Che il potere, da qualunque ottica lo si prenda in considerazione e con qualunque occhio lo si guardi, abbia bisogno di simboli evidenti ed efficaci per manifestarsi e per concretizzarsi, è qualcosa di assodato.
Che, ugualmente, chi è chiamato ad esercitare un determinato grado di potere in uno o più ambiti specifici, necessiti comunque di una nomenclatura specifica e di un apparato di visibilità e di coinvolgimento, è un altro punto fermo.
Che, infine, l’utilizzo dei vari simboli atti a definire un’ideologia ed una struttura del potere risenta a pieno titolo dell’epoca e del contesto specifico in cui lo stesso viene in qualche modo concepito ed attuato è un’altra verità di fondo, da cui non è possibile prescindere, se davvero vogliamo tratteggiare una riflessione organica e completa in tal senso.
Risulta quindi importante tentare di comprendere – e nel modo migliore – quale tipo di rapporto articolato e complesso leghi reciprocamente l’intuizione, la genesi del potere – politico o religioso che sia – e l’espressione dello stesso attraverso l’organizzazione di un sistema di simboli e di svariate modalità comunicative, figurative o verbali che siano.
Non risulterebbe dunque arduo comprendere come – e perché – il mondo classico, con particolare riferimento all’esperienza di Roma antica – che di simboli riconducibili a diverse, possibili modalità di costruzione e di comunicazione del potere ha saputo creare importanti ed incisivi repertori – si presenti, in realtà, come un ambito assai interessante e degno di approfondimento da questo punto di vista, anche perché assai ricco di stimoli, di sollecitazioni, d’interessi e di scelte formali esplicitamente orientate in tal senso.
Iniziato già nel contesto della Roma delle origini, così come ricordano le testimonianze – più strettamente storiche ma anche leggendarie – che descrivono accuratamente dettagli di carattere simbolico ed allegorico legati alla manifestazione della divinità in tutte le sue forme, ecco che il culto e l’impiego dei simboli del potere, espressi soprattutto in ambito religioso, assumono un’importanza assolutamente inedita, soprattutto all’interno dell’innovativo disegno politico-istituzionale denominato Principato augusteo.
Non dimentichiamo, infatti, che una delle caratteristiche più evidenti, ovvero uno dei tratti ai quali Ottaviano stesso aveva dimostrato di tenere in maniera assai evidente e duratura, riguardava proprio l’imago ed il profilo di un optimus princeps, ideatore e promotore di pace, da lui chiamata appunto Pax Augusta e tanto strenuamente agognata e sognata dai cives Romani, fiaccati e straziati da un’interminabile serie di guerre civili.
L’ansia di pace che aveva connotato la fase più dolorosa delle guerre civili, destinata a raggiungere il culmine nella tragica vicenda delle idi di marzo del 44 a.C., ovvero quando i pugnali dei congiurati avevano posto fine all’esperienza terrena di Caio Giulio Cesare, finisce dunque per trovare in Ottaviano e nel suo ardito programma di riforme non soltanto un’icona di riferimento, ma anche un vero e proprio motore propulsore.
Grazie a lui, infatti, ma soprattutto per via della sua modalità lungimirante e previdente di considerare la politica e di applicarne i più importanti e significativi meccanismi, il princeps, il primus inter pares, non può non tenere nel debito conto l’importanza assunta, all’interno del suo specifico disegno politico, dell’immagine del potere che il restauratore della res publica romana era chiamato a trasmettere, ovviamente dopo averla incarnata.
Il tutto, ed è qualcosa che può essere utile rammentare, avviene comunque all’interno di un contesto istituzionale che puntava del tutto consapevolmente a far coincidere la sacralità del potere politico con la solennità del potere religioso, onde realizzare una sintesi quasi perfetta tra due sfere istituzionali così importanti e così influenti.
Si assiste pertanto, all’interno del mondo antico, ed in particolare di quello romano, ad un imponente spiegamento di simboli, in virtù dei quali il potere politico si manifesta in tutta la sua solennità ed il potere religioso concorre in maniera evidente ed intenzionale a legittimarne la manifestazione e a connotarne i linguaggi di riferimento.
Particolarmente incisivi si rivelavano, inoltre, e soprattutto nell’età classica della civiltà romana, i simboli legati al culto politeistico antropomorfico che permeava di sé, e a volte con una presenza financo ingombrante, molti aspetti della civiltà dell’Urbe, tanto da rendere inevitabile non soltanto lo sconfinamento del potere politico nel trascendente, ma anche da rendere quest’ultimo, in un certo senso, istituzionale.
Era quanto aveva compreso a fondo, per esempio, Ottaviano Augusto nell’attribuirsi sua sponte la carica di Pontifex Maximus, che la più genuina tradizione repubblicana aveva invece tenuto gelosamente separata e distinta da figure con chiari connotati politici, onde tutelare quella che oggi, verrebbe forse denominata, con linguaggio tecnico, la “separazione delle carriere”.
In altre parole, Ottaviano fu il primo a realizzare pressoché in pienezza quanto ogni uomo politico di un certo spessore e di un certo intuito è solito afferrare e mettere in pratica, ovvero che la sfera religiosa è – e rimane – un ambito di valido supporto e coronamento all’azione del governare.
A chi ha in mano le leve della società, e soprattutto a chi, come Ottaviano, si proponeva di riformare e di riorganizzare radicitus la società romana, da troppo tempo straziata per via di guerre civili e lotte intestine, le manifestazioni religiose, ivi compreso un impiego saggio ed equilibrato dei simboli, si rivelavano dense di significato e in particolar modo colme di spunti e di allusioni utili a legittimare e a corroborare alcune scelte di carattere politico-istituzionale, davanti alle quali l’optimus princeps non aveva mai fatto mistero di volersi presentare come trionfatore.
Quella che potremmo coerentemente definire come un’autocrazia consapevole, insomma, davanti alla quale tanto gli optimates che i populares non potevano, anche se in buona parte indotti a farlo, inchinarsi, approvando e legittimando, tanto de iure che de facto, le scelte attuate dal restauratore della pax Romana, il quale si era nel frattempo presentato con l’intuizione, completamente nuova, di un principato fondato sull’ambigua e sfuggente formula del primus inter pares, ovvero un democratico tiranno, di cui era senza dubbio meglio essere amici che nemici.
Contraddizioni latenti molto visibili e di assai difficile soluzione, per esempio, il problema della successione (e l’avvento al trono di personaggi palesemente inetti a governare quali, per esempio, Tiberio e Nerone costituisco la prova più evidente in tal senso), costituivano, in realtà, un problema che minerà a fondo la sicurezza del neonato impero, esponendolo così a ricatti, congiure e giochi di palazzo, davanti ai quali il civis Romanus andrà via via perdendo sempre più la fiducia nelle istituzioni, giungendo a preferire uno sdegnoso isolamento ad una partecipazione striminzita e deludente alla vita della cosa pubblica.
In tempi assai più recenti, in tempi appunto più vicini a noi, come non citare, inoltre, le lotte, più o meno evidenti e legittime, per appropriarsi, in un contesto in apparenza democratico, del voto e del consenso dei cattolici?
Particolarmente avidi, per così dire, di questo tipo di appannaggio si sono poco decorosamente rivelati i partiti tradizionalmente avversi alla Chiesa istituzionale e quelli che avevano sempre fondato la loro ragione di esistere in una lotta senza quartiere alla civiltà e al pensiero cattolico.
Un’infinita, in realtà poco lusinghiera, schiera di cosiddetti “laici devoti” si è dunque silenziosamente allineata lungo il Colonnato di Piazza San Pietro, o magari sulle piazze delle più importanti cattedrali d’Italia, per rivendicare uno spazio ed una visibilità tutt’altro che fondati su di una vera e propria coscienza religiosa, ma in realtà soltanto bramando e rivendicando uno spazio – politico ed istituzionale – venutosi a creare, a mo’ di voragine improvvisa, tra le rovine dovute alla cancellazione del partito dei cattolici, del partito di maggioranza relativa che dai tempi di Degasperi e fino ad inizio anni ’90 aveva costituito la classe dirigente italiana.
Ecco perché, tanto negli ultimi decenni del XX secolo, così come nei primi del XXI secolo, i simboli del potere politico e quelli del potere religioso sono tornati più che mai in auge, così come il poterli, o anche il solo volerli, rivendicare, ha costituito e costituisce l’ingrediente essenziale di una lotta ideologica utile e funzionale a procacciarsi il consenso e, quindi, ad arrivare al governo del Paese.
Quanto, poi, di reali frammenti di vita cristiana ci possa essere in tutto ciò è – e rimane – una chimera, ed è preoccupante vedere come, in più di un caso, alcune gerarchie ecclesiastiche giungano a manifestare un sollecito, evidente ed anche fragoroso sostegno ad uno dei due schieramenti in gioco, minando così alle radici la credibilità e l’attendibilità delle più alte cariche ecclesiastiche.
Resta soltanto da augurarsi, per l’appunto, che si tratti di una fase temporanea, passeggera, che non risulti appunto la normalità e che costituisca, semmai, una reale e concreta occasione per intenderci, tutti quanti e a fondo, sul senso e sul valore di una commixtio troppo lunga e troppo radicale tra due ambiti, il politico ed il religioso appunto, che dovrebbero invece restare nettamente distinti e separati, almeno quanto ad ottenimento e a conservazione del potere, e che possano, anzi debbano semmai convergere su degli obiettivi di carattere primario ma soltanto in seguito, ovvero nel faticoso ed impegnativo processo di attuazione del bene comune e nell’importantissima opera di costruzione di una società migliore, e migliore da ogni punto di vista.
Riusciremo mai a godere di questa lungimirante e quasi messianica prospettiva? L’aspettiamo da tempo. Anzi, tutti l’attendiamo ansiosamente da molto, da troppo tempo.