Se Gioacchino Murat, re di Napoli, nel 1809, non avesse fatto edificare un ponte per collegare il centro della città con la Reggia di Capodimonte, il destino del Rione Sanità forse sarebbe stato un altro. Tagliato fuori dalla vita della città, il quartiere finì per diventare un ghetto depresso, degradato, invivibile, colonizzato dalla cattiva politica, affamata di voti, e dalla camorra alla ricerca di manovalanza. Da diversi anni il quartiere vive una primavera impensabile, soprattutto mostrando che la bellezza può vincere sulla morte, come racconta Ermanno Rea in “Nostalgia”, romanzo pubblicato nel 2016 per i tipi di Feltrinelli, e che ha ispirato il film omonimo del regista Mario Martone uscito nel 2022.
Rea, lei è parte nel romanzo che ha scritto. Indossa i panni di un medico in pensione abitante al Rione Sanità, che decide di raccontare la tragica storia di Felice, ucciso al suo rientro a Napoli, dopo molti anni all’estero, dall’amico di infanzia Oreste, diventato nel frattempo un boss del quartiere, soprannominato Malommo. Cosa ispira il suo romanzo?
Quasi una questione d’onore. E ho deciso che sarei partito dalla fine: una marcia all’indietro alla scoperta, oltre che delle ragioni di un delitto, delle radici del nostro male di vivere in un mondo troppo pieno di ingiustizie.
Perché ha scelto il titolo “Nostalgia”?
Ho esitato a lungo. Infine l’illuminazione: Nostalgia, che è poi il sentimento che domina il protagonista di questa cronaca e ne determina le scelte. La parola “nostalgia” nasce dall’abbinamento di due vocaboli della lingua greca classica: “nòstos” che significa “ritorno”, e “algòs” che vuol dire “dolore”. Pur trattandosi di un lemma di conio abbastanza recente, la parola nostalgia sembra insomma far parte del nostro bagaglio genetico, del nostro “arcano” di esseri umani. Ogni uomo la sperimenta di continuo, perché le voci che gli giungono dal suo passato hanno sempre un fascino irresistibile.
Le figure di Oreste e Felice, e le loro storie famigliari, indicano quanto il contesto influenzi i percorsi esistenziali. Vivere di illegalità o vivere di lavoro fa la sua differenza nell’educazione dei giovani.
Che cosa sarebbe accaduto se non fosse partito? Forse sarebbe diventato un delinquente abituale. Come Oreste. Aveva sedici anni. Aveva scelto la fuga. Tutto qui.
Il lavoro è un tema a lei caro e presente anche in altri suoi romanzi. In “Nostalgia” mette in primo piano l’arte dei “guantai” napoletani: mestiere svolto per un’intera vita dalla mamma di Felice. Lei si sofferma particolarmente sulle cause e sulle conseguenze della loro scomparsa, richiamando l’esperienza dei guantai di Newark raccontata da Philip Roth nel libro “Pastorale americana”.
Quanto alla napoletanità della “guanteria” chi la ignora? Nei tempi moderni è a Napoli che trionfa. Grazie ai Borboni? Bè perché no? Città di corte con abitudini sfarzose, c’è un’aristocrazia che gareggia in eleganza con il resto del mondo. Queste fabbriche si tramanderanno di padre in figlio, fino a quella sorte di apocalisse che, dagli anni ottanta in poi, farà della Sanità un po’ alla volta, un deserto produttivo, dominio incontrastato di violenti e facinorosi, dove si va perdendo perfino la memoria delle proprie remote virtù.
Quindi arriva il declino…….
Per la Sanità la campana a morto del guanto (e anche della scarpa di lusso, pelle e suola) arrivò in realtà attraverso la paccottiglia cinese, e prima ancora attraverso la moda cosiddetta seriale, all’insegna dell’usa e getta. Non si contano le fabbriche che chiusero, oppure si trasferirono altrove, in periferia o addirittura all’estero; le luci che si spensero nei vicoli delle lavoranti a domicilio, dove più alta si era manifestata la febbre produttiva. Ci furono emigrazioni di singoli e di interi gruppi familiari.
A fine anni ’60, lei ricorda che vi fu l’organizzazione ben riuscita di uno sciopero per il rispetto di regole, diritti e legalità. Un evento che tuttavia rimase isolato e che qualcuno addirittura ritenne nocivo per lo sviluppo delle imprese in quel luogo.
Secondo questa tesi sciagurata, la struttura stessa di Napoli (figuriamoci del nostro quartiere) non sarebbe in grado di sopportare un regime di regole legali in quanto esse imbriglierebbero il naturale bisogno di volatilità di certe forme produttive. Un modo come un altro per dire che la sanità ha l’illegalità nel sangue e nessun traffico vi può attecchire che non sia doverosamente illegale.
In questi anni anche al Rione Sanità il paesaggio cupo, violento, attraversato dalla paura e dalla morte è cambiato: proprio dalla “Valle delle tombe” – il rione è così denominato in quanto sede fin dal IV secolo a.C. della necropoli della Neapolis greca e, successivamente, delle catacombe paleocristiane (San Gaudioso, San Severo, San Gennaro) ndr – è partita la rinascita. Il motore è stato un prete con la sua comunità di giovani, quel don Luigi Rega personaggio centrale del romanzo, ispirato a don Antonio Loffredo, parroco alla Sanità in questi ultimi vent’anni.
Le strette di mano di don Luigi erano asciutte, gagliarde e trasmettevano messaggi di rilevanza soprattutto terrena, attenti alla difficile arte del vivere. Vedete, disse a un certo punto, io ripeto spesso di essere come mio padre: un uomo d’azione non certo un contemplativo. Non doveva far altro che seguire le orme paterne, risanando tutto quello che era possibile risanare – quadri, basiliche, catacombe, affreschi, strutture varie – per farne poi una fonte di reddito a vantaggio della comunità, del Rione, a cominciare dai più giovani. Chi dice infatti che la cultura, l’arte, i monumenti non possono produrre, se utilizzati con rispetto e intelligenza, anche ricchezza materiale, fare addirittura la fortuna di un quartiere?
Un prete, don Rega, che attinge a piene mani alla stagione rivoluzionaria napoletana del 1799, soprattutto nei passaggi più difficili del suo impegno per trasformare il Rione Sanità, alle prese con curia, burocrazie, politica, camorra, capaci di creare vincoli di ogni genere pur di ostacolare i progetti in campo. E ne parla pubblicamente, coinvolgendo la comunità locale.
Nonostante i suoi sorrisi rasserenanti, era riuscito, sin dall’esordio, a creare un clima di attesa e tensione quasi drammatica. Appoggiò la schiena al pulpito e riprese a parlare. Un sermone. Se l’era preparato a lungo, punto per punto, deciso a sollevare un gran polverone. I lazzari, disse, i tanti poveri che popolano i nostri vicoli e che nel 1799 insorsero contro la Rivoluzione, oggi sono cresciuti. Alla fine del Settecento, pensando di difendere la “Santa Fede” e la propria sopravvivenza, lottarono e vinsero contro i rivoluzionari che predicavano giustizia e verità. Oggi forse stanno imparando che non si vive di solo pane, ma anche di libertà, dignità, uguaglianza, e che hanno il diritto di gestire i beni comuni. Oggi la necessità di un radicale cambiamento della società si è fatta urgente, ed è nel cuore dei singoli e dei popoli.