L’ultima lezione di Federico Caffè: la solitudine del riformista e l’estetica dell’uscita

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

“Una voce suona tanto più stonata quanto più è limpida”

Iosif Aleksandrovič Brodskij

Federico Caffè è stato uno tra i più autorevoli economisti italiani del ‘900, esponente di vertice della scuola keynesiana in Italia; oltre ad insegnare politica economica  all’Università La Sapienza di Roma, fu un illustre collaboratore della Banca d’Italia e opinionista di rango del quotidiano Il Manifesto. Proprio sulla testata giornalistica di via Tomacelli, nel gennaio del 1982 apparve un suo articolo dal titolo – ispirato dalla redazione – “La solitudine del riformista”. Era il periodo dell’ascesa del craxismo e la parola “riformista” incominciava a inondare il lessico sempre più triste dei partiti, rivelandosi nel tempo e fino ai giorni nostri il termine più inflazionato, in particolare a sinistra, della politica italiana. Commenterà la questione, a posteriori, lo scrittore Ermanno Rea nell’appendice alla seconda edizione – uscita a sedici anni dalla prima – del libro “L’ultima lezione”, da lui dedicato a Federico Caffè dopo la sua misteriosa scomparsa: “a lungo dileggiata, poi vergognosamente abusata (fino a svuotarla di ogni contenuto rispettabile), oggi la parola riformismo viaggia di bocca in bocca come puro flatus vocis, senza mettere in evidenza più niente e nessuno: siamo tutti riformisti, così come abbiamo tutti un naso una bocca e dieci dita distribuite su due mani” (E. Rea, L’ultima lezione, La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato, Einaudi, 1992, 2008). Ancora più radicale fu il giudizio dell’economista Paolo Leon, che a proposito del “riformismo”,  riprendendo anni dopo i concetti espressi nell’articolo da Caffè, svolse le seguenti considerazioni: “come spesso accade, il nome copre qualcosa che non si è in grado di esprimere, o che si teme di esprimere, o che può mutare a seconda delle circostanze. Si tratta quasi sempre, di una fuga dalla responsabilità di dichiarare effettivamente cosa si vuol fare” (P. Leon, Il riformismo: diffidare dalle imitazioni, Formiche, 2.6.2013). 

Pensiero critico e pensiero unico

Sono trascorsi quarant’anni da allora, ma quel pezzo di Federico Caffè sul Il Manifesto è di un’attualità sorprendente, in un tempo che culturalmente e politicamente tende a ridurre la complessità delle cose e fa volentieri a meno del pensiero critico, in ossequio al dominante pensiero unico. Per Caffè, il riformista non può che sentirsi un incompreso, sia da parte dei rappresentanti del “retoricume neoliberista”, sia da parte dei rivoluzionari “antisistema”. C’è pure chi, il riformista, vorrebbe trasformarlo in una sorta di pappagallo di regime, di voce del padrone: “egli è tuttavia troppo abituato alla incomprensione, quali ne siano le matrici, per poter rinunciare a quella che è la sua vocazione intellettuale” (F. Caffè, La solitudine del riformista, Il Manifesto, 29.1.1982). La solitudine è il marchio doc del riformista. E’ quella condizione intellettuale e, qualche volta, dolorosamente, giocoforza, anche esistenziale, che tuttavia ne rigenera e riscatta la figura, ponendola sotto un’altra luce rispetto alla retorica corrente. Roberto Tesi, allievo di Caffè, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Galapagos, con il quale firmava gli articoli su Il Manifesto in quegli anni, nel ricordo del suo maestro, a vent’anni dalla scomparsa, volle precisare che tipo di riformista fosse Caffè, rispetto alle controfigure che all’epoca si spacciavano per essere tali: riformisti infatti “si autoproclamano i sostenitori della globalizzazione, delle privatizzazioni, della flessibilità del lavoro, dello stato sociale minimo”. Anche Caffè era riformista, argomenta Galapagos, “ma il suo riformismo era diverso: era passione di giustizia sociale; era convinto che l’intervento dello stato nell’economia fosse necessario perché il libero mercato non era in grado di garantire tutti gli individui. Nella solitudine del riformista, però, la critica non era rivolta solo alla destra liberista, ma anche alla sinistra estrema, quella che oggi definiamo antagonista. In quell’articolo c’era una critica anche a noi del Manifesto” (Galapagos, La compagnia del riformista, in F. Caffè, Scritti Quotidiani, Manifestolibri, 2007). 

Mario Tiberi, allievo e poi assistente universitario di Caffè connotò il suo riformismo come “intransigente, penetrante, radicale”, mentre Ermanno Rea lo aggettivò come “estremo”, giocato dall’economista abruzzese tra due fondamentalismi contrapposti: il Mercato e la Rivoluzione, “ciascuno convinto di essere il detentore esclusivo della verità, anzi del bene. Del bene separato dal male” (E. Rea, L’ultima lezione, op. cit.). Ecco la cifra intellettuale, onesta e propositiva, anti-ideologica e creativa, del riformista: accettare il conflitto di idee, imboccare strade alternative e pragmatiche ancora inesplorate, riconoscere l’ambiguità che abita in ciascuno di noi e il relativismo del pensiero scientifico. “Tra Mercato e Rivoluzione – scrive Rea – Caffè propone una terza strada: la dialettica di un conflitto permanente e incruento, ma non per questo meno aspro. Un conflitto che ha come posta, appunto, l’uomo. Il suo benessere e le sue speranze”. In un suo articolo apparso sulla rivista Micromega, Caffè pur sottolineando la necessità di una maggiore efficienza dello Stato sociale, metteva in guardia da un approccio ragionieristico alla questione e dal superamento della tutela pubblica del benessere sociale, chiosando amaramente: “al posto degli uomini abbiamo sostituito numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili” (F. Caffè, Umanesimo del Welfare, Micromega  1, 1986). “Accanto a lui – racconta Mario Tiberi – vivevamo in uno stato di costante tensione culturale. Usava ammonirci con una sorta di interrogativo retorico, modellato su un convincimento di Alfred Marshall, che suonava pressappoco così: e se l’interesse per lo studio dell’economia consistesse nella speranza che la povertà e l’ignoranza possano essere gradualmente eliminate?” (E. Rea, L’ultima lezione…op.cit.).

L’economia da scienza triste a scienza tragica

Purtroppo da scienza triste, negli anni l’economia, guidata da politiche neoliberiste, è diventata sempre più una scienza tragica, piegata agli interessi di pochi, favorendo così la crescita della disuguaglianza e dell’ingiustizia sociale, soprattutto per l’avanzare di forme sempre più ideologiche e aggressive di capitalismo, e per la svolta verticale e tecnocratica compiuta della politica in Occidente, specie in Europa, che giunge, come accade in Italia ormai da tempo, fino all’affidamento ai banchieri del governo del paese.  Anche questo scenario, il riformista Caffè aveva ampiamente previsto, quando affermava che “il vero pericolo del paese mi sembra quello dell’assuefazione a una situazione che quotidianamente viene definita di sfascio, da cui si possa uscire soltanto con soluzioni tecnocratiche, o con il ricorso a quelli che Jemolo chiamava i poteri vicari”. La critica di Caffè – metodologicamente gramsciana, degli “obiettivi discreti e raggiungibili” da conseguire – investiva innanzitutto la “sinistra”, alla quale rimproverava di essere “succube delle scelte compiute dalle forze dominanti, i cui proclami ideologici finivano per affondare una visione di politica economica coraggiosamente alternativa” (D. Archibugi, Federico Caffè solitario maestro, Micromega n°2, 1991). Il riformismo di Caffè, secondo Maurizio Franzini, altro suo allievo, “si caratterizza più che per l’attribuzione di un valore elevato all’eguaglianza, per la convinzione che sia possibile, correggendo il funzionamento del libero mercato, realizzare una società più efficiente perché più equa” (M. Franzini, Il “trade-off” tra efficienza ed equità. Gli argomenti critici di Federico Caffè, in A. Esposto, M. Tiberi (a cura di) Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico, Meridiana Libri 1995). 

A Caffè, malgrado lo spessore della sua cultura e il monumentale sapere economico, la realtà piaceva guardarla dalla strada, perciò sceglieva di muoversi in autobus, di vivere tra la gente comune, come fosse quello un punto di esplorazione privilegiato per capire la società e ripensare anche la politica economica. Questa era anche la ragione per cui amava tenere docenze ai corsi di formazione per dirigenti sindacali, come ricorda Fausto Tortora, che ad inizio anni 80’ era responsabile della formazione della Fim Cisl e invitava Caffè al Romitorio di Amelia: “le sue lezioni riscuotevano sempre un successo enorme per la limpidezza dell’esposizione e per l’assoluta e fascinosa proprietà di linguaggio. (…) Al ritorno in macchina mi diceva sempre che aveva imparato molte cose e che gli economisti avrebbero dovuto tutti misurarsi con le domande presenti tra gli operai e nel sindacato” (F. Tortora, Maestro e gentiluomo. Riparliamo di Federico Caffè, Lettera Fim n°1.1993). 

Aveva a cuore la giustizia sociale e la sorte dei più deboli: un terreno culturale e politico che condusse Caffè, intellettuale laico, ad  incontrare il cattolicesimo politico di Giuseppe Dossetti che lo coinvolse come collaboratore nella redazione di Cronache sociali. “Dossetti lo aveva scelto come suggeritore del gruppo su questi temi – ricorda Giuseppe Glisenti, allora direttore della rivista – era interessato alle sue posizioni di esperto molto sensibile ai problemi della gente comune, ai bisogni delle masse, ma vissuti non già nei termini del radicalismo comunista, ma in quelli di un maturo e ragionato riformismo di tipo anglosassone” (E. Rea, L’ultima lezione….op. cit.). Per Caffè l’utopia non era affatto un orizzonte astratto, bensì, “l’affermazione di una civiltà possibile contro le strettoie del presente”, ossia il tentativo di storicizzare un pensiero progressista volto a correggere gli squilibri sociali prodotti dal capitalismo e dal mercato, lasciati agire senza argini politici. Affermava perciò “il rifiuto di essere succubi” della cultura neoliberista (F. Caffè, Il rifiuto di essere succubi, Il Manifesto, Luglio 1980), mentre auspicava e lavorava alla nascita di una politica economica alternativa, “di sinistra”, una politica economica che non gioca di rimessa sugli errori altrui – diceva – ma capace di “una autonoma elaborazione, critica e progettuale” e accompagnata da un’opera di informazione “pacata e quasi didattica (che) non può proporsi come obiettivo quello di tranquillizzare l’opinione moderata che, per sua natura, riproporrebbe un continuo gioco al rialzo, alimentato da richieste di assicurazioni ulteriori e aggiuntive”. Nella prospettiva keynesiana, mai tuttavia letta e interpretata da Caffè in chiave fondamentalistica, ma cercando nuove declinazioni per adattare quelle idee solide e nobili ai tempi e ai contesti, egli considerava due  i pilastri della politica economica, al servizio dei quali avrebbero dovuto esservi l’intervento pubblico, la stabilità monetaria e la lotta all’inflazione: il lavoro e il welfare state. 

La misteriosa scomparsa di Caffè: l’ultima lezione

Caffè è stato un “economista di frontiera”, atipico, “disubbidiente”, anche per la capacità di considerare importanti le dimensioni immateriali dell’esistenza, quelle come il senso che ciascuno conferisce al lavoro oltre la retribuzione, quelle che riconoscono dignità alla persona, dimensioni spesso ignorate dal pensiero economico.

Come è stato ben scritto, Caffè era “perfettamente consapevole dell’esistenza di una solida interrelazione tra il fatto economico, spesso snaturato a semplice “meccanica della contabilità”, e le sue componenti politiche e psicologiche. Se infatti da un lato il sistema del welfare e i suoi corollari economici per Caffè erano indissolubilmente legati alla sostanza della Costituzione del ‘48 (lo svuotamento del primo avrebbe quindi determinato il deterioramento della seconda), dall’altro l’informazione economica, se dispiegata in modo incorretto e terroristico (ad esempio sull’argomento dello spread e della minaccia dei mercati), poteva corrompere la dialettica politica e provocare politiche antisociali” (M. Morelli, La lezione dimenticata di Federico Caffè, Rivista Pandora, gennaio 2019).

Alla ragione calcolante, contabile, fredda, Caffè anteponeva e integrava la ragione poetica. Lo raccontano il suo stile personale accogliente ancorché sobrio, asciutto, che ne faceva un professore universitario sui generis, capace di accompagnare anche affettivamente i suoi allievi nel loro originale percorso. Inoltre, le sue seguitissime lezioni “magistrali” di economia contenevano continui richiami alla musica classica e alla letteratura, proprio a indicare che la “scienza triste”, per esprimersi virtuosamente, non può essere separata dalla relazione stretta con l’umano, con la dimensione emotivo-affettiva dell’esistenza. Caffè, nelle parole di una sua nipote, “era un uomo dolcissimo, pieno di affetti e arguzie (…)  Altro che solitudine. Era un uomo che amava le cose belle della vita, dotato di un fortissimo senso estetico e di una grande capacità di commozione: tutto il contrario insomma dell’intellettuale freddo, chiuso cerebrale, arido”(E. Rea, L’ultima lezione….op.cit.). In un’intervista rilasciata nel 2003 alla rivista Appunti di cultura e politica, Roberto Schiattarella, suo allievo, sottolineava che Federico Caffè “è stato in primo luogo un maestro. Di cose economiche ma anche di altro. Di tolleranza personale e culturale, di amore per il proprio paese e per la cosa pubblica. A distanza di tantissimi anni la gran parte di coloro che si sono formati con Federico Caffè sono in qualche modo riconoscibili. Due cose ricordo in particolare. L’atteggiamento di fiduciosa attesa nei giovani – sia come studenti, sia come studiosi – e la grandissima importanza che egli dava alla cultura letteraria e musicale nel processo di formazione di uno studioso”. Un tratto specifico del suo carattere, ricorda Mario Tiberi, “era la sua capacità di capire le ragioni degli altri”. Alle sue affollatissime lezioni chiedeva agli studenti di interagire e di porre questioni. Amava discutere. Non usava mai toni ultimativi, anzi, come scriveva Ermanno Rea, spesso stimolava i ragazzi a contraddirlo, dicendo: “apprezzo molto coloro che sanno difendere le proprie opinioni” (E. Rea, L’ultima lezione….op. cit.). 

Con la medesima discrezione e umiltà con la quale aveva vissuto, Federico Caffè uscì volontariamente di scena nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 1987. Scomparve, dissolto nel nulla, senza lasciare una benché minima traccia di sé. Aveva settantatré anni. Lacerato da molte ferite esistenziali personali,  provato dal dolore civile per l’ingiustizia presente nel mondo, avvolto in una solitudine profonda ed eloquente, da sempre inquieto, con il suo gesto silenzioso urlò il desiderio di eclissarsi, tuttavia pianificando con lucidità un’estetica della sua uscita da questo mondo, nel quale aveva vissuto ma a cui forse non sentiva più di appartenere. Più che quella tenuta alla Facoltà di Economia nel Giugno del 1984, il giorno del suo congedo da professore, che non voleva arrivasse mai, forse è stata questa la sua “ultima lezione”.

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