Chi legge i suoi libri non può non apprezzare il linguaggio radicale relativamente all’analisi del contesto nel quale viviamo, con conseguenze immediate per ciascuno di noi, soprattutto nella prospettiva che la fase ultima del capitalismo ha generato: ossia una società automatica e un controllo diffuso sulla vita individuale e collettiva. In particolare nel suo La miseria simbolica, 1. L’epoca iperindustriale, pubblicato da Meltemi nel 2021, lei sviluppa tesi fortemente impegnative al riguardo.
La nostra epoca si caratterizza come presa di controllo da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica. Ne risulta una miseria in cui il condizionamento si sostituisce all’esperienza.
Mi sembra sia in gioco la singolarità e quindi la pluralità dei soggetti. La miseria simbolica riduce il soggetto a una identificazione in immagini di consumo, standardizzate, codificate altrove, che porta a un’identità seriale.
Per miseria del simbolico intendo la perdita di individualizzazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione di simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi). E ritengo che lo stato presente di perdita di individuazione generalizzato non possa che condurre a un crollo del simbolico, vale a dire a un affondamento del desiderio, ovvero alla distruzione del sociale propriamente detto: alla guerra totale.
Ma chi è maggiormente esposto a tale processo?
Non bisogna pensare che i nuovi miserabili siano barbari abominevoli. Essi sono il cuore stesso della società dei consumatori. Essi sono la “civiltà”. Ma in modo che, paradossalmente, il suo cuore è diventato un ghetto. Ora questo ghetto è umiliato, offeso da questo divenire. E noi, reputati colti, sapienti, artisti, filosofi, lucidi, informati, dovremmo renderci conto che la maggior parte della società vive in questa miseria del simbolico fatta di umiliazione e di offesa. Tali sono le devastazione prodotte dalla guerra estetica, divenuta il regno egemonico del mercato. L’immensa maggioranza della società vive in zone esteticamente disastrate, dove non è possibile vivere e amarsi perché vi si è esteticamente alienati.
Lei afferma che la questione politica in questo tempo è una questione estetica, e viceversa. Estetica intesa come capacità di sentire; una politica capace di sviluppare una “sensibilità del noi”…
Sostengo che la questione estetica vada posta nuovamente e in rapporto alla questione politica, per invitare il mondo dell’arte a riprendere una comprensione politica del proprio ruolo. L’abbandono del pensiero politico, da parte del mondo dell’arte, è una catastrofe. Così come l’abbandono della questione estetica, da parte della sfera politica, alle industrie culturali e alla sfera del mercato in generale, è anch’esso catastrofico. La questione della politica è essenzialmente la questione dell’altro in vista di un sentire insieme, una sim-patia in questo senso. Il problema del politico è sapere come stare insieme, vivere insieme, accettarsi come un insieme attraverso e a partire dalle nostre singolarità e oltre i nostri conflitti d’interesse.
Ha un’idea alta di cosa dovrebbe essere oggi, in un mondo simbolicamente impoverito, la politica….
La politica è l’arte di garantire una unità della città nel suo desiderio di avvenire comune, la sua in-dividuazione, la sua singolarità come divenire-uno. Ora, un tale desiderio presuppone un fondo estetico comune. L’essere insieme è quello di essere un insieme sensibile. Una comunità politica è dunque la comunità di un sentire. Se non si è capaci di amare insieme le cose (paesaggi, città, oggetti, opere, lingue, ecc.) non ci si può amare. Questo è il senso della philia in Aristotele. Amarsi è amare insieme cose diverse da sé.