In un tardo pomeriggio di ottobre capita che una persona a me cara chiami per dialogare sul tema della nostalgia. Ed ecco che esperienza, pedagogia, psicologia e filosofia si incontrano per creare una riflessione su questo argomento, così particolare e allo stesso tempo intrinseco del nostro tempo.
Analizzando il significato della parola nostalgia, che in psicologia significa separazione, si può immaginare una singolare corrispondenza tra quello che ognuno di noi vive all’origine della vita e la continua necessità di elaborare l’angoscia di finitudine, per noi esseri umani che siamo capaci di concepire l’infinito.
Al momento della nascita, secondo l’importante tradizione di analisi avviata da Melanie Klein, si consuma quello che in sintesi viene definito il distacco originario. La separazione dalla condizione del feto nel seno materno, dal corpo della donna che ci ha contenuti e cresciuti per nove mesi, la fonte della nostra sopravvivenza, una condizione di assoluto contenimento, esige un processo di elaborazione nel corso di tutta la vita. E non può non essere accompagnata da quella che si potrebbe definire una nostalgia originaria.
Da quella condizione e nel processo di elaborazione del distacco originario che dura tutta la vita, progressivamente, con l’avvento della consapevolezza della finitudine e della certezza della morte, tende ad affermarsi una nostalgia più o meno strisciante nei confronti della vita e del suo limite inevitabile.
Si vive quindi un paradosso che da un lato ci fa vivere la separazione fin dalla nascita per concederci la vita, e con la morte si vive la separazione dalla vita.
Appare evidente come dall’elaborazione di questi processi psicodinamici dipenda la qualità della vita stessa e il sentimento del mondo di ognuno di noi.
Possiamo vivere un’esperienza di vita in cui vediamo prevalere una costante nostalgia verso quello che viviamo come perdita passata e perdita futura, finendo per invidiare costantemente quello che non abbiamo o che non abbiamo più.
Viviamo costantemente in uno stato d’animo secondo cui la nostalgia rischia di confondersi con la mancanza. Viviamo spesso situazioni nelle quali pensiamo a ciò che non abbiamo più e allo stesso tempo non riusciamo a godere del “qui ed ora”. Persone, relazioni, momenti, ricordi, viaggi, luoghi che lasciano un segno e che non tornano più, nella maggior parte dei casi.
Oppure possiamo riconoscere con gratitudine il valore di essere nati e di avere ricevuti i doni che la vita ci ha fatto e ci fa, in primo luogo il dono di esistere.
È stato Donald Winnicott, approfondendo ed evolvendo l’ipotesi di Klein, a riconoscere che noi originariamente disponiamo della capacità generativa di affrontare in modo creativo e progettuale l’elaborazione dei percorsi della nostra crescita.
In questa prospettiva la nostra possibilità di elaborare la nostalgia in modo non invidioso, ma con un senso di gratitudine rispetto a quello che la vita è e ci dona, di pensare cioè alla vita come dono, nonostante il dolore e la mancanza, esiste e può essere perseguita.
Se la nostalgia è una delle vie per le quali elaboriamo il distacco e la mancanza, sia che si tratti di quel che non avremo mai più, sia che si tratti di quel che possiamo ritrovare ad un livello altro e magari più elevato di quanto avevamo avuto, allora pare importante riconoscere come dalla sua elaborazione dipenda in buona misura la qualità dei nostri sentimenti del mondo e della vita di ognuno di noi.