Sempre più spesso l’uomo sembra esser convinto di credersi solo sulla faccia della Terra. Questa arroganza, o ingenuità, si traduce nell’egoistica possibilità di poter distruggere tutto, perché la finitezza dell’uomo coincide, nella sua testa, con la finitezza del mondo interno. È forse anche per questo che stiamo attraversando una, forse irreparabile, crisi demografica, figlia del continuo rinvio di scelte e del pessimismo rispetto al futuro, che siamo noi stessi ad alimentare con le nostre azioni.. La nostra follia autodistruttiva ha avuto un’altra conferma, delle tante, quando pochi giorni fa un telegiornale ci ha sbattuto in faccia la attraversata a piedi del fiume Po, realizzata da un giornalista e da un geologo; nel punto dove di solito il fiume era profondo 3 metri, quella volta c’erano solo 70 centimetri di acqua. Basterebbe questo per dire che ogni altra discussione sarebbe superflua, e ridicola, se non ci diamo una seria regolata sul fronte climatico e ambientale. Ci troviamo davanti a un cambio d’epoca, e forse di civiltà, ma continuiamo come se tutto fosse come prima aggiungendoci pure una, ulteriore, guerra e nuovi sconquassi geopolitici. E ci ostiniamo a non capire che tutto ciò che sta accadendo, dalla pandemia alla guerra, dalla crisi del lavoro alla mancanza di acqua, dalla crisi ambientale all’inverno demografico, non sono singole questioni per le quali cercare specifiche soluzioni bensì facce di uno stesso drammatico problema, ovvero di modello economico e di sviluppo che non funziona più, che esplode di contraddizioni e che fa esplodere disuguaglianze. È il nostro modo di stare insieme, di produrre, di consumare che va radicalmente trasformato perché problemi giganti e inediti meritano risposte importanti, profonde e nuove. Se continuiamo ad agire a valle, il nostro sarà solo un tentativo di gestire qualcosa che non potremo modificare e che ci trascinerà, ognuno nella sua solitudine, nel baratro di un destino già scritto; se sapremo andare invece a monte, potremo agire sulle cause e provare a modificare, collettivamente, il nostro futuro. È qui che ritrovo gli insegnamenti di don Virginio Colmegna e del suo “stare nel mezzo”, insegnato dal Cardinal Martini: uno sforzo continuo di cogliere le contraddizioni e responsabilizzare le coscienze cercando, sempre, di dare un volto agli ultimi, ai fragili che sono prima di tutto solitudini da collegare a cui offrire un’opportunità diversa di riscatto o di espressione e non, invece, numeri buoni solo per comporre fredde statistiche. Un metodo che necessita, anche, di un linguaggio nuovo capace di accogliere paure e disorientamenti, indicando una via possibile. È l’impegno di questa Rivista, Passione e Linguaggi, che vuole provare a rinnovare il linguaggio per rappresentare problemi nuovi e inediti generando speranza. Un linguaggio che possa aiutare a costruire pensiero in un momento storico in cui i ragionamenti viaggiano veloci in superficie, incapaci di penetrare teste e cuori e di produrre, quindi, cambiamento, fermandosi solo alla logica binaria che prevede solo due possibilità o scelte. Un pensiero tanto superficiale da non prevedere alcun tipo di argomentazione e collegamento, di una povertà drammatica da riuscire a denigrare anche un termine nobile quel è “pacifismo”, proprio nel nostro paese con una storia radicale e meravigliosa di obiezione di coscienza. Mentre la pace non è un capriccio o uno slogan ma, come insegna don Colmegna, è profezia, anticipazione dei tempi e quindi è vita e futuro. Ecco perché tutti noi abbiamo la responsabilità di promuovere la pace, di costruire una cultura di pace, uscendo dal linguaggio binario in cui è prigioniera la nostra società, dove tutto deve essere o bianco o nero, dove ci si deve schierare sempre o di qua o di là scordandoci che nella logica binaria computer e algoritmi sono più bravi dell’umano. Noi, invece, abbiamo l’opportunità di uscire dalle nostre solitudini, di incontrarci, di conoscerci e riconoscerci, di condividere destini, orizzonti e valori per costruire qualcosa insieme, costruendo legami sociali e senso sociale, che è ciò che sembriamo aver smarrito, liberandoci da quella solitudine in cui anche la politica sembra averci rinchiusi incapace di immaginare e costruire futuro. Per questo abbiamo bisogno di creare una nuova classe dirigente che sappia progettare, sappia costruire legami tra le persone intorno a valori e relazioni positive, accanto a un senso di futuro che sia sostenibile in primis per le persone, tornando a rendere il bene comune e il benessere collettivo qualcosa per cui valga la pena impegnarsi, più del denaro o del riconoscimento sociale. Riscoprendo, quindi, l’ambizione, di occuparsi della felicità dell’altro, che non è un diritto individuale che ognuno deve perseguire per sé ma è uno dei più importanti beni comuni e collettivi che abbiamo il diritto e il dovere di curare e perseguire.
Certo, mi rendo conto di quanto possa sembrare difficile tutto ciò quando, in questi tempi, la solitudine, con le sue tante maschere e i tanti volti, sembra essere il personaggio principale sul palcoscenico della vita. Noi, incapaci di liberarcene proprio come è impossibile liberarsi dell’ombra che ci accompagna allungandosi sui nostri passi. Certo, la tecnologia ci ha dato ampi spazi di connessione, eppure la solitudine riesce ad avere comunque il sopravvento spingendoci a spianare i nostri cellulari per riprendere la morte di un uomo. Popolo di guardoni e pavidi che preferiscono il bello della diretta alla difesa di un fratello che sta soccombendo sotto i colpi di un altro fratello. È lo schierarsi dalla parte della scelta comoda e automatica che ormai sembriamo aver assimilato come naturale. A Civitanova Marche, un’orgia di solitudini si è data appuntamento: chi muore solo elemosinando speranza, chi nella mancanza di aiuto si è scoperto assassino, chi col cellulare in mano si è disconnesso dalle relazioni umane che contano e che possono salvare proprio perché sono capaci di costruire relazioni e, dunque, socialità, perciò vita.
Poi c’è la solitudine portata dai missili, che cadono sul futuro degli orfani delle guerre, facendo calare un buio inversamente proporzionale al bagliore con cui scoppiano. Orfani della furia distruttrice dell’uomo, fratelli di altri orfani, gli orfani bianchi, i figli delle nostre badanti costrette a lasciare soli i loro bambini per venire sole in Italia ad accudire i nostri anziani soli. Già, perché la grande città rende soli. Abbiamo innalzato grandi palazzi trasformando gli appartamenti e le nostre case in gabbie di vetri oscurati dove restiamo prigionieri delle nostre solitudini, alimentate dall’indifferenza, che ci rendono incapaci di accorgerci, perfino per anni, della morte del vicino di casa che nessuno cerca, che nessuno chiama. La solitudine delle persone disabili, che si proiettano sole nel loro futuro, quando invece la disabilità è una responsabilità collettiva che la comunità deve saper cogliere e di cui deve farsi carico. Anche il lavoro, sempre più individualizzato e lontano dal concetto di solidarietà che lo ha fatto, in passato, epicentro di grandi conquiste collettive, ha finito col lasciare sole le persone nelle proprie fatiche, nelle proprie paure e nei propri desideri. Il lavoro che condanna alla solitudine chi lo perde e che non sa dove cercarlo e, tantomeno, non sa dove poter sentire accolta la propria condizione. E visto che il lavoro produce senso, un lavoro così denigrato ha finito col produrre solitudine nella società, laddove prima produceva legami e comunità. E se il lavoro perde valore, viene anche pagato meno perché nessuno è disponibile a pagare tanto qualcosa che ha poco valore esattamente come nessuno cercherebbe qualcosa che vale poco.
Eppure, ci sono esempi che hanno saputo sconfiggere la solitudine e organizzare speranza. C’è chi ha saputo ribaltare il campo di gioco, partendo dai bisogni delle persone e del territorio riuscendo a rompere le prigioni individuali e generando relazioni e modificando anche comunità e territorio, aggregando attorno a valori positivi e a sogni collettivi. È quello che ha fatto la Cooperativa La Paranza del Rione Sanità di Napoli che, accompagnata con silenzio ed eleganza da don Antonio Loffredo, straordinario tessitore di speranza, ha saputo rigenerare le Catacombe di Napoli, un bene comune abbandonato all’incuria, una delle meraviglie di questo nostro mondo. Un posto da visitare e vivere che all’inizio dell’avventura contava 5.000 visite all’anno e che oggi ha tagliato il traguardo di 170.000 visitatori annui, superando il record del 2019 in epoca pre-covid. Ma le Catacombe non sono solo un pezzo di storia e di archeologia, sono molto di più. Sono la dimostrazione che la bellezza può cambiare la realtà, può cambiare il mondo, e di come un nuovo utilizzo dei beni comuni sia possibile e decisivo.
Questo lavoro, duro e profondo, ha infatti consentito la ripartenza dell’economia di un territorio, del Rione Sanità, uno dei più duri in Italia, puntando su arte, bellezza e sulla ricostruzione delle relazioni tra le persone.
Nel casertano continua la stupenda avventura della straordinaria rete della NCO, la Nuova Cooperazione Organizzata, che ha investito sugli ultimi, sui fragili, rendendo gli scarti pietra angolare di un’economia civile capace di prendersi cura delle persone e, quindi, del territorio. La lotta alla camorra si fa valorizzando le persone, liberandole della loro solitudine e ospitandole in una rete di relazioni capaci di costruire una comunità operosa in grado di difendere la legalità partendo dalla centralità della persona e dei legami, stando nel mezzo e dando volti a chi ha bisogno di essere riconosciuto e accolto.
Realtà che ci ricordano che il lavoro sostenibile e umano, in grado di dare un’opportunità a tutti, è il migliore strumento per contrastare la lotteria della nascita, che distribuisce premi e penalizzazioni senza alcun merito ne colpa. Ma soprattutto è la conferma che dalla storia di un luogo possono rifiorire le storie collettive.