Lo storico normalmente non ha grande dimestichezza con la parola nostalgia. Si tratta di un’emozione che non ha diritto di cittadinanza nell’indagine storiografica, che appare tanto più pulita, quanto più riesce a mantenere una scrupolosa adesione al piano intellettuale, assopendo o quantomeno controllando quello emozionale. Lo storico piuttosto vede nel suo lavoro una sorta di nemesi della nostalgia, tesa a restituire al passato quella tridimensionalità che la nostalgia tende invece a sottrargli, accontentandosi di dare corpo a ricostruzioni idealizzate e del tutto parziali.
Tuttavia, anche lo storico più rigoroso, alzando lo sguardo sopra alle carte «sudate» e ingiallite, non potrà esimersi dal porsi il problema della nostalgia, perché, se anche il termine non appartiene alla sua cassetta degli attrezzi, esso definisce uno degli approcci più comuni e controversi alla dimensione del passato. Un approccio non intellettuale, ma istintivo, che si insinua nelle pieghe ordinarie e concrete della vita, si rivela nella quotidianità, definisce e modella identità individuali e collettive… Un approccio che magari non dice molto del passato su cui si proietta, ma che dice moltissimo del presente che lo vive.
Nondimeno, “nostalgia” è una parola difficile: una parola che ne contiene molte. Patologia, inganno, perdita, immaginazione, ribellione, consolazione, desiderio: la nostalgia è un arcipelago di significati. Nella sua radice ha però una dimensione chiara: l’idea del ritorno. Nonostante il suo etimo greco le dia un aspetto anticheggiante, è una parola giovane e forse anche per questo non ancora sufficientemente matura per lasciarsi maneggiare comodamente. Quando nel 1688 Johannes Hofer, uno studente di medicina, la usa per la prima volta, lo fa per definire la patologica «tristezza ingenerata dall’ardente brama di ritornare in patria» che egli riscontra nei mercenari svizzeri al soldo del re di Francia Luigi XIV.
Una patologia dunque: questo il primo abito della nostalgia.
Ma la parola è duttile e ingenera presto analisi che ne approfondiscono il significato: Kant è tra i primi a notare come lo struggimento per la lontananza da un luogo celi in realtà quello per una situazione o per un periodo della vita che si avvertono come perduti per sempre. I mercenari svizzeri, ci dice Kant, non rimpiangono le loro case, ma la loro giovinezza: una realtà cioè a cui non potranno mai fare ritorno e che oggettivizzano nei luoghi che le fecero da teatro e che ora le sopravvivono.
Attraverso la nostalgia, dunque, il tempo indossa la maschera dello spazio e realizza un dolce inganno che cela il dolore per una perdita.
La nostalgia è questo, ma anche molto altro: alle soglie del XIX secolo essa abbandona un poco alla volta i trattati medici e quelli filosofici, trovando una sorta di patria elettiva nell’arte e nella poesia. E qui avviene un ulteriore mutamento: la nostalgia perde il legame che la vincolava alla memoria personale e allarga il suo oggetto ad includere situazioni che non si sono mai vissute in prima persona, ma che prendono forma nella coscienza attraverso l’immaginazione. Ecco allora che si può provare nostalgia di società che si perdono nel mito, di epoche remote, di quei “bei tempi andati” che non si saprebbero poi nemmeno collocare su una linea del tempo…
Messa al mondo dall’intuizione clinica di Hofer, alle porte della contemporaneità e della società di massa la parola “nostalgia” si rende così disponibile a definire un sentire del tutto inedito, un approccio sentimentale al passato capace di investire l’identità dell’individuo, riconnettendola e risolvendola entro nuove forme collettive di identificazione. L’età delle nazioni trova qui una delle sue fondamentali leve: nell’idea che la dominazione straniera che caratterizza il presente abbia interrotto il corso naturale di una storia o, meglio, di un destino, e che ogni popolo sia pertanto investito della missione di ricostituirsi in unità e a riaffermare la propria grandezza. Una missione che sostiene l’edificazione di quelle che non a caso sono state definite «comunità immaginate». Da qui i moti di riunificazione nazionale, sostenuti in nome di un ritorno ad un passato (si noti il legittimante prefisso “ri-“) che le élite dell’epoca rappresentano secondo tinte fortemente idealizzate come una vera e propria “età dell’oro”. La nostalgia in questo contesto diviene un potente strumento di identificazione e, come ha scritto Lucrezia Ercoli, cambia anche la sua considerazione sociale: «il sintomo del malessere iniziò a essere considerato indicatore di sensibilità o espressione di un nuovo sentimento patriottico. L’epidemia di nostalgia non doveva più essere curata, ma diffusa il più possibile. La nostalgia venne trattata in un nuovo genere, non come racconto di una presunta convalescenza, ma come romantica storia d’amore con il passato».
Carica di queste sfumature la parola “nostalgia” sopravvive al «secolo breve» e si offre alla postmodernità per indicare non tanto l’assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente. In altre parole, la nostalgia contemporanea diviene espressione di una ribellione al disagio verso il presente. Una ribellione che, più il disagio cresce e si fa generalizzato, più si fa essa stessa generalizzata. Fino a perdere di vista il suo obiettivo e ripiegarsi su stessa, divenendo un freno, anziché uno stimolo all’azione. Di fronte agli sviluppi incerti della globalizzazione che mette in discussione paradigmi assodati e rimodella identità che si erano considerate intangibili e astoriche, la nostalgia diventa un analgesico, un rifugio in cui sfuggire alla contraddizione della cosiddetta «società dei simulacri»: una società cioè senza più ancoraggi condivisi, poiché il simulacro – la versione secolarizzata del simbolo – è una realtà che non rimanda ad alcuna verità, ma solo a una sua mutevole rappresentazione, addomesticata ad uso e consumo del presente. Si potrebbe dire che la nostalgia diviene il moto che porta a ricercare nel passato queste verità che il mondo contemporaneo abbatte ma non riedifica. Poco conta se il passato che si immagina essere stato incubatore e custode di queste verità non è mai realmente esistito: d’altronde, sin dalla sua nascita, la nostalgia non è mai stata scientifica. Ha regalato a ciascuno mondi a sua propria misura, avallando serenamente le più varie e personali operazioni di obliterazione memoriale, se non di vera e propria mistificazione del passato.
Una ribellione dunque, ma una ribellione spenta: questo molto spesso è la nostalgia dei nostri tempi. Una ribellione indolente, che rimane prigioniera di quel passato idealizzato, rendendo il nostalgico un “abitante dell’immaginario”, più che un ribelle. Un analgesico si è detto: più che spingere a porre rimedio alle storture del presente, come aveva fatto in età romantica, il fenomeno nostalgico contemporaneo pare accontentarsi di una funzione lenitiva, di consolazione. E di autoassoluzione. Consentendo di costruire passati “migliori”, essa permette di condannare il presente, ma di “salvare” la storia e, implicitamente, di “salvare” anche il futuro, dando fiato alla speranza che il mondo possa essere diverso da quello che è. Il mio personale osservatorio mi consente di percepire in maniera nitida come operi questa dinamica con riferimento alla politica. Un’intera generazione disillusa o forse delusa dalle attuali classi dirigenti, si dimostra al contrario disponibilissima a cercare nelle biografie dei grandi statisti del passato una sorta di età dell’innocenza della politica, capace di riconciliarli con l’idea che l’arte del buon governo possa essere, come affermava papa Pio XI, «la forma più alta di carità». Investita di questa tensione riconciliatrice, la nostalgia si dimostra insensibile alle più evidenti contraddizioni: si potrà ad esempio celebrare Alcide De Gasperi come un paladino della politica onesta e screditare nel suo riflesso luminoso la politica contemporanea fino a denigrare ogni forma di compromissione con essa, trascurando che lo stesso De Gasperi si trovò per tutta la vita a combattere l’antipolitica, ripetendo che «da questo non si scappa: o la politica la si fa, o la si subisce». Lo si potrà ascoltare profondersi in un accorato appello alla partecipazione civile, poiché «la repubblica libera e popolare non nasce da uno statuto, nasce e matura nella coscienza di ciascuno. Se non c’è la convinzione personale, se non c’è il vostro impegno di assumere la parte nuova di responsabilità che vi tocca, se non c’è la vostra personale maturata collaborazione, ingaggiata per l’avvenire, la repubblica non diventa» e concluderne che “quelli erano uomini” e che con quelli di oggi inutile affannarsi… La nostalgia, o meglio, l’immaginazione nostalgica, mescola così le carte del presente e del passato in una partita che ammette un solo esito: l’irrimediabile sconfitta del presente.
Resta allora da chiedersi a cosa serva una simile nostalgia: siamo di fronte a un’emozione retrograda e sterile? O, nonostante le sue falsificazioni e gli errori di prospettiva storica, essa conserva il potere di rivelare qualcosa?
«Ci sono nostalgie che fanno vivere, e nostalgie che fanno morire» scrive Eugenio Borgna ne L’arcipelago delle emozioni. E gli fa eco lo psicanalista Glauco Carloni distinguendo tra nostalgie «in cui il rimpianto per l’irripetibile paralizza l’azione e spegne la speranza» e nostalgie che permettono di «attingere al patrimonio delle nostre memorie più care, non per derivarne isolamento, deresponsabilizzazione, ruminazioni o sdilinquimenti, bensì conforto, sostegno, indirizzi, stimoli e illuminazioni, per l’esistenza di quel filo che lega costruttivamente il passato al futuro sia nella storia dei singoli che in quella dell’umanità».
Indubbiamente la nostalgia comporta il rischio di farsi prigione alla volontà. Ma anche la possibilità di farsi rivelazione, perché proiettandoli fuori da noi, dentro le quinte prospettiche di un passato irreale ma verosimile, disvela i nostri desideri e ci consente di conoscerli. Di appropriarcene. Per dirlo ancora con Lucrezia Ercoli, «in quanto desiderio dell’assente, di un luogo che non c’è, la nostalgia diviene in qualche modo anche ricerca e qui perde il suo legame esclusivo con il passato e diviene in qualche modo un connotato della speranza, che proprio come la nostalgia definisce qualcosa che non c’è, ma che nondimeno si desidera».
In poco più di tre secoli di vita, la nostalgia ha quindi l’occasione di realizzare il completo rovesciamento del suo significato: lo struggimento patologico per ciò che appariva irrimediabilmente perso nel passato, diviene rifugio di speranza e quasi progetto per il futuro. Un rovesciamento non automatico, frutto della consapevolezza di ognuno e ognuna: se la nostalgia è un’emozione spontanea, i riflessi che ne seguono non sfuggono al segno della responsabilità. In fondo, a questo alludeva lo stesso Alcide De Gasperi quando, disponendosi nel secondo dopoguerra alla difficile opera della ricostruzione, ricordava ai suoi che «l’età dell’oro non sta nel passato ma nell’avvenire». La nostalgia forza così la gabbia del passato e ci indica una strada. Non quella che porta al luogo da cui veniamo, ma quella che ci mostra dove vogliamo andare.