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Di ciò che non è stato

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Contenta, ma non abbastanza, ha conseguito un'altra laurea in Graphic Design presso la LABA di Rovereto con una tesi di progetto dal titolo "Sfumature. Interazione tra podcast e comunicazione visiva in un progetto di divulgazione storica" col prof. Matteo Carboni. Mossa dal desiderio di unire l'anima storica e quella grafica e lavorare nel campo della comunicazione culturale, attualmente si muove tra Trento, dove collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e con lo Studio di Davide Dorigatti, e Bologna, dove lavora per Un Altro Studio.

Ormai in quella poltrona ci sprofondava e faticava a riemergere senza l’aiuto di almeno uno dei due braccioli di legno. Andava sempre così: si sedeva, per ore se ne stava lì a raccontare cose, e poi ogni volta gli sembrava che per rialzarsi sarebbe stato necessario essere risucchiato in qualche modo dall’alto. Per lui erano passati i tempi in cui “erano passati i tempi in cui” era un incipit da vecchi, quindi poteva tranquillamente dirlo anche ad alta voce: erano passati i tempi in cui su quella poltrona ci troneggiava. 

I capelli leccati, la giacca, gli occhiali dalla montatura spessa e la sua splendida macchina da scrivere appoggiata davanti, pronta a ricevere colpetti veloci per mettere in ordine pensieri e parole. Aveva sempre avuto una certa propensione per le storie. Rientrando nel tardo pomeriggio dalla campagna che gli spaccava le mani e le ossa, adorava lavarsi, pettinarsi e indossare i vestiti che alcuni suoi coetanei in quel momento della giornata non vedevano l’ora di togliersi. Solo, con la sua macchina da scrivere, si sedeva e lasciava che le parole, quelle poche che aveva e che sapeva usare, si stampassero sulla carta ruvida. Non è che poi qualcuno le leggesse, ma non importava, perché il piacere che provava con quel rito quotidiano andava oltre qualsiasi prospettiva di riconoscimento esterno. Ora che la vista lo stava abbandonando non scriveva quasi più, ma aveva scoperto che poteva colmare in parte questa mancanza raccontando. Quando venivano a trovarlo i suoi nipoti – nel senso che lui era il loro prozio –, circa una volta ogni anno e mezzo, per l’occasione risciacquava il servizio da tè, quello mezzo buono e un po’retro (d’altronde, lo stesso concetto di “servizio da tè” era forse un po’retro), e sfoderava i migliori ricordi dei suoi 89 anni di vita. Gli piaceva tantissimo vedere quei ragazzi stretti e un po’a disagio sul suo divano grigio polvere, rapiti dai suoi racconti, e soprattutto era inebriato dalla consapevolezza che le loro espressioni facciali e i loro impercettibili sussulti dipendevano esclusivamente dalle sue parole. Sapeva benissimo che nella maggior parte dei casi si trattava di reazioni forzate dalla cortesia di mostrarsi interessati alle storie di un vecchio che nemmeno potevano dire di conoscere, ma questo non sminuiva per niente il potere che sentiva di esercitare in quei momenti. 

Come tutti i vecchi – non possedeva né paura né pudore che gli impedissero di utilizzare apertamente questo termine – inondava i suoi ascoltatori raccontando loro di quella volta in cui da bambino giocava con le biglie in giardino insieme ai ragazzini dell’isolato e improvvisamente erano stati catturati da un suono fortissimo. Stava passando una motocicletta, una cosa mai vista prima dal vivo, attraente e spaventosa come tutto ciò che è grande. Il proprietario era straniero, era appena arrivato ed era il più ricco del quartiere. Da personaggio burbero e schivo, era piano piano diventato l’adulto più amico dei bambini. Si era conquistato la loro fiducia a forza di caramelle, cartoline di paesaggi esotici e soprattutto offrendo loro innumerevoli, brevi e intensi giri su quella bestiolina sputacchiante a due ruote. Ci avevano passato l’estate più bella di sempre, con quel signore venuto dalla Germania, finché poi non era sparito per motivi che con un ghigno soddisfatto il prozio lasciava avvolti nel mistero. Oppure ricordava quando da ragazzo andava al lavoro a piedi, camminando per un’ora fino al centro della città insieme agli amici che si aggregavano lungo la strada. Tre volte alla settimana facevano il turno di notte, quindi partivano quando tra le ombre degli edifici sfuggiva quella luce che solo i tramonti della città sanno dare e uscivano dalla fabbrica quando albeggiava. Si fermavano a comprare dei cornetti appena sfornati, quelli di cui è impossibile decidere se sia migliore il profumo o il sapore. Si sedevano in fila sul muretto lungo la ferrovia e li divoravano parlandosi addosso gli uni con gli altri, smaniosi com’erano di immaginare e poi condividere il loro futuro ancora da vivere. E la ferrovia gli dava il LA per raccontare della prima volta in cui aveva preso il treno e a Venezia aveva incontrato Amelia, Amelia – ripeteva sempre il suo nome due volte, a sottolinearne il fascino e l’importanza. Amelia, che coi suoi capelli neri e ondulati (forse anche “ondulati” ora non si usava più) era la donna più bella che avesse mai conosciuto. Amelia, che andava segretamente a trovare ogni due settimane, con la quale si perdeva per le calli tra baci, carezze e risolini. Sospirava mentre raccontava tutto questo, perché sapeva che ciò avrebbe fatto trasparire tanta nostalgia e suscitato maggiore partecipazione emotiva, o forse solo un po’di tenerezza, nei suoi pronipoti. Di solito funzionava, anche se in ogni caso dopo qualche ora qualcuno iniziava a strofinarsi le ginocchia con le mani o a battere una pacca sulla spalla del vicino facendo notare che ormai si era fatto tardi e che qualcuno li stava aspettando per cena. Si alzavano in maniera cordialmente lenta e lo aiutavano a fare altrettanto, lo salutavano uno ad uno con delle strette di mano e con dei sorrisi un po’forzati, che tradivano l’incolmabile scarto affettivo e generazionale che li separava. Lui li ringraziava e raccomandava loro di passare a trovarlo presto, che ormai non si poteva prevedere quanto ancora avrebbe campato, ma sapeva benissimo che non lo avrebbero fatto. 

Così come sapeva benissimo, e ci pensava sempre mentre chiudeva la porta alle loro spalle, che loro fingevano interesse per cortesia, ma sapevano che tutto ciò che raccontava loro non era vero. Poteva esserlo stato per qualcun altro, ma quelli non erano i suoi ricordi. Sapeva che loro sapevano che il motociclista tedesco non era mai esistito, che non aveva mai lavorato in una fabbrica, che non aveva mai avuto dei compagni con cui dividere colazioni fragranti e dissertazioni sulla vita. Sapeva che sapevano che non c’era mai stata nessuna Amelia, per la verità mai nessuna donna nella sua vita. E che non era stato neanche una volta a Venezia. Semplicemente, i ricordi che aveva non erano quelli che lui avrebbe voluto raccontare, e così se li inventava. La cosa curiosa era che la nostalgia che provava per quei racconti era autentica: per lui non erano ricordi inesistenti, ma delle prospettive di una vita che aveva visto negli altri, che aveva sempre spiato da lontano e che avrebbe davvero potuto essere sua, non fosse stato per le sue scelte, per la freddezza che lo aveva sempre allontanato dagli altri, per l’inclinazione a badare più alle cose che alle persone e a ritenere più importante l’accumulo del godimento. Più diventava vecchio e più tutti quei “non fosse stato per”, che per quieto vivere si sforzava di allontanare, gli tornavano indietro, rendendogli inevitabile una domanda sospesa sul crinale tra il rimorso e l’auto-assoluzione: si può provare nostalgia per ciò che non si è mai avuto? 

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