Nostalgia del futuro

Autore

Roberto Scarpa
Roberto Scarpa, attore, scrittore e organizzatore. Ha ideato Prima del teatro: scuola europea per l’arte dell’attore. Ha pubblicato, oltre a vari saggi teatrali, Il coraggio di un sogno italiano (Scienza Express, 2013); L’uomo che andava a teatro. Storia fantastica di uno spettatore (Moretti & Vitali, 2009); Non perdo nemmeno se mi battono. Per una teoria anarchica del combattimento (con Antonio Di Ciolo; Il Campano, 2019); Non tutto qui (Nicolodi, 2004); Il viaggio teatrale di Andrea Camilleri (in Il quadro delle meraviglie, Sellerio 2015); Nenè Camilleri sugno (in Granteatro Camilleri, AA.VV., Sellerio, 2015). Ha curato la pubblicazione di due volumi di Andrea Camilleri: Le parole raccontate. Piccolo Dizionario dei termini teatrali (Rizzoli 2001) e L’ombrello di Noè (Rizzoli 2002, ristampa 2013). I suoi ultimi lavori teatrali sono: Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti; Non muoio neanche se mi ammazzano! Giovannino Guareschi e la storia degli Internati Militari Italiani (con Luca Biagiotti) e Quando sarò un uomo. La lanterna segreta di Robert Louis Stevenson. Nel 1991 la Guildhall School of Music and Drama di Londra gli ha conferito la Honorary Fellowship.

Avere nostalgia significa avere le prove che la felicità è possibile

1.

Alzi la mano chi non ha pensato qualche volta a fuggire, a fuggire il più lontano possibile. Tanto più in questi tempi di pandemie, catastrofi climatiche, guerre. Fuggire a gambe levate e così provare a salvarsi.

Ma da che cosa si fugge? E dove possiamo andare a trovar rifugio?

La risposta a questa domanda dipende ovviamente dall’identità di colui alla quale vien posta. Le risposte possibili, infatti sono molte e soprattutto molto diverse.

Il primo esempio che viene alla mente è quello dei nostri fragili confini europei affollati da donne, uomini e bambini in fuga. Persone che fuggono da qualcosa di molto preciso e da qualcuno che ha un nome e un cognome. Queste creature, quando la fuga riesce, quando si evita la morte, diventano esuli. Ed è così, a causa di questo destino, che conoscono la nostalgia. 

La nostalgia, cioè il dolore della lontananza, la sofferenza per un ritorno difficile o impossibile. Lo stato d’animo dell’esilio.

Ben diverso è il caso di chi, come noi, è invece nato e vive in uno di quei luoghi ambiti, di quei luoghi sognati da chi fugge come rifugio e possibilità di ricrearsi una vita.

Eppure, anche a noi fortunati accade spesso di provare il desiderio di fuggire. E magari anche noi, all’inizio, supponiamo di fuggire da qualcosa o da qualcuno, spesso da qualcosa e da qualcuno. Però poi, abbastanza presto, in noi che non stiamo davvero fuggendo dalla fame, dalla guerra, dalla violenza, si instilla un sospetto. Il sospetto che non ci sia luogo dove andare perché ciò da cui si vorrebbe fuggire ci seguirà alle calcagna, come un’ombra, dovunque. Perfino in sogno. Ci pedinerà come un poliziotto pignolo. Cercheremo di fargli perdere le nostre tracce ma, quando ci volteremo dopo una galoppata o una corsa, dopo tante curve e svolte, lo vedremo ancora apparire da dietro l’angolo, perché ci starà ancora seguendo. Come incollato.

Insomma, per noi fortunati arriva sempre il giorno in cui si comprende che la terra non rappresenta una possibilità in questo senso. Che non esiste luogo in cui fuggire. Dovunque si fugga infatti, per quelli come noi, per chi cioè appartiene ai baciati dalle stelle, non si fa che ritornare. Come criceti che corrono in tondo.

Da giovani si fantasticava di luoghi esotici, isole tropicali, città di sogno, comunità gaie e pigre ma da quel giorno si comincerà invece a sospettare che non sia quella, cioè la dimensione dello spazio, la direzione giusta verso cui rivolgersi quando si vuol fuggire.

Dovunque si vada infatti la nostra dimensione umana ce la trascineremo sempre dietro e abbiamo qualche indizio che è proprio lì, in quell’impasto di nobili virtù e detestabili vizi, di contraddizioni e ambiguità, di avidità feroce e generosità commovente, è proprio lì che si nasconde ciò da cui intenderemmo separarci, ciò da cui vorremmo almeno prendere le distanze.

Suppongo che qualche pensiero del genere sia frullato nelle piazze della mente di R. L. Stevenson e probabilmente anche abbastanza presto nel corso della sua troppo breve avventura terrena.

Le sue fughe notturne, i suoi fantastici sogni, cos’altro rappresentavano infatti se non una ribellione contro il proprio corpo, infelice perché malato, e contro le costrizioni della gravità? La gravità newtoniana, ma anche la gravità della famiglia, la gravità delle sue febbri, della sua tosse, e infine la gravità dei lunghi, freddi e piovosi inverni di Edimburgo.

L’unica possibile fuga per Stevenson era quella dell’anima, era quella dell’immaginazione: là dove la speranza non muore mai. 

Qualcosa di simile avviene anche a noi. Le nostre fughe, le fughe di noi che siamo nati con la camicia, non avvengono quasi mai nella dimensione dello spazio che già tante volte ci ha illuso. Le nostre fughe si celebrano nella dimensione temporale. Noi non siamo esuli o migranti dello spazio bensì esuli o migranti del tempo. È nel tempo che cerchiamo rifugio.

Le nostre fughe, in conseguenza, possono verificarsi in due direzioni opposte: nella direzione del futuro oppure nella direzione del passato. Perché ciò da cui desideriamo fuggire sono fondamentalmente due cose soltanto: il presente e la chiassosa compagnia dei suoi fanatici complici.

Non siamo però quasi mai noi a poter scegliere in quale direzione fuggire. È il tempo che si incarica di prendere queste decisioni in vece nostra. Infatti, quando siamo giovani per lo più fuggiamo decisi e con spensierata allegria sempre in direzione del futuro. Con il trascorrere del tempo accade poi che si desideri sempre più spesso scegliere per le nostre fughe la direzione opposta, che ci piaccia sempre di più viaggiare all’indietro, verso il passato. La nostalgia diventa così il nostro modo di sperare. L’unico modo per sperare che ci rimane. Nostalgia diventa per noi il passato del verbo sperare.

Anche noi fortunati migranti del tempo, anche noi che ci sentiamo stranieri nel presente conosciamo dunque le condizioni dell’esilio e della nostalgia. Ma si tratta evidentemente di un esilio e di una nostalgia molto diverse da quelle sperimentate dagli scalognati migranti dello spazio. A loro infatti non sono consentite le nostre lussuose alternative. 

Vivo a pochi chilometri di distanza dal luogo dove sono nato, perciò non ho nessun titolo per parlare della nostalgia che deriva dalla condizione di esule nella dimensione spaziale. Non mi azzarderò a farlo.

Potrei invece certamente parlare con una certa competenza della nostalgia che deriva dall’età e dall’aver accumulato una dose di passato abbastanza consistente. Potrei cioè parlare di quella nostalgia piuttosto ridicola che deriva dall’idea di qualcosa che viene definito come «i bei tempi antichi». Ma siccome penso che questi benedetti «bei tempi antichi» non siano mai esistiti mi è preclusa anche questa strada.

Di che cosa posso parlare dunque? Di quale nostalgia posso dirvi qualcosa?

Posso parlare soltanto della nostalgia del futuro. Un tipo di nostalgia che, come ho detto, si presenta prevalentemente nei giovani, ma che non è proibita a nessuna delle età dell’uomo. 

La nostalgia del futuro, è chiaro, è una cosa che mi sto inventando adesso. Ciò nonostante, più osservo questo tipo di nostalgia, più mi convinco che, per quanto fantasticata in un momento di esaltazione linguistica, la nostalgia del futuro non sia del tutto campata per aria, che una nostalgia del futuro esista davvero.

Infatti, per quanto bizzarro possa sembrare oggi, posso garantire ai più giovani che c’è stato davvero un tempo in cui il futuro ancora esisteva, anzi, il futuro era addirittura dato per certo. E non solo: si era anche certi che il futuro sarebbe stato il luogo dove le promesse di felicità, di giustizia, di bellezza, si sarebbero finalmente realizzate. Insomma c’è stato un tempo in cui si favoleggiava che il futuro sarebbe stato un luogo migliore e più accogliente. E si poteva farlo senza essere presi per pazzi. 

Ecco. Di questo tipo di futuro che io ho conosciuto, che molti assieme a me hanno conosciuto, che molte generazioni hanno cantato e inseguito, di quest’idea generosa oggi ho una grande nostalgia. Una nostalgia incomprensibile per i complici e i fanatici del presente.

2.

«Abbiamo sognato?»

Al termine di una piacevole conversazione, mentre ci salutiamo, Michele, un amico, mi sorride e mi chiede: «Abbiamo sognato?».

Mi spiego. 

Michele ed io siamo coetanei perciò, in quella domanda, per me non c’è niente di sibillino. Capisco subito che Michele parla di molti anni fa, di cinquanta anni fa. Anzi, anche più di cinquanta anni fa.

«Be’ – rispondo –, eravamo in tanti a sognare. Quel sogno lo abbiamo fatto in tanti.»

Poi, siccome non avevamo altro da dirci, ci siamo salutati andando ognuno per i fatti suoi.

Io però non sono riuscito a separarmi dalla domanda di Michele. La domanda di Michele continuava a ronzarmi nella mente, tanto che ho deciso di non scacciarla via ma di accoglierla e magari provare a immaginare che cosa avrei dovuto rispondere a Michele anziché balbettargli la prima ovvietà che mi era venuta alla mente. 

È così che alla fine sono arrivato alla conclusione che, in quelle due brevi battute, si era come condensata e riassunta la nostra intera esistenza.

Eppure, Michele ed io nel corso di oltre cinquant’anni abbiamo fatto cose diverse, abbiamo avuto vite diverse. Ricche di incontri, amori, amicizie, figli, delusioni, successi, lutti, sconfitte. Ma molto diverse. Eppure adesso, al punto in cui ci troviamo, prossimi al punto d’arrivo, se ci venisse chiesto di trovare il modo di riassumerle, sarebbe difficile trovare due battute che riepilogassero meglio le nostre esistenze.

E quindi, sì, Michele, abbiamo sognato. Questo, oggi, dal punto di osservazione in cui ci ha condotto il Tempo, appare chiaro. Così come appare chiaro che quel sogno, o un sogno molto simile, lo abbiamo sognato in tanti. E questo ovviamente ci rende bizzarri. Una strana genìa di esseri umani, ormai anziani, che si risvegliano e, stupiti, si stropicciano gli occhi realizzando di aver sognato. 

Un po’, mi vien da pensare, come dev’esser stato per quegli oltre duecento malati di encefalite letargica del Mount Carmel Hospital di New York che furono risvegliati, quarant’anni dopo essersi assopiti, dal dottor Oliver Sacks grazie a un nuovo farmaco, la L-dopa. 

C’era stata infatti una strana epidemia negli anni tra il 1916 e il 1927. Encefalite letargica la chiamarono o malattia del sonno. L’epidemia scomparve poi improvvisamente e misteriosamente così come improvvisamente e misteriosamente si era presentata. Sembra che le vittime furono cinque milioni. I pochissimi sopravvissuti rimasero imprigionati in una specie di torpore finché appunto, non arrivò un giovane incosciente dottore, Oliver Sacks, a risvegliarli. Un giovane dottore che in seguito si interrogò a lungo su ciò che aveva osato fare. Aveva fatto bene a risvegliare quelle persone? O sarebbe stato meglio lasciarle tranquille a dormire il loro sonno? Perché quei risvegli catapultarono quelle donne e quegli uomini in un mondo pressoché sconosciuto, un mondo nel quale si scoprirono improvvisamente stranieri, invecchiati e soli. Completamente spaesati. Esuli. 

La nostra situazione però, quella di Michele e la mia, è ovviamente diversa. Appartiene al genere della commedia, non a quello della tragedia. Ciò nonostante per certi versi appare ancor più strana. Più strana perché nel nostro caso, durante il nostro “sonno”, il sogno che Michele ed io sognavamo con forsennata determinazione era lo stesso. O, se non proprio lo stesso, se dovessimo infine a malincuore ammettere che erano due i sogni che Michele ed io sognavamo, comunque erano due sogni fra loro molto simili. Inoltre era così non soltanto per noi due, ma per molti della nostra età. Un’intera generazione, forse due generazioni addirittura, furono cioè colpite, sedotte, ustionate, da questa formidabile epidemia che provocò alla maggioranza di noi non soltanto gli stessi sogni ma anche visioni psichedeliche, allucinazioni e incubi molto simili.

Ma chissà, forse invece ha ragione chi sostiene che credemmo soltanto di sognare lo stesso sogno. Magari ciò che volevamo era soltanto convincerci che i nostri sogni fossero identici.

Sia come sia, dal momento che queste due ipotesi possono essere entrambe vere o entrambe false, a Michele ed a me, che oggi sosteniamo d’essere svegli, pare d’aver fatto lo stesso sogno.

E quindi Michele ed io pensiamo anche che, certo, si sa, i giovani son sognatori, tutti, o quasi tutti, però a poche fortunate o sciagurate generazioni è capitato il buffo destino di fare lo stesso sogno o almeno di poter credere in tutta onestà di sognare lo stesso sogno. Perché anche oggi i giovani, Michele ed io pensiamo, sognano, ma i loro sogni, almeno a noi così pare, son sogni personali, intimi, unici.

Noi invece no. Noi, evidentemente sbagliando, rinunciammo a questo tipo di sogni. Li conoscevamo. Ci parvero angusti. Li rifiutammo. E fu così che ci sforzammo di sognare in tanti lo stesso sogno. Che collaborammo cioè attivamente con quella bizzarra pandemia. 

Perciò ancora oggi, Michele ed io, ci facciamo una domanda: fu una condizione fortunata o sciagurata quella? Una generazione fortunata o sciagurata?

Be’, se fu fortuna, e probabilmente in parte lo fu, non si trattò d’una fortuna di lunga durata. Certo, per tutta la durata del sogno, finché riuscimmo ostinatamente a rimandare il risveglio, la nostra condizione, diciamo, “sonnambulistica”, fu sicuramente felice e dunque fortunata. Ma più felice parve allora il sogno, più poi il risveglio, l’inevitabile risveglio, lasciò intontiti, come dopo una sbornia. Intontimento che durò a lungo per lasciare poi spazio a un senso di vuoto, di malinconia, di nostalgia per le immacolate lenzuola del candido letto che aveva incubato e protetto le nostre passioni giovanili. Ovvio poi che ci aggrappassimo a quel sogno come dei naufraghi a un relitto. 

Quindi, se fortuna fu allora, ecco con che cosa la paghiamo oggi: vuoto e tristezza. E una grande, un’immensa nostalgia.

E per questo Michele ed io ci facciamo anche un’altra domanda: «Abbiamo fatto male a sognare?».

Be’, se abbiamo fatto male, abbiamo fatto male soprattutto a noi stessi.

Perché alla domanda di Michele, alla domanda se abbiamo sognato, la mia risposta è: «Sì, certo, abbiamo sognato». Questo oggi è chiaro. 

Mentre adesso, almeno così a me pare, non ne siamo più capaci, non sappiamo più sognare. E certo non sappiamo più farlo in tanti. Ma neanche più, temo, sappiamo sognare in modo solitario.

Se però non conosciamo più il sogno, siamo certi adesso d’essere svegli? 

Come facciamo a essere certi d’essere svegli se non conosciamo più il sogno?

Ed è per questo che allora penso, caro Michele, che avrei dovuto risponderti diversamente. Che alla tua domanda «Abbiamo sognato?» avrei dovuto risponderti: «Sì, Michele. Ma eravamo svegli».

Perché il punto è questo. Il punto è che allora eravamo svegli mentre è adesso che dormiamo.

E soprattutto dormiamo senza più sognare.

Perché è banale l’idea che soltanto nel sonno sia possibile sognare. Io credo al contrario che invece solo da svegli sia davvero possibile farlo. E che anzi, se quando si è svegli non si è capaci anche di sognare, allora significa che sembra soltanto che siamo svegli ma in realtà si sta dormendo. Anzi, in realtà si è anestetizzati.

Ecco, quindi, che cosa penso della nostalgia. La nostalgia che desidero provare adesso, la nostalgia con cui vorrei contagiare, è la nostalgia per un futuro in cui sarà di nuovo possibile, anzi sarà di nuovo considerata un dono, la capacità di sognare quando si è ben svegli. E sarà di nuovo considerato sano saper sognare in tanti, saper sognare assieme.

Sognare assieme, per esempio, di poter fuggire da un presente che non è ospitale. 

Svegliamoci dunque, come ci ha esortato Edgar Morin a fare. 

Svegliamoci, perché forse da svegli sarà possibile reimparare a sognare. 

E questa volta a farlo a occhi bene aperti, così da non sbagliare.

Perché sbagliammo i nostri sogni allora, e adesso non abbiamo più tempo per sbagliare. 

Che sia questa dunque la nostra nostalgia. Che nostalgia sia il futuro del verbo sperare.


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