone e tra queste e il loro ambiente. (…) Considero la convivialità una libertà individuale realizzata nell’interdipendenza personale e, come tale, un valore etico intrinseco» (TC:23).
Sin qui nulla di sconvolgente o rivoluzionario. Di creatività, interazione e libertà è lastricato – secondo come sono state intese nel tempo le parole – il viale dell’inferno o del paradiso. Le cose si chiariscono, senza tuttavia tranquilizzarci, quando Illich cerca di spiegare cosa ostacolerebbe il percorso verso la convivialità. Cosa, cioè, turberebbe l’instaurarsi di un’atmosfera sociale in cui vigono solo le regole di una naturale coesistenza fra tutti gli uomini e tra gli uomini e l’ambiente. La convivialità sarebbe minacciata – secondo Illich – dalla tecnologia strumentale e sociale, dalla società industriale di massa, e dall’irregimentazione nella scuola, nella sanità, nel sistema dei trasporti e dell’energia. Gli strumenti (tools) sarebbero il punto di fuga dalla libertà:
«uso il termine ‘strumento’ in modo abbastanza ampio da includere non solo hardware semplice come trapani, pentole, siringhe (…), motori, e non solo macchine di grandi dimensioni come automobili o centrali elettriche. Includo tra gli strumenti anche istituzioni produttive come le fabbriche che producono merci tangibili come corn flakes o corrente elettrica, e sistemi produttivi per merci immateriali come quelle che producono “istruzione”, “salute”, “conoscenza” o “decisioni”» (id.:32)
Questi tools diventano nemici della società conviviale quando la loro invadente crescita provoca e accresce l’irreggimentazione di massa, la dipendenza, lo sfruttamento e l’impotenza sociale. Ogni strumento, infatti, perde i suoi requisiti utilitaristici quando il suo uso oltrepassa scale e limiti naturali di quell’«equilibrio multidimensionale della vita umana» che rende quest’ultima, per l’appunto, «conviviale». Ognuna di queste dimensioni, infatti, presenta evidenze legate alle sue prassi naturali. I trasporti e l’energia, ad es., tracimano dai loro scopi naturali quando si oltrepassa la tecnologia della bicicletta (EB): tutto il resto – l’utilizzo sconsiderato delle automobili, l’alta velocità, la locomozione aerea – sono strumenti eccessivi per la società conviviale, ne snaturano la struttura e l’equilibrio antropologico. La stessa cosa può dirsi per la produzione di massa industriale, laddove il consumo indotto degli oggetti diventa talmente separato dai bisogni primari da fargli rasentare l’inutilità. Una pedagogia conviviale si estende anche alle istituzioni sociali: «solo entro certi limiti l’educazione può adattare le persone a un ambiente creato dall’uomo: oltre questi limiti c’è l’istruzione obbligatoria, il reparto ospedaliero o la prigione».
Ma chi stabilisce scale e limiti della convivialità? Chi fissa le soglie di disumanizzazione nell’uso degli strumenti? Chi decreta che siamo ormai diventati schiavi di meccaniche biologiche e sociali perverse? Rispondendo a queste domande cruciali Illich rivela una singolare mistione di ascendenze francofortesi, cultura cattolica sudamericana e nichilismo postmoderno (che abbiamo visto apprezzare la sua opera). Il sostrato ideologico che accomuna queste diverse visioni lo ispira a riformulare un inedito stato etico in cui la convivialità non si deve raggiungere ma imporre:
«gli attuali scopi istituzionali esaltano la produttività industriale a scapito della convivialità. (…) Suggerirò come invertire questa tendenza attuale e utilizzare la scienza e la tecnologia moderne per dotare l’attività umana di un’efficacia senza precedenti. (…) Non possiamo più vivere e lavorare in modo efficace senza controlli pubblici su strumenti e istituzioni (…). A tal fine abbiamo bisogno di procedure per garantire che i controlli sugli strumenti della società siano stabiliti e governati da un processo politico piuttosto che da decisioni di esperti. (…) Se gli strumenti non saranno controllati politicamente, verranno gestiti come una tardiva risposta tecnocratica al disastro. Libertà e dignità continueranno a dissolversi in una sottomissione senza precedenti dell’uomo ai suoi strumenti. In alternativa al disastro tecnocratico, propongo la visione di una società conviviale (…) che garantisca a ciascun membro il più ampio e libero accesso agli strumenti (…) e limiti questa libertà solo a favore dell’uguale libertà dell’altro membro» (TC:34).
2. È qui che l’utopia comincia a scivolare inesorabilmente verso la distopìa. Se l’utopia della società conviviale vorrebbe descrivere un mondo perfetto e ideale, la distopìa ne mette in scena uno indesiderabile e spaventoso. I romanzi distopici ci ricordano bene questo genere di trasformazione.
In Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, il mondo è dominato dall’immagine. La società dell’immagine è l’utopia. Leggere parole scritte è dunque un reato. Per il “sistema” (il regime) i libri sono dunque uno strumento pericoloso che fa sconfinare le menti in territori che non dovrebbero mai nemmeno essere immaginati. I libri-strumento vengono quindi bruciati in ogni parte del mondo. La distopia è la regressione alfabetica e l’afasia della creatività semantica. Come sarebbe un mondo umano senza la lettura?
In 1984 George Orwell mette in scena l’utopia del grande fratello che tanta fortuna ha avuto dalla letteratura, al cinema, alla televisione. L’utopia è quella di una società totalmente trasparente, e quindi sempre “vera”, perché l’occhio onnipresente del big brother controlla costantemente la vita di tutti i cittadini. Intimità e solitudine vengono così banditi. La distopia è la morte della riservatezza e dell’interiorità. Come sarebbe un mondo umano senza la privacy?
La più significativa rappresentazione distopica resta tuttavia la settecentesca Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits. Qui “l’uomo del diavolo” – Bernard de Mandeville – descrive il fallimento della più grande utopìa filosofica di tutti i tempi: la virtuosità e l’egualitarismo sociali. La metafora di Mandeville è quella di un alveare perfettamente funzionante in cui vige la più rigorosa e immutabile divisione del lavoro: api guerriere, bottinatrici, operaie, regine, ciascuna con i suoi compiti da cui nessuna può derogare. Nessuna di loro, infatti, si lamenta della fatica, dello sfruttamento, della difficoltà di svolgere quei compiti. Nessuna guarda ai difetti dell’altra, agli imbrogli, alle disonestà di chi vuol scansare i propri doveri. L’armonia resta sovrana e l’alveare «che viveva nel lusso e negli agi era considerato la grande culla delle scienze e delle arti» (FB:21).
La distopia si introduce d’improvviso con la pretesa dei «furfanti di diventare onesti», di riportare l’alveare alla probità dei costumi, di mostrare di cosa è capace l’altruismo sociale, la virtù egualitaria. Quella pretesa diventa protesta virale. Si diffonde a tutte le componenti della società-alveare. Tutte le api chiedono a gran voce la restaurazione della giustizia e dell’equa redistribuzione delle fatiche. A ripristinare questi sani valori ci pensa Giove che libera «lo schiamazzante alveare dalla frode» e lo inonda di pratiche edificanti, salvandolo dalla corruzione e dal malcostume: «in mezz’ora, in tutta la nazione, cadde la maschera dell’ipocrisia». Fuori dalla metafora dell’alveare, i risultati sono però opposti a quelli attesi. Caduta l’ipocrisia tutto ridiventa trasparente. Per timore di sembrare immorali a causa dell’incessante ricerca di profitti, nella società virtuosa cessano di esercitare commercianti e imprenditori. Mentre prima «milioni di esseri si sforzavano d’appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni erano intenti a consumare l’ingegnoso lavoro di quelli», adesso si arresta l’operosità, lo spirito emulativo, la competizione. Nessuno vuol più fare i lavori faticosi. I truffatori, i parassiti, i mezzani, i giocatori, i borsaioli, i falsari, i ciarlatani, gli indovini, insomma quelli che «venivano chiamati furfanti ma che, eccetto che per il nome, non differivano da quelli che lavoravano veramente, perché mestieri e impieghi avevano tutti i loro imbrogli e non c’era professione che non avesse i suoi trucchi», sparirono di colpo. Ciò rese inutile l’esistenza degli avvocati «della cui arte l’essenza era nel suscitar liti e nel trovar cavilli». I medici, i farmacisti, i maestri, i professori, i magistrati, i preti e tutti i mestieranti dell’intelletto persero le ricchezze e il prestigio del ruolo e, di conseguenza, il piacere per lo studio disinteressato delle «regole dell’arte». Stesso destino per i soldati, che senza guerre e sommosse, non avevano chi fermare o uccidere. Le gran signore senza più mariti o amanti facoltosi riducevano le vivande costose e indossavano tutto l’anno lo stesso abito. I tessitori che intrecciavano ricche sete con argento e oro adesso producevano solo abiti ordinari e a buon mercato. Ciascuno di questi protagonisti era stato «pieno di vizi, ma l’insieme era stato un paradiso». Adesso tutto è piatto, silenzioso, morto. I vizi privati non alimentano più le pubbliche virtù. Se non sono più desiderate e strapagate le camicette di seta per le ricche famiglie, chi manterrà gli operai che le hanno lavorate per renderle sempre più belle? Insomma una catastrofe sociale da evitare per non morire: «cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare. Godere dei piaceri del mondo, essere famosi in guerra, e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è una vana utopia dell’intelletto» (sic., id.:35). Si tratta di un’utopia che contraddice la natura agonistica dell’animale che parla e che desidera. Come sarebbe un mondo senza il desiderio e l’egoismo?
3. L’utopia di Mandeville, la società virtuosa senza se e senza ma, ha certamente una natura «conviviale». Come quella di Illich, e di tutti i pensatori che a lui si rifanno direttamente o indirettamente. Ma, con formula invertita, è soprattutto l’aspetto distopico ad assimilare i due.
Coerente con i suoi Tools for conviviality, Illich mette pian piano a punto i dettagli lugubri della sua distopìa conviviale. In Deschooling Society (1972) vuole dimostrare che la pubblica istruzione è una forma di manipolazione del mercato che si propone di formare individui evolutivamente adattati alla produzione industriale di massa: «la scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è» (DS:130). È come la religione universale del post-modernismo che promette di salvare i poveri dell’era tecnologica. Gli stati nazionali rispettano tutti questa religione affiliando i cittadini in programmi di gradazione di titoli e diplomi pensati proprio in funzione della selezione di classe e percepiti invece come modello di avanzamento e promozione sociale. Hanno inoltre prodotto schiere di funzionari addetti alla lotta contro l’evasione dall’obbligo scolastico e piani di sviluppo per premiare il merito e l’attaccamento all’istituzione. Per salvare l’autentico senso dell’istruzione la ricetta “conviviale” di Illich è la descolarizzazione e il definitivo abbandono di qualsiasi tipo di strutture organizzative della formazione. Una società descolarizzata deve adottare, inoltre, un nuovo approccio localistico all’istruzione occasionale e informale, legato alle minute abitudini culturali dei diversi paesi e culture. Una polverizzazione parossistica di frammenti di sapere e la fine di un contesto cognitivo universale e comune a tutti gli uomini.
L’informalità e l’occasionalità è anche la ricetta per la medicina conviviale (NM). Il suo scopo è quello di tornare ad apprezzare il valore ontologico della sofferenza e del dolore, abolito dall’istituzione sanitaria che sottrae ormai i corpi a qualsiasi processo naturale. In coerenza con le sue tesi, Illich rifiutò di curare il suo cancro, perché il dolore e la sofferenza erano per lui una parte imprescindibile nell’esperienza dell’uomo. Debellando l’idea che «il curarsi da soli sia segno d’irresponsabilità» la medicina conviviale deve tornare allo stato sciamanico e aurorale dei primi sacerdoti del corpo, che in realtà non curavano i corpi ma le loro anime. Istruirsi a bottega, curarsi da soli, muoversi in bicicletta, praticare la «disoccupazione creativa» (DC), persino morire ed essere sepolti dai propri amici nella propria casa sono tutte pratiche conviviali che produrranno spontaneamente nuove istituzioni «al servizio di un’interazione personale, creativa e autonoma e che faccia emergere valori che i tecnocrati non possano controllare» (DS).
E torniamo così alla stessa trasformazione di un’utopia in distopìa descritta da Mandeville: l’idea, cioè, di una società conviviale che è in realtà il rifiuto di quella che Machiavelli nel Principe aveva chiamato la «verità effettuale»: la realtà concreta delle cose, oggetto della politica che, per essere davvero utile, deve guardare a come esse sono e non a come si vorrebbe che fossero.
«Era questa l’abilità dello Stato, che reggeva un complesso, di cui nessuna parte era contenta; esso, come nella musica l’armonia, riusciva ad accordare le dissonanze, a far si che le parti palesemente avverse si sostenessero a vicenda, come per dispetto, e che la temperanza e la sobrietà agevolassero l’ubriachezza e la ghiottoneria» (Mandeville, FB:27)
Su questa base la restaurazione dell’alveare viene rigettata e ben presto si torna alla morale della «verità effettuale» che tanto successo aveva riscosso. Mandeville denuncia così la maschera distopica dell’età preindustriale. Qualche anno dopo, nel 1776 Adam Smith pubblicherà il manifesto del capitalismo moderno: L’indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni.
Ma anche l’incubo conviviale di Illich si autosmaschera. Nell’intervista rilasciata a David Cayley nel 1992 – Ivan Illich in Conversation – assistiamo a una svolta imprevista che non piacerà molto ai suoi sostenitori contemporanei. Illich comprende che la favola neoluddista degli strumenti tecno-sociali che irregimentano le società soffocandone la libertà cognitiva è smentita dal modo stesso, completamente inedito e sorprendente, in cui sono stati usati dall’umano post-moderno.
«È successo in un modo che non avevo previsto. Nelle ultime righe di quel libro [Tools for Conviviality] dicevo di sapere in quale direzione sarebbero andate le cose. (…) Non è stato così, ci sono invece centinaia di milioni di persone che usano i propri cervelli e confidano nelle proprie facoltà. Ormai viviamo in un mondo in cui la maggior parte delle cose che l’industria e il governo fanno vengono utilizzate in modi alternativi dalla gente per i propri scopi. (…) Mi faceva difetto la fiducia nella straordinaria creatività delle persone e nella loro capacità di vivere in mezzo a ciò che frustra i burocrati, i pianificatori e gli osservatori. Quando guardo un mio vecchio libro mi sento imbarazzato e affascinato.(…). Ma il contesto e il mio modo di dire le cose sono cambiati. Così richiudo il libro e lo metto via. Questa è la singolare esperienza che ora mi trovo a vivere: tu [Cayley] mi poni domande su un uomo che non esiste più. Certo, quello sono io, me ne assumo la piena responsabilità. Scrivevo quei libri come risposta a una determinata situazione. Ma è sorprendente, per certi versi, che siano ancora in circolazione. Mi fa molto piacere. Mi onora. Ma sono morti, appartengono ad un altro periodo» (Illich, 1992:66 e ss.)
Come ha insegnato Wittgenstein alla filosofia del Novecento, è l’uso a definire la cosa e non il contrario. Uso e regole d’uso non sono iscritte nell’oggetto, nello strumento, ma nell’imprevedibile creatività del soggetto che lo usa e nelle sue capacità comunicative di farlo entrare nella grammatica comune. E ciò non vale solo nelle lingue ma anche nelle società e nelle regole della politica. Per questo la convivialità sta nel modo in cui noi la viviamo e non nell’innaturale normatività dei suoi tools.
Abbreviazioni bibliografiche
Ivan Illich, TC, Tools for conviviality, Boyars, London-New York, 1973 (ed.it. Red, Milano, 2013)
Ivan Illich, DS, Deschooling Society, Harper & Row, London-New York, 1971 (ed.it. Mimesis, Milano, 2019)
Ivan Illich, EB, Elogio della bicicletta, Einaudi, Torino, 2006
Ivan Illich, NM, Nemesi medica, Red, Milano, 2013
Ivan Illich, DC, Disoccupazione creativa, Red, Milano, 2013
David Cayley, Ivan Illich in Conversation, 1992 (ed.it. Elèuthera, Milano, 1994) Bernard de Mandeville, FB, The Fable ot the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits, 1714 (ed.it. Boringhieri, Torino, 1961)