Lei è stato accanto agli psichiatri Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia nell’impegno per la chiusura dei manicomi in Italia. Basaglia quando diventò direttore del manicomio di Gorizia, nel 1961, lo definì “una discarica per i poveri e i devianti, un luogo di esclusione dove c’erano cinquecento internati e nessuna persona”. La vostra lotta “in solitudine” rispetto alle istituzioni sanitarie e alla stessa politica, generò una rivoluzione sul versante della salute mentale.
I manicomi erano l’esplicito invito alle ipocrisie teoriche sia di destra (con l’enfasi sulla sicurezza) che di sinistra (con l’enfasi sulla liberazione). Tante parole e propositi di liberazione e sicurezza, ma nessuna pratica. Allora, come si ripete anche oggi, si trattava la cultura come cosa, valore e modello elitario in sé e non come faticoso metodo della prassi esperienziale dei diritti responsabili, al lavoro, alla casa, alla affettività, estesi ai folli e alle fragilità. Nel 1974 Franco e Franca Basaglia organizzarono un incontro a Venezia cui parteciparono Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’ ed altri dissidenti per chiedere la chiusura dei manicomi in Unione Sovietica, e per porre fine alla funzione politico repressiva della psichiatria e l’eliminazione della doppia e intercambiabile condanna, fattuale e pregiudiziale di pericolosità della malattia mentale. Michail Gorbaciov molti anni dopo capì questo presupposto politico delle libertà e dei diritti e della necessità costituzionale di abolizione del doppio binario nel giudizio fattuale.
E in Italia come andò?
La salute mentale sognava i diritti per chi non li aveva e lottava per superare ogni ostacolo e ogni discriminazione di sesso, età e condizione sociale economica e culturale che rendesse impossibile la piena e responsabile partecipazione della persona alla vita politica della propria comunità. Ho seguito Franco Basaglia e Franco Ongaro Basaglia dal 1968. Erano e sono gli indiscussi leader europei del radicale rinnovamento continuo della istituzione della cura basata sulla prevenzione delle risposte preformate, a-dialettiche, istituzionali classiste, repressive, illiberali. Nella loro concezione prendono posto il potere e il rispetto della soggettività, delle comunità e delle famiglie, dell’ambiente e dell’habitat e dei corpi che vi abitano. Il riferimento costante era la realizzazione della Costituzione italiana e dei due pilastri su cui si regge: l’antifascismo militante come sentinella dei poteri democratici e la dignità e i diritti umani da costruire tutti i giorni con modalità euristiche e partecipate, da intendersi diseguali per persone, famiglie e comunità diseguali. La radicalità del compromesso storico del ‘78 con la Legge 180, conosciuta come legge “Basaglia”, fermava le accettazioni nei manicomi. Fu una vittoria controvento ottenuta dall’incontro tra laici e cattolici e dalla forza del movimento operaio, degli studenti, delle donne, dei non garantiti, dell’onda lunga del Concilio Vaticano II e di quella cultura che non si accontentava di essere ammirata come bella ma che era anche metodo di cambiamento delle pratiche di vita dei corpi.
E’ possibile fare oggi un bilancio della legge “Basaglia”, a oltre quarant’anni dalla sua emanazione?
Il bilancio della legge “Basaglia” è possibile solo se si pensa alla cultura e alla scienza intese non come cosa in sé, ma come metodo per fare le cose. Chiudere i manicomi è stato un primo e piccolo passo avanti. Il budget di salute è un possibile ulteriore passo che ha forse permesso di contenere l’ideologia e fare spazio a una maggiore conoscenza delle pratiche di liberazione e cura efficaci, introducendo vincoli esterni alle pratiche stesse: il lavoro, la casa, l’affettività. In un processo di cura siffatto, al centro di ogni interesse vi sono la persona e l’habitat. Questa è una ricomposizione che tende a limitare il potere assoluto dell’economia egoistica (di ragione soggettiva) piazzata al centro di ogni interesse, che non può tollerare l’intrusione di modelli di economia altruistica (di ragione oggettiva) umana e ambientale che investe sui diritti e sulle cure riparative dei danni apportati all’ambiente e a quelli impartiti agli umani sottraendo ai più deboli, alle famiglie e alle comunità i diritti al lavoro, alla casa e alla libertà di scelta. La vittoria devastante ed estesa della ragione soggettiva ha reso difficili e improbabili i sistemi di welfare di comunità sui quali per secoli si è retto il sistema di benessere delle famiglie/comunità/habitat e delle persone. Il lavoro di cura basato sulla prevenzione dei metodi sbagliati – quelli solo somatici e cronicizzanti, oppressivi e securitari anch’essi cronicizzanti – è il primo e delicato compito di coloro che si occupano di salute mentale.
Superati i manicomi, nella nostra società sono nate altre forme di segregazione per i malati, per gli anziani e per i soggetti fragili: una sorta di istituzionalizzazione della sofferenza che riproduce solitudine. Lei dal tempo di Basaglia ad oggi si è sempre battuto per la de-istituzionalizzazione delle persone in difficoltà ricercando metodologie alternative al ricovero in strutture come è ad esempio il budget di salute. Perché questi approcci incontrano barriere insormontabili nel mondo clinico e nella politica?
La psichiatria o è psicosociale o semplicemente non è. I processi economico-finanziari di mercato sono divenuti la nuova istituzionalizzazione che lucra sulle vite escluse, parlando di sostenibilità e della sicurezza del profitto per “l’inclusione escludente” nelle strutture protette. La solitudine della persona malata non è diversa da quella della persona sana. La persona malata ha una maggiore carenza sul piano qualitativo e quantitativo di strumenti difensivi di fronte alla caduta dei sistemi di difesa intersoggettivi. La relazione tra salute e malattia mentale ha margini sfumati e interpretativi astratti-precognitivo/sociali-istintuali. Per fuggire il destino di solitudine viviamo in prestito cambiando spesso vestito. La malattia senza la compagnia del corpo, e della semeiotica, non è diagnosticabile. L’interruzione del decorso naturale della malattia può essere favorevole o sfavorevole a seconda di fattori extra clinici compresa la dimostrata efficacia dell’effetto placebo che spezza la solitudine dei corpi. Per aiutare una persona fragile e povera ci mettiamo “parole buone e giuste” se crediamo nei diritti diseguali per persone diseguali e nelle responsabilità uguali. Una parola è solo giusta, se non crediamo, o è solo buona, se non sappiamo. Tutte e due, invece, se curiamo. Ottemperiamo così all’originaria follia vitale dei bipedi mammiferi di ogni età, ad esercitare il non richiesto diritto fondativo di ogni altro diritto: occuparsi degli altri senza finalità di potere o danaro. La separazione violenta tra norma (ragione soggettiva obbligata al profitto) e follia (ragione oggettiva del desiderio) ha prodotto la solitudine dei soddisfatti del profitto e quella degli insoddisfatti del desiderio e ci serve per evitar-ci, commiserar-ci, vivere “come se” e nascondere quello che siamo in quello che abbiamo. La follia per vivere al servizio della ragione e viceversa ha bisogno di essere de-istituzionalizzata continuamente e personalizzata nelle relazioni di comunità. Altrimenti i malati diventano apolidi, senza diritti, corpo, famiglia e comunità; diventano consumatori solitari senza legami. Individui, non persone, a loro volta ri-produttori di solitudine, destinati, insieme ai fragili, agli anziani inutili e ai definiti non autosufficienti, al progressivo internamento nelle strutture protette a vita degli scarti poveri ma redditizi. Quanta solitudine produce una struttura protetta in una comunità?
Quale strada lei suggerisce per contrastare l’istituzionalizzazione dei soggetti che soffrono di una malattia mentale? Di quale psichiatria ci sarebbe bisogno?
La logica del manicomio diffuso e delle cure solo somatiche ha prodotto una psichiatria difensiva e securitaria, fattore di danno e di rischio maggiore per la salute mentale di comunità. De-istituzionalizzare la follia nei luoghi che la rappresentavano e nei metodi di cura che la disinfettavano o abbattevano era possibile perché lo si faceva a nome e per conto degli umani. La follia l’abbiamo accolta, persino amata, con il carico di ingiustizie urlanti al seguito e che dovevamo sanare cambiando sempre un po’ noi stessi, praticando plurime ipotesi di soluzione o convivenza con il conflitto generato nei pazienti-famiglie-comunità-istituzioni dalla paura della malattia. Si può produrre salute mentale seguendo il dettame di Siegmund Freud: lieben und arbaiten – amare e lavorare – è la personalizzazione della cura. Così la solitudine sfuma.
Il solo modello medico-psichiatrico di cura delle persone con disturbo o/e malattia mentale è perdente e prognosticamente negativo. Ha grande successo per la velocità e la semplificazione che propone, accompagnato da un gergo da spiritismo psico-mediatico. Nella relazione terapeutica bisogna invece puntare allo sviluppo della capacitazione intersoggettiva che regala l’amore e il rispetto di sè per gli altri e per il creato. Solo questo può contrastare l’eccesso di ideologia conveniente e repressiva della psichiatria somatica e difensiva-securitaria. Più somato-psichiatri-psicologi non fanno di per sè più salute mentale di comunità, più lavoro, casa e affettività, ne più équipes multiprofessionali che lavorano nei territori e sulla domiciliarità della cura. Le Case della Comunità sono la storica occasione per lo sviluppo della salute mentale di Comunità, purché sappiano riconvertire le risorse destinate agli imprenditori privati convenzionati, in occasione di costruzioni dei diritti a vivere lavorare abitare in un luogo scelto dalle persone fragili stesse.
Il lavoro potrebbe essere una leva per costruire il benessere individuale e comunitario, ma certo non alle condizioni nelle quali oggi viene richiesto. Che ne pensa?
Il lavoro è a fondamento della salute mentale, ma non perché rende liberi. La fusione tra amore e lavoro produce piacere, equilibrio, bellezza e salute mentale. I fondamenti dell’otium intelligente, nutrito da forme di redistribuzione attiva e dignitosa, sono lavoro? I primi tre articoli della Costituzione italiana ovvero la definizione di salute mentale che Sigmund Freud condivise con Einstein, ossia amare e lavorare, direbbero di si. Il lavoro e la coesione sociale – forma attuativa dell’amore di sé per gli altri – producono salute mentale? Certo! E la separazione tra lavoro e coesione sociale genera sofferenza mentale? Direi di sì! Ciò ha come motore le istituzioni della disuguaglianza, quelle fondate sulla ragione soggettiva, che considerano il diritto alla salute un privilegio e un interesse privato da sottrarre alla Comunità, dove il lavoro diventa un lucro utile alla necessaria efficienza della ragione soggettiva di mercato. Per questa ragione la legge 502/92 – che trasformò le unità sanitarie territoriali in aziende – mina il fondamento stesso della salute che è la salute mentale. Affida infatti al mercato la cura dei malati di mente, che ne quantifica il costo della mutilazione richiesta dei diritti al lavoro, alla casa e all’affettività. Bisogna sapere che una persona dopo due anni di ricovero in una struttura protetta perde la sensibilità alle capacitazioni e dopo cinque anni il processo di de-capacitazione è completato.
La malattia fa sperimentare a ciascuno di noi la solitudine di chi deve trovare dentro di sé le risorse necessarie per dare un senso a ciò che riteniamo insensato. Noto tuttavia che se patologie gravi come un cancro generano attenzione attorno alla persona malata, le patologie della salute mentale creano il vuoto attorno a chi ne soffre. Resiste ancora lo stigma dei malati mentali?
Il nuovo stigma nasce da alcuni interessati assiomi: le persone fragili saranno più fragili se le esponiamo ai diritti e alle responsabilità. Meglio mantenerli per curarli a spese dello Stato, o facendo guadagnare i nuovi carcerieri finanziari, che hanno come obbiettivo l’assalto al welfare universalistico e al risparmio privato attraverso il sistema concorrente di welfare privatistico. Non c’è budget di salute senza il lavoro dignitoso, la casa e affettività per e con le persone fragili, a rischio di divenire “scarti” di rendimento privilegiato. Non è difficile vedere che i vincoli esterni del processo di cura efficace sono veri perché estendibili a tutte le fragilità fisiche, psichiche, sociali, ambientali e di genere. Da quest’ultima fragilità sociale, culturalmente indotta, si deve sempre partire perché il paradigma del processo di cura, irrilevante per l’economia egoistica, inizia dal genere e dalla sua forzata estraneità ai processi di accumulo. Le istituzioni territoriali non hanno più alcun potere e sono in balia di poteri che non hanno più territorio. La istituzionalizzazione è oggi lo strapotere della ragione soggettiva che ha trasformato l’offerta in domanda, la scelta in obbligo e le istituzioni di tutti in garanti burocratici dell’ingiustizia sociale e ambientale, della trasformazione in scarti anche dei giovani.
L’impatto della pandemia sulla psichiche della popolazione è stato significativo ma ignorato dalle istituzioni. La pandemia ha accresciuto la povertà relazionale e perciò la solitudine di molti. Le chiedo, conoscendo il suo approccio integrato alla cura delle persone, perché persiste una visone della cura come medicalizzazione dell’esistenza?
Le istituzioni della follia sono oggi l’economia, la finanza e la ragione soggettiva del massimo profitto. La distruzione finale dell’ambiente è un frutto non previsto, e per questo poco ri-conosciuto della finanza e dei consumi imposti, della minacciata e usata violenza delle armi, della coazione alla crescita, alla sicurezza, alla sostenibilità, alla inclusione, tutte parole senza aggettivazione di senso e direzione, per la vergogna a parlare di profitto mentre il mondo muore. La dipendenza patologica dalla ragione soggettiva è giunta al culmine del potere. Il disturbo mentale è ben poca cosa rispetto alle derive sociali e politiche che viviamo. Amare e lavorare è la sola de-istituzionalizzazione possibile. Bisogna ottenerla dalla riconversione delle rette e dei costi delle strutture contenitive, della non autosufficienza, della follia, delle disabilità, degli anziani, delle carceri, delle lungodegenze, degli abbandonati, delle povertà, in investimenti produttivi di lavoro dignitoso volto alla cura e alla riparazione dell’ambiente e alla riconversione ecologica della mente, del sociale, dell’ambiente e delle istituzioni. Questa è oggi la salute mentale che promette un mondo possibile a chi verrà dopo di noi, mentre vive la follia incurabile, incomprensibile e pericolosa dei potenti che pur di sentirsi eterni tentano di distruggere tutto. La pandemia, ancora presente nel nostro futuro restante, ha dimostrato che la miglior difesa è la salute mentale di comunità che produce la scienza epidemiologica della libertà, uguaglianza, fraternità e della cura della relazione del genere umano con l’ambiente. La pandemia e la salute mentale ci insegnano che “pubblico è bello” e che il sistema di welfare deve responsabilmente investire sulla produzione di ricchezza, sul lavoro e sulla uguaglianza considerando che la solidarietà è un obbligazione – come afferma la nostra Costituzione all’articolo 3 – e non solo un’opera buona. In fondo tutta l’opera di Franco Basaglia e di Franca Ongaro Basaglia è stata ed è una grande avventura italiana ed europea per l’attuazione della Costituzione e della Carta di Ventotene, come frutto e seme della Salute Mentale.
Nel corso di questo dialogo lei ha spesso insistito sulle patologie individuali e sociali generate da un sistema di vita condizionato fortemente dall’ideologia neoliberista e dal mercato, o come lei la chiama, la “ragione soggettiva”. Ciò ci fa guardare in maniera diversa la relazione tra ragione, follia e solitudine…..
Il mercato non produce salute mentale ma dipendenze patologiche, cronicità conveniente e consumo di prestazioni inutili e dannose. L’attuale grande antipatia e urlata pericolosità nei confronti delle persone con disturbo o malattia mentale, dipendenza patologica, extracomunitari e poveri, toglie a tutti l’ormai residuale salute mentale di ragione oggettiva e sogna il potere e danaro promesso dalla ragione soggettiva di massima sicurezza, appartenenza alla ragione del più forte, vergogna di sapersi fragile, violenza preventiva e difensiva. L’arretramento planetario della salute mentale, dei diritti e dell’uguaglianza nel tempo ha liberato la follia della guerra, frutto bugiardo dell’albero della cuccagna ha preso il posto dell’albero della vita e del frutto della conoscenza. Viviamo, come detto, preda della ragione soggettiva del dare/avere e del massimo profitto. E’ un’esistenza virtuale quella priva della ragione oggettiva dentro cui la soggettività ricercava il comune destino delle relazioni umane, della uguaglianza, della libertà e della necessità di porre rimedio ai danni arrecati all’ambiente e alle relazioni umane. L’esorbitante potere della ragione soggettiva sta rendendo il mondo un luogo invivibile. La solitudine esistenziale della repressa follia dei manicomi è divenuta normalità folle su cui la guerra mondiale intermittente ha posto il sigillo. L’offerta è divenuta domanda e le scelte un obbligo. La solitudine è coltivata come sudditanza obbligata ai modelli socioeconomici dominanti che hanno abolito e monetizzato la morte in vita degli scarti umani. La solitudine è figlia di primo letto di ragione (norma) e follia (anti norma innamorata) ora separati per interesse, non più generativi ma replicativi a nome e per conto di Solitudine. C’è chi dice che la ragione staccata dalla follia soffre di infiniti disturbi mentali da solitudine e non trovando nulla e nessuno da amare se non sé stessa, distrugge ogni cosa e odia il creato e tutto ciò che non possiede. La follia impossedibile se la ride e per vendetta di essere stata esclusa e cacciata diviene norma e cerca un’altra norma da amare e farsi amare. Forse la follia d’amore salverà il mondo e renderà uguali e liberi gli esseri umani. Forse.