Nostalgia e contemporaneità nel lavoro dell’architettura
La nostalgia non esiste. Non è nell’adesso, quindi non diviene contemporaneità.
Esiste il desiderio di nostalgia: qui foucaultianamente, il passaggio dalle parole alle cose.
Il segno in architettura sembra sottrarsi alla possibilità di significare. Tendenzialmente si impone e cancella.
Si può sentire nostalgia della sottrazione della sua catartica ritualità.
Come rintracciare la capacità di significare, facendo segno?
Il quesito può nutrire il lavoro dell’architettura responsabile. L’abilità di rispondere alla contemporaneità diviene un fatto possibile e necessario, oltre che fondamentale all’estetica: ovunque occorre promuovere il risveglio dell’aisthesis ovvero delle sensazioni, intese come impressioni del mondo esterno; segni lasciati oltre lo spettacolo della contemporaneità, che ripete se stesso. E’ successo. Finisce. Quindi non è contemporaneo.
Allora, per non anestetizzarci in una vita di eventi senza sussulti di meraviglia dove, privati dell’estetica e distratti o, nel migliore dei casi, nostalgici, nella mancanza di sensazione autoescludiamo il risveglio dei sensi attraverso il contatto per restare solo in connessione alle non-cose, in spazi che non riescono a divenire luoghi, è urgente contattare saperi e sapori, ed esperirli perché si incarnino e prendano Corpo. E’ urgente toccare e farsi toccare dai luoghi che attraversiamo quotidianamente, per emozionarci, “e-muoverci” mettendo in moto il possibile del passato come rinnovati testimoni. Il possibile del passato riguarda la sua eco, l’impronta di un segno interrotto o limitato nel suo potere.
Per restituire significato al lavoro dell’architettura, occorre mettere in atto la possibilità, quindi il potere, della costruzione di un principio primo, contemporaneamente originario e originale, quindi inedito, non ancora esposto. Dato alla luce, diviene visione e continua meravigliosa re-visione. Non tele-visione, visione a distanza.
Si evita così la sparizione dell’architettura nel design, parola che una volta significava progetto, quindi gettare in avanti, e non appoggiare oggetti senza luogo, fuori scala, senza attenzione al contesto, al contatto e al contenuto; al tenere e toccare insieme ciò che è contenuto.
L’architettura come istituzione² vede ogni azione dell’essere umano manifestarsi in un edificio – abitare (case), curarsi (ospedali), esporre (musei), … – con valore ben oltre il contenitore e la sua firma. Allora il lavoro di architettura – come accade a ogni autentica pratica artistica – risveglia, diviene corpo, senso, quindi orientamento: attraverso l’origine edifica l’originale. Edificare, poeticamente fa un’idea: attiva gli stessi organi di percezione di sempre per rendere visibile (non solo con gli occhi ma, per estensione, con tutti i sensi) ogni volta (non solo la prima) l’inedito.
Il fare idea permette di vedere senza limitarsi a guardare. Ecco il risveglio dei sensi: un atto necessariamente trasformativo, se siamo consapevoli della bellezza della continua trasformazione, del divenire oltre l’abitare – che si limita a continuare ad avere una consuetudine in un luogo, come un abito che può cambiare senza che nulla cambi –.
Ben oltre il dimorare, dove, per abitare permanentemente, si indugia attardandosi, allontanando la contemporaneità e la sua continua edificazione dell’inedito, e la continua ricostruzione di sé, come ogni respiro, ogni alba e ogni tramonto, ogni stagione, in una parola come la natura continuamente suggerisce.
Oltre il desiderio della nostalgia, il progetto della memoria disvela l’origine risvegliando il progetto della natura attraverso la Storia e le storie come continua meraviglia. Questo è da sostenere.
Occorre recuperare senza nostalgia la qualità propria dei lavori dei cosiddetti maestri: il senza-tempo con-tutti-i-tempi che un’opera può esprimere quando incontra il luogo; il suo programma d’uso ben oltre la funzione, al servizio di ognuno e di tutti. Il risveglio dell’architettura come istituzione, atto istitutivo attraverso forme dell’uso³, erige continuamente, pur essendo stabile. Edifica la contemporaneità progettando oltre l’apparente accelerazione e la continua obsolescenza; andando oltre il nuovo (che necessariamente diviene vecchio) e oltre il moderno (che si limita al modus nel tempo presente, tempo che peraltro non esiste).
Significa incessantemente trasformare, oltre la forma: edificare l’inedito facendo visione.
Ecco allora le parole chiave proposte e attraversate, sollecitate dalla parola nostalgia, che ha in sé un ritorno al dolore per cui pare ci sia bisogno di essere anestetizzati. A nostalgia preferisco l’intraducibile portoghese saudade per la sua appartenenza simultanea e contemporanea a solitùdo, solitudine, accompagnata da un intenso desiderio di salutare qualcosa di assente perché perduto o non ancora raggiunto: non solo ricordo nostalgico, di affetto-affezione per un bene speciale che è assente, accompagnato da un desiderio di riviverlo o di possederlo, ma catartico rito solitario, personale, oltre l’attaccamento alle cose, ai ricordi che contatta l’accettazione del passato e saluta il futuro; passato e futuro che pure non esistono.
Se la contemporaneità – quell’oscurità che si accende dell’inaspettato che giunge, ogni volta come inizio, quindi meraviglia, se appartenente all’origine – ci sta a cuore, come andare oltre? Diversamente cadiamo o nella nostalgia – in memoria di.., dove non si attiva il risveglio dei sensi, ma la ricostruzione, quindi necessariamente una forma di falsificazione, o peggio, di verosimile – o nello stupore promosso dall’interpretazione di pochi che ottunde i sensi e si consuma nella spettacolarizzazione (incessante ripetizione) appartenente alla attualità, che contemporaneità non è.
Distratti, perderemmo le opportunità della contemporaneità quando, attraverso quella ritualità catartica si riesce a mettere in moto in ognuno memoria e meraviglia, origine che diviene originale contattando il corpo e lasciando impronte che lo nutrono ogni parte.
In questo modo, l’edificio neo-nato non è semplicemente nuovo – quindi già vecchio –, ma inedito. Incredibilmente nessuno protesta rispetto a questo consumo paradossale di ciò che nasce obsoleto, senza il tempo dell’istantanea obsolescenza, che è un consapevole e accanito atto di mercato.
In questa società tra passato -nostalgica- e futuro -avveniristica- variamente anestetizzante, il lavoro dell’architettura può tornare ad essere, come ogni autentica pratica artistica, oltre che luogo della tecniche di costruzione, luogo di risveglio. Pratica estetica senza consenso, ma autorevolezza: con la sua capacità di fare segno non si impone ma restituisce significato, aderendo al campo del non-ancora; quindi alle radici del sacro, di quel legame con l’invisibile che appartiene a tutti per il solo fatto di essere nati.
Coltivare l’inedito significa andare quindi anche oltre l’edificazione; divenire visionari senza riferimenti o aderenze nostalgiche a una contemporaneità finta; uscire dal contemporaneo come categoria estetica, che varia senza cambiare.
Il nostro lasciarsi andare a distrazioni, a seduzioni, a innamoramenti in cui si cade ma manca l’amore, diviene messa in scena. Ecco: la caduta nel tempo – E.M. Cioran – della nostalgia e dell’istantanea obsolescenza è lontanissima dall’amore proprio di ogni progetto, come suggeriva Le Corbusier, che dal poema dell’angolo retto raggiunge le curve tracsendenti della cappella di Ronchamp coltivando l’inedito, seppur allontanando la storia. A questo nostro tempo tocca coinvolgerla come memoria con un progetto che non sia una messa in scena ma un atto d’amore.
¹ Il riferimento al libro Cornelius Holtorf, The Invention of Tradition – Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987 – non è casuale: le “tradizioni inventate” sono l’elaborazione di una risposta a tempi di crisi, normalmente di rapidi cambiamenti sociali, dove tutto cambia senza che nulla apparentemente cambi, nell’incapacità di abitare la contemporaneità, ovvero la simultaneità di tutti i tempi; il richiamo al passato sembra necessario per restituire alle forme legittimità. Falso. O peggio, costruire il verosimile, tradendo non solo la tradizione (incapace di tradurla, quindi di portarla oltre) e offendendo il dono che la contemporaneità, come la vita, sempre offre.
² Louis I. Kahn
³ Tesi PhD dell’autrice, corpo mobile, misure temporali, forme dell’uso, 2004