Si può sperimentare la solitudine in due modi: con la mente o col corpo. O, come dicono le neuroscienze cognitive, con la mente sociale o con quella individuale, nell’interazione o nell’introspezione.
Nel primo caso si percepisce la solitudine quando perdiamo gli interlocutori. Per motivi indipendenti dalla nostra volontà (malattia, vecchiaia, perdita di potere, autorità, posizione sociale, dileguarsi di amori, affetti, amicizie, etc.) o per scelta (decidiamo di ritirarci, isolarci, prefiguriamo di andarcene dal mondo, scegliamo di rompere per sempre la noia dell’esserci, del partecipare, del vivere sempre in funzione dell’essere accettati). Le ragioni indipendenti dalla volontà sono proprie di tutte le specie animali, le altre, probabilmente, sono solo umane.
La solitudine del corpo sembra più difficile da capire. Quando può dirsi “solo” un corpo?
In genere ci si riferisce al corpo come ad un insieme di organi senzienti. Vediamo col corpo degli occhi, ascoltiamo col corpo dell’orecchio, tocchiamo col corpo del tatto. Così se un corpo non ne tocca un altro o se non ne è toccato, oppure se non riesce a vederne di altri, o ascoltarne, diciamo che può esperire uno stato di solitudine corporea. Questi, tuttavia, sono casi tipicamente patologici o da isolamento sociale estremo. Casi da cui c’è molto da imparare ma che riguardano pochissimi individui. Una parte del corpo, forse la piu importante, cioè il cervello, esperisce, invece, uno stato di solitudine corporea che tutti gli individui provano. Oggi sappiamo che questa solitudine cerebrale sta alla base di quello che Cartesio chiamava il Cogito, ovvero l’Esserci.
La solitudine corporea è uno stato mentale del corpo. Nel suo senso letterale. È una solitudine involontaria e sistematica. Una scoperta importantissima delle neuroscienze attuali è, infatti, il cosiddetto Default Mode Network (DMN). Si tratta dell’individuazione di un insieme di regioni cerebrali che si attivano, in maniera quasi esclusivamente complementare, o quando siamo impegnati in compiti che richiedono attenzione verso l’esterno, oppure quando ci troviamo in uno stato di riposo (resting state). Dal punto di vista sperimentale: si monitora con lo fMRI il cervello di un soggetto che o è invitato a risolvere un compito specifico (rispondere sul significato di un’immagine, di una foto, di un evento o interazione qualunque) oppure viene lasciato rannicchiato e solo all’interno del cilindro blindato in cui avviene la risonanza magnetica con, al massimo, un piccolo punto luminoso da fissare. È questo il caso non metaforico ma letterale della solitudine cerebrale (Fig. 01).
Fig.01. Immagini fMRI di un cervello umano a riposo. Le immagini rivelano la natura altamente organizzata della attività cerebrale intrinseca. Le correlazioni sono rappresentate da una scala di colori arbitraria delle fluttuazioni del segnale fMRI. Le correlazioni positive (qui di colore più caldo rosso-giallo) risiedono in aree che aumentano l’attività durante le risposte a stimoli esterni; le correlazioni negative (colori freddi verde-blu) risiedono in aree che lavorano soprattutto in stato di solitudine (mancanza di stimolo). A Sinistra: viste laterale e mediale dell’emisfero sinistro; al Centro: vista dorsale; a Destra: viste laterale e mediale dell’emisfero destro. [Fonte: Raichle.2006:1249]
Ma cosa fa un cervello quando è solo con sé stesso? Questa domanda ha suscitato molte ipotesi tutte più o meno ancora da esplorare. Partiamo dai dati nudi e crudi. Il cervello solitario occupa circa la metà del nostro tempo mentale e consuma un’enorme quantità di energia: molta di più di quella richiesta dalla soluzione di un problema contestuale o da qualsiasi interazione con gli altri. Consumo perché penso da solo: mi perdo nel mind wandering.
In secondo luogo, secondo alcuni studiosi, tendo a deprimermi. Ma la depressione è sempre associata alla vera attività del resting state: preoccuparsi. Sembra, infatti, che l’attività intrinseca della mente in completo isolamento sia quella di scavare nella memoria biografica, di far emergere scenari e situazioni, di ricostruire l’historia criminis, ovvero di mettere in fila tutte le variabili che ci portano in quello specifico momento a dover scegliere un dato comportamento in risposta a quelle “astrazioni incarnate” (Binder-Desai, 2011) che sono le traduzioni in parole della nostra analisi dell’azione. Su quella base riusciamo a progettare le reazioni e soluzioni più adatte, a soppesare e prospettare la strada per uscire da situazioni imbarazzanti, difficili, ma soprattutto pericolose ed emotivamente impegnative.
Questa inedita facoltà di ruminazione solitaria ha un’origine evolutiva. Ottimizzare le forze per assumerci il peso delle preoccupazioni nei momenti di inazione per riprogettare, in forme continuamente nuove ma già presenti nella nostra biografia, le intuizioni e le soluzioni che ci permetteranno di reagire uscendo fuori dallo stato di pericolo. Questo è evidentemente un retaggio evolutivo che condividiamo con i nostri antenati, non solo scimmie e oranghi, ma con tutti i primati, i topi, i gatti, i mammiferi più vicini alla nostra storia zoologica.
La solitudine del DMN umano ha. tuttavia. una particolarità che è certamente corporea ma che influisce su aspetti potenti del nostro intelligere. L’area cerebrale in cui avviene il discorso interiore che riempie la solitudine del nostro resting state, infatti, non esiste, o esiste in forme appena accennate, negli altri animali. Per i curiosi più accaniti semplificherò dicendo che si tratta del gyrus angularis o Area 39 di Brodmann. Grazie agli studi sul DMN oggi sappiamo che alle tradizionali aree di Broca e di Wernicke, che si occupano di codificare e decodificare i suoni, si affianca un’area del ripensamento dei significati, di un re-incarnamento della parola nella biografia individuale, di un luogo in cui la parola diventa ontologia: la casa dell’essere, come Heidegger chiamava il linguaggio che abita non l’uomo ma quel dato uomo, la storia del suo perseverare in existentia (Spinoza docet). Prima di questi studi sulla solitudine cerebrale non lo sapevamo, se non sotto l’eterea forma dell’intuizione filosofica.
Dal punto di vista scientifico, e perciò filosofico, si tratta quindi di una scoperta eccezionale: abbiamo toccato il sacrario biologico della soggettività, dell’irripetibilità semantica della vita individuale. Lì, e solo lì, nel profondo della solitudine corporea, non l’invadente interazione ma il linguaggio interiore ci abita sovrapponendo la biologia della specie a quella dell’individuo: geni e cultura collimano, finalmente e in concreto, al di fuori di ogni retorica. Ma dal punto di vista psicopatologico, e perciò filosofico, la scoperta ci lascia addirittura sbigottiti. Per esempio ora possiamo capire come le patologie delle solitudini ruminanti (depressioni e psicosi maggiori) hanno origine nel luogo di incontro tra natura e cultura, tra l’apparato universale specie-specifico e il suo sviluppo particulare, ontogenetico. Forse lo abbiamo sempre saputo (ecco la filosofia), ma ora lo tocchiamo con mano, lo possiamo persino “fotografare”.
Alcune ricerche, infatti, hanno messo a confronto il comportamento del DMN in soggetti schizofrenici con quello di soggetti di controllo sani. Ciò che è emerso da review e metanalisi di centinaia di questi studi è che le alterazioni colpiscono gli schizofrenici in un modo del tutto particolare: si ipoattivano le aree delle funzioni attentive e procedurali ma si iperattivano quelle della ruminazione semantica, della personalizzazione del senso. È Il linguaggio ecce-ego-centrico dello schizofrenico, quello che si fissa negli spettacolari deliri bizzarri e nelle allucinazioni verbali, che la psichiatria ha curato nei secoli con tutto lo strumentario degli orrori manicomiali: dalle lobotomie medioevali all’elettroshock, ancora sino ai nostri giorni in qualche clinica di provincia dove ci assicurano che metteranno a posto il nostro nonno un po’ matto.
La solitudine del corpo prepara quindi il festival delle interazioni. Quando torniamo a toccarci, sentirci, ascoltarci, vederci e magari abbracciarci, reimmessi nel mondo abitato, non lo facciamo a casaccio. Abbiamo preparato i nostri incontri, li abbiamo “sognati a occhi aperti”, li abbiamo desiderati o temuti e ci siamo preparati all’accordo o al conflitto. Naturalmente la realtà contestuale e interattiva non è mai scontata. Può sorprenderci chi ci ama o ci odia all’improvviso senza alcun preavviso o motivazione. Ma ben presto anche quel nuovo individuo, quel nuovo evento, quella nuova situazione, diventerà un contesto che entra nella nostra memoria biografica in cui avrà tempo di essere rianalizzato, ricostruito, risemantizzato dal nostro linguaggio interiore e privato. Ritornando di nuovo, in un ciclo infinito, nelle profondità silenziose della nostra solitudine corporea.
Antonio Pennisi
Chi è interessato agli aspetti scientifici può trovare più informazioni in:
A. Pennisi, Psicopatology of language, DMN and embodied neuroscience. A unyfing perspective, “Reti, saperi, linguaggio. Italian Journal of cognitive Sciences”, 1/2022, pp.383-43.
Abbreviazioni bibliografiche usate nel testo:
Binder J.R., Desai R.H. (2011), The Neurobiology of Semantic Memory, in «Trends Cogn. Sci.», 15, 527-536.Raichle M.E. (2006), The Brain’s Dark Energy, in «Science» 314, 1249.