“Forse fermarsi, alla maggior parte di noi, fa paura: non è tanto piacevole guardarsi avendo solo noi stessi come specchio in cui riflettersi”
Qualche anno fa, prima degli anni pandemici, ho cominciato a immaginare che le mie parole, alcune delle mie parole, potessero prendere una forma e respirare diversamente se cantate. Cantate da una voce non mia, o solo mia, ma una voce corale, composita, metamorfica e legata ai luoghi in cui sarebbe stata emessa, alla loro topografia, alle memorie che mi capitava di incontrare, alla luce e all’aria dei giorni in cui questo avveniva. Per farlo ho lavorato con persone colme di generosità e visionarie anche più di me (www.passochiamapasso.com).
Quante parole stanno nella mano
mano che stringe fino a soffocare
I canti venivano eseguiti parte in movimento e parte fermandosi, per prendere fiato.
La prima volta su un sentiero di pietre bianche di un antico fondo marino privo d’alberi. Camminando come in una processione dove le soste aprivano lo spazio attorno perché la voce scorresse potente, seguendo le correnti dell’aria. Pensai a una preghiera, o meglio a una liturgia laica dove l’alternare il movimento alla sosta trasformasse le trenta donne cantanti in officianti di un rito, creando una fragile bolla di senso. Le chiome degli ulivi frenarono le voci che scendevano a valle mentre proteggevano i belati delle greggi.
Quante parole muoiono tra le labbra
labbra che baciano fino a imbiancare
Quando siamo stati obbligati a fermarci, ci ripetevamo quasi come un mantra, che questo ci avrebbe insegnato qualcosa d’importante: quanto rallentare e modificare i nostri comportamenti sarebbe stato efficace per migliorare la qualità del nostro stare al mondo e renderci meno invasivi e nocivi; ricordandoci di stare in quello che accade ma pensando alla qualità di un dopo che dipende dai nostri comportamenti individuali e collettivi.
Eppure, sotto sotto lo sapevamo che non sarebbe stato così. Che avremmo accelerato.
Forse fermarsi, alla maggior parte di noi, fa paura: non è tanto piacevole guardarsi avendo solo noi stessi come specchio in cui riflettersi.
Fermarsi può rappresentare la possibilità di uscire da una percezione del tempo che è indotto, che ci rende più vulnerabili e manipolabili. Può dare la possibilità di sentirsi parte di un tempo più ampio, che lega ogni vivente all’altro e alla terra che abita.
Invece si riprende a correre, collettivamente e individualmente, verso un puntolucefalena: sappiamo che lì succederà qualcosa di nefasto, ma ci andiamo comunque.
L’acqua di scioglimento sgorga a fiotti dai ghiacciai che ritirano le loro zampe, abbandonano i loro artigli, svuotano le loro pance.
Quante parole scorrono tra i denti
denti che mordono fino a straziare
Quando si cammina su un sentiero i punti in cui ci si ferma, stanchezza a parte, sono di solito luoghi da cui stare a guardare, dei punti d’osservazione privilegiati del paesaggio che si attraversa. Siano questi punti panoramici dove lo sguardo spazia o micropaesaggi di licheni e muschi sulla superficie di una roccia, poco importa. Occorre fermarsi, stare lì e leggere ciò che vediamo sovrapponendovi ciò che siamo, sappiamo e vorremmo essere.
A volta cercare le parole per ripeterlo a sé e a chi magari ci vorrà ascoltare, fermandosi con noi.
Quante parole vorremmo ridire
dire pian piano un soffio a morire*
*Testo claudia Losi messo in musica da meike clarelli con davide fasulo (2019)
Claudia Losi, Dialogo Tondo, 2010. Foto Carlo Borlenghi.