“Io sono, più di ogni altra cosa, quel che non sono riuscito a compiere. La più vera delle vite che indosso, come un fascio di serpenti annodato a un’estremità, è la vita non vissuta. Sono un uomo che su questa terra ha vissuto immensamente. E che nella stessa misura non ha vissuto”.
Così dice Varujan Vosganian all’inizio del Libro dei sussurri, il bellissimo romanzo del popolo armeno, che ne racconta le storie familiari e la vita nella Romania e negli spazi travagliati dell’est europeo, e la memoria del genocidio nelle generazioni nate decenni dopo quei fatti.
Come nella Russia amata che vive nella scrittura di Vladimir Nabokov, “persone e oggetti al tempo stesso estranei e familiari si affacciano in primo piano, irradiati da quella claritas che dai tempi di Tommaso d’Aquino è ritenuta lo stigma di una vera epifania” (W.G. Sebald).
Nella vertigine di questa apparizione la nostalgia – come avviene per la scrittura ancora secondo Sebald – “viene portata in alto dalla speranza che, grazie a una sufficiente concentrazione, si possano cogliere ancora una volta con sguardo sinottico i paesaggi del tempo già sprofondati dietro l’orizzonte”.
Il nostro tempo è segnato dalla memoria per quanto è radicalmente perduto, definitivamente e senza traccia scomparso dalla terra; dalla memoria di quanto ci precede, ormai così lontano perché non vissuto da noi, e tuttavia presente: la si è definita post-memory (Marianne Hirsch), quasi una memoria post-traumatica incisa nelle generazioni che non hanno vissuto direttamente gli eventi, ma la cui anima ne è deviata come dall’orbita di un pianeta oscuro. Forse è in relazione a questa forma della memoria che si declina la nostalgia radicale del nostro tempo; la nostalgia di chi sa di avere “vissuto immensamente” e al tempo stesso di non avere vissuto, di avere accanto, quasi più in un altro luogo che in un altro tempo, un futuro/passato deviato e irraggiungibile perché posto fuori dai cardini della storia; ma chi ancora può dire di un senso dato nella storia?
Nella sua “romance” Memoria della memoria, forse il più grande romanzo-saggio degli ultimi decenni, la scrittrice russa Marija Stepanova dice a un certo punto, commentando alcune immagini dell’Europa sul finire degli anni ’30 che ritornano in un film di montaggio: “il passato viene affrancato dal legame di sudditanza con il presente, con noi. Può camminare da solo”.
È forse, questa, una nostalgia generosa di sé, che per offrire ancora uno spazio a un passato perduto si ritira e raccoglie come il dio della mistica ebraica, e nello spazio vuoto creato da tale dolorosa contrazione lascia che abbia vita quanto è prossimo nella sua scomparsa.
C’è nella nostalgia una intesa segreta fra la consapevolezza della perdita irrecuperabile di quanto ci è più prossimo e quanto, non vissuto, è rimasto per sempre senza nome. Da quella chiara coscienza della perdita il senza nome acquista un volto, e da questo non vissuto lo sguardo della consapevolezza riapprende il desiderare.
La nostalgia per quanto non è mai stato segna con profondità le nostre anime, perché tale “mai stato” è quanto di più prossimo esista, perché esso è adiacente a noi, e la voce che potrebbe offrirci è proprio quella che si adatta al nostro orecchio e alla nostra bocca; come la mano di Orfeo rivolta indietro verso Euridice, e lo sguardo di Euridice rivolto innanzi verso Orfeo.
Adiacente a noi, ci chiama fuori, altrove, sicché la nostra stessa identità corporea, il nostro stesso abitare gli spazi della nostra vita, diventano immagine di quella esistenza plurale e metamorfica, in cui la conflittualità e la crisi designano la cesura profonda che ci attraversa come esseri umani costituendo al tempo stesso la nostra peculiare risorsa.
In questo modo, forse, si incontrano la nostalgia e il farsi altro della nostra stessa identità; il loro reciproco e comune farsi accoglienti, silenziose e sonore come la parola stessa nella lingua poetica –
Poi arriviamo alla casa,
e ci bagniamo nella polvere del vialetto di ghiaia
come fanno i passeri
(Inger Christensen).