Ogni mattino curavo la pelle mia,
stavo attenta ad ogni dettaglio,
mi assicuravo che la crema che spalmavo sul viso fosse abbastanza profumata,
che mi garantisse una scorza priva di imperfezioni e mi illuminasse.
Mi lavavo, mi truccavo,
tracciavo una lunga linea precisa di eyeliner nero carbone e poi andavo a scuola.
Ho sempre pensato che fosse un ambiente buffo, pieno di chiacchiericci, a volte monotono ed altre salvavita.
Un lunedì un ragazzo piange con la testa poggiata sul quaderno di latino,
al martedì tre ragazze litigano per chi ha la gonna a quadri più bella,
non rendendosi conto che l’unica cosa che cambia è la marca.
Al mercoledì invece un professore urla:
“La scuola non è una democrazia” ed io balzo in piedi
intervengo,
come se le mie parole potessero tutte d’un tratto sconvolgere quell’ambiente strambo.
Sostengo che tutti possono dire la loro,
che le parole su cui camminiamo ogni giorno sono importanti da ascoltare,
per poi fare pulizia nel nostro cervello e capire su cosa siamo d’accordo e non.
Giovedì ho le labbra serrate, la porta della parola è chiusa a chiave e non si apre neanche a calci,
il professore ha quindi la meglio,
sghignazza ed è felice di avermela rubata,
nascosta nel cassetto della sua cattedra, del suo trono, oserei dire.
Venerdì somiglia al giorno precedente e i miei compagni non evitano di farmelo notare durante la pausa,
mi poggiano le loro mani sporche di patatine in faccia,
li vedo ridere
e vedo me cadere sempre più in basso,
parlano, urlano tanto da muovermi le ciglia, ma io non sento nulla.
Mi sveglio come solito, ho mal di testa, ma penso che sia normale dopo la nottataccia passata,
piena di incubi e paure,
salto i vari passaggi mattutini e corro a scuola.
Mi ritrovo su di un tavolo, in piedi ed immobilizzata, scrutata da tutti.
Legata e stretta al pavimento, compresa solo dalla poca natura che ci rimane,
lacrime iniziano a cadere e percorrere tutta quella situazione bizzarra.
Perché stanno guardando me?
Noto che i loro sguardi si poggiano molto sulla mia fronte dove oggi abita il mal di testa.
Che cos’ho che non va?
Poi le inizio a sentire, le parole,
si appiccicano sulla mia pelle cerea, io mi dimeno ma loro non se ne vanno,
inizio a comprenderle a pieno
e mi ritrovo legata, imbavagliata ad un tronco che strilla con me.
Sospesa in aria sorretta da una corda stretta dal professore che aveva avuto la meglio,
lui discute e ad ogni parola, un liquido verdastro mi arriva addosso.
Si diverte a gingillare,
far finta che io sia un burattino,
se non fosse che sono legata ad un pezzo di tronco, sospesa nel vuoto ed estremamente triste.
“Cosa pensavi di fare? Le tue parole non le vuol ascoltare nessuno, non interessano e poi, ti sei vista?”
Ad un tratto con un altro pezzo di corda cala uno specchio e finalmente capisco;
comprendo quel mal di testa che mi aveva portato a non avere più i piedi a terra,
capisco perché non fissassero i miei occhi, il mio corpo, le mie labbra, i miei capelli bensì la fronte,
quel pezzo di strada di vita, dove abita il cervello,
quel pezzo di carne,
che per qualcuno è più alto e per altri più basso,
dove alloggiano le rughe della sofferenza, dello spavento, della rabbia e della felicità.
Rughe che non sono intralciate da nulla, non vi sono labbra, non c’è naso, non c’è nulla.
La scoperta delle ferite passate, il cammino lungo l’emozione.
Un foglietto, con disegnato sopra un simbolo;
il simbolo del labirinto delle parole pregiudicanti.
Tutto il giudizio lo tenevo in fronte, gli insulti, le mie situazioni imbarazzanti
Le mie paure, oramai ogni individuo curioso ne era a conoscenza,
bastava guardare quell’unica ruga che mi percorreva il viso,
tra le sopracciglia,
ostinata e triste
e avresti assaggiato il succo del cuor mio.
Appesa a quel povero albero abbattuto, agganciato ad una corda tenuta da un professore presuntuoso
che quel liquido verde era veleno e la mia fronte sarebbe diventata acquedotto.
Attorno a me altri tronchi con persone legate,
tutti sorretti da una corda malmessa.
La fune tenuta in mano da persone, case, animali, pacchetti di sigarette, bottiglie di alcol…
In fronte disegnato un simbolo differente,
quello che ci accompagna nel percorso della nostra vita.
Alla fine volevano solo farci stare zitti,
quel buio attorno a noi avrebbe dovuto farci dimenticare,
le potenze che sorreggono i nostri corpi cercano di avere il controllo.
Di libertà oramai ce n’è poca, proviamo almeno a farla vivere dentro di noi,
spolverare un po’ il cuor nostro e permettere che sia abitabile, accogliente.
Di libertà ora ce n’è sempre meno,
mi conforta però pensare che dentro di noi possiamo avere un ambiente caldo,
un posto sicuro,
una felicità discontinua perché a volte serve anche il liquido verdastro.
Innaffiamo il nostro prato interiore,
cerchiamo di prendere posizione solo quando ce n’è bisogno,
che migliore di noi non c’è nessuno, siamo tutti sullo stesso livello.
Se però io avessi tre scatole da mettermi sotto i piedi per arrivare al mio frutto preferito
e tu ne avessi solo una
ma io, sicché più alta quindi avvantaggiata,
vieni qui, che ti presto le mie scatole.
La bontà, che oggigiorno la incontri per strada sempre meno,
la sete insaziabile del potere.
Apri il cuor tuo con attenzione al mondo, non vivere di piedistalli
e slegatemi, slegatemi da questo tronco
tanto la parola non me la toglie nessuno,
inzuppo per bene le dita mie nell’inchiostro e le lascio scrivere.
Dormo cullata da parole che prima o poi condividerò con questo mondo meraviglioso,
abitato da invidia.
-Biancaneve