Un rapporto illusorio e molto pericoloso

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Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

Con il tramonto delle ideologie e il predominio dei cosiddetti leader, il simbolo finisce per confondersi con il corpo del capo e viceversa

Scrive Matteo: «Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto purpureo e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: “Salve, re dei Giudei!”».

Si tratta, probabilmente, del più conosciuto tra gli esempi della doppiezza dei concetti di “potere” e di “simbolo” e di come, se uniti in una specie di sistema binario, questi due termini possano diventare pericolosissimi nell’eterno tentativo di circonvenzione di popoli interi. Una corona, simbolo dell’investitura da parte della divinità, uno scettro, emblema della superiorità giuridica nei confronti dei sudditi, e un manto colorato con un pigmento riservato soltanto ai più ricchi, diventano istantaneamente l’esatto contrario di quello che di solito sono considerati. Mantengono soltanto un’unica prerogativa: quella della crudeltà. Ma normalmente è rivolta verso gli altri; in questo caso contro chi questi simboli li porta. 

Per comprendere bene la loro pericolosità conviene esaminare dapprima separatamente i due termini. 

Il potere è appetito da molti per sé, e temuto negli altri; ma tutti sanno che è una delle cause primarie dei mali dell’umanità, tanto che Socrate diceva che «È dai potenti che vengono gli uomini più malvagi», mentre più recentemente Guccini, nel suo splendido “Don Chisciotte”, è stato ancora più lapidario: «Il potere è l’immondizia della storia degli umani».

Molto più scivoloso, e quindi pericoloso, è il concetto di “simbolo” che può apparire utile, se non necessario, ma spesso si rivela come un’autentica maledizione. La sua nascita affonda nella notte dei tempi in quanto si è immediatamente compreso che poteva servire magnificamente per identificare qualcuno, o per far capire in un colpo solo un concetto, soprattutto di sovranità. I primi vessilloidi, precursori di tutte le bandiere, potevano essere costituiti da bastoni che reggevano semplici pezzi di stoffa imbevuti col sangue di un nemico sconfitto, o vesti e armi di quello stesso nemico, o, ancora, il cranio di un animale totemico.

L’unico problema sembrava essere costituito dal fatto che inizialmente il simbolo, prima di essere compreso, esigeva, come anche oggi, una spiegazione. Prendiamo un esempio contemporaneo: quello della falce e martello che tutti sappiamo aver voluto rappresentare il potere della classe proletaria rappresentata da contadini e operai. Ma se qualche cittadino non aveva mai visto prima una falce, occorreva spiegare cosa rappresentasse quel semplice disegno a mezzaluna con manico annesso. Poi tutto diventava automatico.

Però quasi subito si capiva che i problemi erano anche molti altri. Un simbolo, infatti è come una specie di pezzo di vetro, non del tutto trasparente, né incolore e neppure perfettamente liscio; anzi, di certo più o meno deformante. E così, mentre dà all’osservatore l’illusione di guardare attraverso, in realtà permette di vedere soltanto ciò che al titolare del simbolo può essere utile. In tal modo si creano verità parziali e, quindi, bugie alle quali, però, istintivamente si è portati a credere, pur nell’evidenza che mai può corrispondere al vero la promessa di far comprendere con semplicità alcune realtà estremamente complesse.

Comunque noi siamo esseri simbolici, sempre determinati a guardare attraverso, a vedere oltre, e, anche se il simbolo ci fa capire che, al di là delle cose tangibili, sperimentali e razionali, mai potremmo conoscere nulla perfettamente, contemporaneamente approfitta del fatto che non c’è una separazione impermeabile tra le cose tangibili e quelle immaginabili. E così i simboli possono indurre a identificarsi fortemente con la loro idealizzazione, diventando un ottimo sistema di indottrinamento e di fidelizzazione. Anche fanatica. Oppure, al contrario, di disprezzo e odio totale.

E così siamo passati dal pensare ai simboli del potere al ragionare sul potere dei simboli. Perché il simbolo che ci interessa non è un’indicazione di percorso, di proibizione, o di obbligo; e neppure un sistema identificativo come un logo, o una sigla, e neanche una convenzione come quella che permette di scrivere formule matematiche e fisiche comprensibili univocamente e universalmente. Quello che ha maggiore influenza sulla storia degli umani è una specie di sistema di dialogo illusorio e a più strati nel quale spesso occorre essere abili per non restare vittime di circonvenzione. La realtà che pensiamo di avere davanti, infatti, è in parte occultata da una specie di velo che contemporaneamente scopre e nasconde, ma soprattutto tende a sedurre dando all’osservatore l’impressione di entrare in un mondo reale mentre, invece, sta soltanto accomodandosi in quella che è la sua realtà sognata, o almeno desiderata: immateriale, quindi, ma apparentemente solida e razionale.

L’ipotetico dialogo tra osservatore e simbolo continua così sulla base di reciproche influenze con l’importante discriminante, però, che mentre la realtà dell’osservatore continua a cambiare fino a stravolgere la sostanza iniziale, quella del simbolo rimane inalterata nella sostanza e nella forma, mentre muta soltanto nell’apparenza che viene creata non dal simbolo, ma dall’osservatore. Il simbolo diventa, insomma, una specie di motore immobile, ma fortemente ermeneutico perché impone, più che sollecitare, delle interpretazioni. E, visto che le interpretazioni riguardano per la maggior parte elementi che siamo stati noi a inserire nel simbolo, quasi sempre sono accondiscendenti, se non benevole. 

Insomma, il disegno simbolico non è una rappresentazione parziale e neppure la soluzione per passare dal relativo all’assoluto. È, invece, uno stimolo premeditato per indurre a un viaggio mentale la cui meta quasi mai ha un rapporto reale con la base materiale dalla quale si è partiti.

Se pensiamo all’interazione tra simboli e potere non si può trascurare l’ambito in cui, al di là di quello religioso, questi due concetti maggiormente interagiscono: quello della politica in cui, soprattutto oggi, con il tramonto delle ideologie e il predominio dei cosiddetti leader, il simbolo finisce per confondersi con il corpo del capo e viceversa. E così molte distinzioni svaniscono per poter giustificare azioni e realtà che una volta mai sarebbero state giustificabili e che ora lo diventano perché dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo, l’arbitrio del leader diventa l’onnipotenza del popolo, e si collega con il disprezzo di ogni altra realtà.

Questa idea del simbolo, però, è la sua corruzione estrema perché si traduce nell’esaltazione del potere personificato, l’esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici e, quindi, sperabilmente democratici: cioè di essere fattori di dialogo, se non di unificazione, e di essere impersonali e nemici d’ogni demagogia. Ed è anche un rischio mortale per la società: la scomparsa o la sconfitta del capo, infatti, finisce per equivalere alla dissoluzione del suo seguito e, in definitiva, di una parte del corpo sociale, con evidenti rischi di instabilità e disordini.

E, sempre osservando la politica in cui anche gli atteggiamenti sono simboli, ci si rende conto che la duplicità del simbolo non ci abbandona mai. Provate a ricordare quando agli elettori era permesso di esprimere le preferenze e, comunque, nella quasi totalità dei casi risultavano eletti coloro che il partito designava già in partenza. Poi la cancellazione delle preferenze e le liste preordinate sono state viste come una dimostrazione di potere da parte dei segretari, mentre, invece, è stata la confessione della propria debolezza, dell’incapacità di indirizzare davvero il corpo elettorale.

Anche per questo, forse, non pochi potenti preferiscono non ostentare sé stessi, ponendosi non dietro a un vetro deformante, ma addirittura a un divisore opaco.

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