A proposito di solitudine, spesso mi torna alla mente la storia, che proverò a raccontare, di un amico che dalla giovinezza si interroga sul “cosa s’ha da fare perché le persone possano contare di più, in questa società, nel disegnare la propria esistenza?”, sul Don Milani di “dare la parola a chi non ce l’ha’, sulla ‘Parabola dei Talenti, sul ‘Fatti non foste a viver come bruti…’. Aveva in mente, al riguardo, l’esperienza dei genitori, montanari dell’Appennino matildico. Sodale di Camillo Prampolini Giovanni, nonno materno, piccolo agricoltore mai iscritto al PNF, che vedeva perciò impedito alle figlie anche il reclutamento come mondine. A Giovanni, nel ’45, i partigiani consegnarono il latifondista che lo aveva fatto bastonare, minandone la salute, dagli anni ’20 fino all’ultimo, mandando le squadracce, previamente ubriacatesi nel suo palazzotto, ad assediarne la casa di pietra: forte, nella madre e in sorelle e fratelli, il ricordo della nonna che impediva a Giovanni, gran cacciatore, di reagire. Memore della componente evangelica dell’insegnamento prampoliniano, il nonno chiese che il suo persecutore venisse liberato, perché nulla ‘avrebbe risarcito le sofferenze d’un ventennio’. Di famiglia più benestante, con studi al Seminario presso l’Abbazia di Marola, il nonno paterno. Una sorella di dieci anni più grande che suo padre vide nascere, per riabbracciarla dopo cinque anni al rientro dalla prigionia in Unione Sovietica con i suoi compagni dell’ARMIR, dato per disperso sul Dniepr finchè i comandi sovietici non lo fecero incontrare con Di Vittorio e Santi della CGIL. Lo studio come emancipazione gli prospettavano i genitori, citando Togliatti che, nel ’48, in un comizio, ripetè più volte la perorazione “studiate, studiate!”: vedendo i genitori alzarsi all’alba per lavorare fino a sera inoltrata, corrispose con il massimo dell’impegno e del risultato. Grande l’amore per la storia, dalla decadenza dell’impero romano alla lotta contro la simonia da parte di Ildebrando di Soana, il Gregorio VII° di Canossa, fino al Bloch della ‘Società Feudale’. Nel mondo di Giovanni XXIII e del Concilio, di Kennedy e Kruscev, con speranze di pace forti in lui ragazzino, incontrò Don Giuseppe Dossetti alle “Liturgie della Parola” a Monteveglio. Un “imprinting” forte: nei colloqui con lui, suo Direttore Spirituale, emergeva l’“essere monaco” come obiettivo, bandiera/spartiacque, persino attraverso una fase di militanza comunista. Frequentò, quasi unico figlio di operai, il Liceo Classico: buoni maestri non propensi ad abdicare al proprio ruolo, da Lazzaro Padoa, insigne grecista, musicista, esponente della Comunità Ebraica, a Ermanno Dossetti (docente e Preside di grande preparazione e sensibilità al dialogo, poi parlamentare), da Giancarla Codrignani (del gruppo bolognese del dissenso cattolico e della lotta per il disarmo che ruotava attorno al Prof. Favilli, anche lei poi, parlamentare) a Eros Mattioli allievo dell’economista Pesenti, da Mons. Prospero Simonelli direttore spirituale, negli anni giovanili a Roma, di Aldo Moro, a Oddone Romagnoli amico del pittore Morandi, che descriveva i palazzi cretesi di Cnosso e Festo avendo a mente gli spazi aperti della Bauhaus. Arrivò il ’68 e per lui fu sentire a portata di mano la possibilità di un mondo migliore, più giusto. Un clima febbrile, letture spasmodiche, individuali e di gruppo, la prima timida assemblea, l’incrocio delle culture: per lui, di famiglia operaia e, almeno due mesi ogni estate, operaio a sua volta in macelli, mercati e cantine per pagarsi gli studi, era naturale dialogare con la classe sociale di appartenenza, ma non era così semplice per quegli operai più anziani che ricordavano di avere visto studenti in piazza solo in occasione di manifestazioni per Trento e Trieste. Abitava con la famiglia un bilocale in un quartiere INA-Casa progettato dall’Arch. Albini: in quegli anni, la casa era piena “di gioventù che non parlava solo di sport” come ricordava sempre la madre. Spesso i suoi gli dicevano che i poveri “senza organizzazione non vanno da nessuna parte”. Partecipò alle iniziative di Corrado Corghi sul nascente movimento dei ‘Cristiani per il socialismo’ e poi, prima che esplodesse la strategia della tensione e si entrasse nel tunnel degli anni di piombo, dopo una notte di discussione con Alberto Franceschini che usciva dal PCI (si seppe poi che si accingeva ad unirsi a Renato Curcio), decise di aderire al Partito di Luigi Longo, che apriva al dialogo con il movimento degli studenti: prese così corpo la previsione di Don Dossetti. Un ricordo angoscioso di persone che improvvisamente sparivano, reclutate alla clandestinità verso approdi di massimalismo e violenza contro i quali la battaglia si faceva ogni giorno più forte. All’interno del PCI, la militanza era difficile per gli “esterni” come lui, verso cui gli ambienti giovanili “interni” ponevano in essere ogni strategia di interdizione: unico spazio concesso dalla burocrazia di Partito era il lavoro culturale o nei quartieri, lontani dal Palazzo: si impegnò con convinzione nel fare crescere esperienze di decentramento e partecipazione, tra quartieri e scuole. Gli era evidente la contraddizione tra la consapevolezza che, per incidere sulle scelte e non essere escluso dalla circolazione della risorsa informazione, bisognava salire gradini della scala del potere, ascesa che però richiedeva, a tutela dell’establishment preesistente, l’esprimere esplicito consenso alle regole d’accesso a quel potere di cui voleva sempre più cambiare logiche e finalità. Raccontava come gestisse la contraddizione applicando una analisi costi/benefici in termini di provata utilità sociale dell’agire individuale nelle situazioni concrete che si trovava a fronteggiare, avendo sperimentato che l’alternativa sarebbe stata solo rassegnazione a marginalità e incapacità di alimentare percorsi di pensiero critico ed azione sociale per cambiare l’essenza di un potere di pochi su tanti, finalizzato a massimizzare profitti e ricchezze di quei pochi a scapito dei tanti. Rifiutò di divenire professionista della politica e scelse di studiare Chimica, convinto del peso centrale dei saperi tecnico-scientifici nei processi decisionali futuri dei sistemi di potere. Racconta di quando in laboratorio chiedeva degli effetti sanitari di sostanze con cui lì si lavorava, come il nitrobenzene (prime notizie emergevano sulla sua carcinogenicità), sentendosi rispondere “l’abbiamo fatto anche noi”, mentre vedeva ammalarsi docenti di valore impegnati dalla chimica organica alla radiochimica fino alla spettroscopia a microonde, a conferma di quanto apprendeva da Medici del Lavoro e Consigli di Fabbrica e leggendo di ‘controllo sociale della tecnologia’. Cominciò a occuparsi di cicli industriali della chimica, confrontandosi con il Massimo Cacciari di “Contropiano”, seduti alle Zattere, avendo di fronte l’impianto TDI (fosgene) di Marghera. Consapevole del ruolo crescente che, nella gestione dei processi produttivi, avrebbero detenuto i quadri tecnici, curò una ricerca su tali figure nel comparto privato e in quello pubblico, mettendo in risalto il disagio di quel ceto rispetto alla carenza di interlocuzione politica e sindacale (ben prima della torinese “marcia dei 40.000”): i risultati del lavoro furono apprezzati da Giovanni Berlinguer. Nella primavera ’72 accettò di collaborare alla campagna elettorale del PCI in Calabria, nella Locride, per arginare i “Boia chi molla”: rimase stordito all’impatto sia con la nozione di “rispetto” ed il familismo amorale, premesse di quella omertà che tante volte, successivamente, si trovò a combattere in altre aree del Mezzogiorno, sia con la percezione di una terra forte e disgraziata, profumata di bergamotto, ricca di storia e lordata da secoli di ingiustizie. Lo ospitava, a Roccella, l’anziano Avvocato don Peppino Bova che una sera volle metterlo a parte della corrispondenza massonica tra Garibaldi e il nonno, Maestri di XXXIII Loggia; “reliquie” laiche sottratte al sacco fascista del Palazzo Bova di città a Reggio Calabria. Verso il termine degli studi pose la prima attenzione ai temi dell’ambiente, organizzando cicli di conferenze cui parteciparono Laura Conti, Giorgio Nebbia, G.B.Zorzoli, Marcello Cini, Umberto Colombo, Giuseppe Campos Venuti, Antonio Cederna: divenne una consuetudine correre a Milano, alle iniziative del Club Turati e della Casa della Cultura e poi del “Sapere” di Giulio Maccacaro, luogo del rigore critico verso la ‘neutralità della scienza’, della cui redazione entrò a far parte. Scomparso Maccacaro, dopo la “scissione” dei nuclearisti, aderì a “SE – Scienza/Esperienza”, avventura culturale affascinante in un’Italia che si apriva sempre più ai riti della “Milano da bere”, la Milano in cui aveva vissuto dal disastro di Seveso alla sconfitta della ‘emergenza rifiuti’. Cominciava a preoccuparlo l’impossibilità di trasmettere, di generazione in generazione, la percezione degli errori commessi, affinché se ne potessero commettere di nuovi: aveva sempre in mente, al riguardo, l’“Odile” di Queneau e le avanguardie parigine del primo Novecento lì descritte. Dopo il dibattito sulle ‘Due culture’ e sullo iato tendenziale tra specialismo e generalismo, considera una fortuna avere vissuto l’emergere della ‘cultura della complessità’ (certo non di quella del ‘pensiero debole’ all’italiota) frequentandone maestri e sperimentando ‘in vivo’ la analisi sistemica di fenomeni e processi inerenti le realtà territoriali per cui progettava nuovi modelli di sviluppo, accettando la sfida del ‘governare sistemi complessi in regime di incertezza’. Considera altrettanto importante per la sua elaborazione avere mantenuto relazioni con persone ed Istituti a scala internazionale, con i quali riflettere sui sentieri dell’innovazione e del cambiamento.
Ho a lungo perso di vista questo amico divenuto, come lui dice, apolide. Convinto che le cose potessero cambiare solo decidendo di mettere le mani ‘in facienda’ (tenendole pulite), ha trascorso una vita tra esperienze da ricercatore, ‘civil servant’ in Istituzioni e manager di Agenzie ed imprese pubbliche in campo ambientale ed energetico, sempre rigettando l’assunto di un ‘pubblico per definizione inefficiente’ (e di un privato per definizione efficiente), ambientalista. In molti dei luoghi dove ha lavorato e vissuto rimane traccia di battaglie di cambiamento, a volte vinte, contro un potere politico ed economico sempre più contaminato dagli effetti di una globalizzazione deregolata e, in Italia, dall’intrusione di una finanza criminale sempre più ricca, stante l’enorme liquidità derivante da traffico di droghe, armi, rifiuti, persone, attività il contrasto alle quali è assente dalle priorità di governo e pare ‘delegato’ ad un manipolo di eroi lasciati soli. Durante quelle battaglie ha subito aggressioni fisiche importanti ed anche ripetuti tentativi di delegittimazione giudiziaria del suo operato: ha ‘visto da vicino’ molto del Sistema Paese, ‘above’ e ‘below the line’ e continua a ripetere, anche a me, che rifarebbe tutto quello che ha fatto, a partire dall’innamorarsi degli ‘stati nascenti’ nella società, nonostante le non poche delusioni. Il rammarico che emerge in lui, quarant’anni dopo, è che alla sua generazione non sia riuscito di consolidare esperienze di applicazione concreta delle proposte ambientaliste di cambiamento. Gli interessi dominanti, nella sua esperienza, hanno contrato, dove possibile anticipatamente, ogni progetto che oggi definiremmo di Transizione Ecologica, ponendo in campo ogni risorsa per distruggere il nuovo che tentasse di uscire dallo “sperimentale” ed entrare in funzione a regime, anche per poter affermare che gli ambientalisti saprebbero solo dire “no” e diffondere ‘Nimby’. Convinto che dagli anni ’70 ad oggi si sia comunque seminato molto, crede che l’inverno che sente dentro non significhi inazione o rassegnazione, ma indice di un seme che germoglia sotto la neve, e ama ricordare come nei suoi cammini verso Cluny non abbia mai mancato la sosta al borgo fortificato di Brancion, i cui signori avevano per motto “Au premier de la mêlée”. Mantiene assoluta adesione all’idea di vita/viaggio come normata da Francis Bacon, per conoscere uomini, luoghi, storie, culture e quindi, per un progetto di Italia sostenibile, crede nel valore centrale della sua straordinaria ricchezza di biodiversità culturale, sociale, economica, naturale. Confortato da importanti studi internazionali, mi ripete che si dovrebbe valorizzare la propensione artigianale dell’italiano a voler vedere unitariamente, non parcellizzato in frammenti tayloristi, il prodotto del suo ingegno, applicandola al nuovo artigianato delle biotecnologie, delle tecnologie dell’informazione, del recupero con innovazione dei “saper fare” tradizionali. Non ha mai condiviso la traslazione dell’ambientalismo al mercato politico e constata preoccupato difficoltà dell’associazionismo di tenuta sul territorio, oltre all’essersi “istituzionalizzato” al centro.
Cresce in lui la convinzione che ci sia bisogno di una nuova stagione dell’ambientalismo scientifico improntata ad una radicalità forte e ad altrettanto forti competenza e progettualità, perché la sfida oggi diviene “come governare sistemi complessi e ad elevato rischio di crisi ambientale in regime di scarsità di tempo”, visto il carattere di irreversibilità assunto da fenomeni globali cruciali. Mi dice che riterrebbe utile traslare, a chi voglia impegnarsi oggi nella valorizzazione dell’ambiente come casa di tutti e della sua qualità come fattore competitivo, idee ed esperienze sin qui maturate. Mi sono deciso a chiedergli di sintetizzare quel che ritiene di avere imparato in decenni d’impegno, ottenendone una sorta di decalogo del Pensare&Agire critico per il Cambiamento/Transizione:
- Studiare,molto, premessa del ‘conoscere per deliberare’ e del ‘fare analisi concreta di situazioni concrete’, affermando il diritto/dovere a non replicare sempre sbagli già commessi da chi è venuto prima di noi.
- Coltivare alterità, in sé e negli altri, rispetto a logiche e modelli imposti dal potere, esercitandosi al pensare critico, a partire dal ‘Dubito, ergo sum’.
- Rifuggire l’idolatria di ‘Mammona’ e il materialismo consumistico, rifiutando il successo economico come unico indicatore del valore della persona e la obbedienza alla ideologia della massimizzazione del profitto per pochissimi a danno di moltissimi.
- Impegnarsi concretamente nel sociale e nell’impresa per il cambiamento verso un altro mondo possibile, più giusto e più bello: ”intendenza politica”, istituzioni e norme seguiranno.
- Coltivare partecipazione informata e responsabile di persone e comunità per fare prevalere interesse generale e valore dei beni comuni rispetto ad ‘animal spirits’, deregolazione, disuguaglianze.
- La battaglia di cambiamento e riforma ‘non è un pranzo di gala’, perché il potere userà ogni mezzo per conservarsi, iniettando disvalori culturali e veleni comportamentali con tecnologie create per isolare, assoggettare e rendere innocuo l’individuo/consumatore: senza scrupoli, userà ogni mezzo, anche militare, per garantirsi il controllo geostrategico di risorse, territori, lavoro schiavizzato.
- L’agire per il cambiamento implica abilità di gestione da ‘guerra di guerriglia’, con incursioni e arretramenti continui che tengano occupati gli Stranamore del potere mentre si lavora a creare e consolidare comunità (persone ed imprese) ispirate a ideali di solidarietà e giustizia: occorre lavorare per alleanze estese, dialogando con tutti per restringere perimetro e sistemi del potere, isolandolo sempre più.
- Generare in persone, comunità e imprese desiderio di partecipazione a disegnare i propri destini, chiamando all’azione proattiva in tal senso i linguaggi dell’arte e promuovendo ogni forma di controllo sociale delle tecnologie, figlie di invenzione ed innovazione oggi purtroppo condizionate dal potere finanziario e militare, non dalla ricerca del bene comune: le tecnologie non vanno né demonizzate, né divinizzate come vorrebbe il potere che ne propaganda un ruolo ‘prometeico’ di soluzione di ogni problema, perchè sono strumenti da governare in modo critico.
- Pensare&Agire critico esigono capacità di creare e formare continuamente ‘squadre’ allenate in campo ad analizzare in logica sistemica le situazioni, pianificare e realizzare programmi di cambiamento, generando cultura critica per progettare e gestire le nuove ‘macchine di governo’ necessarie a mercato ed amministrazione: fondamentale, in queste ‘squadre’, il ruolo delle donne.
- Per evitare che, come quasi sempre dopo le rivoluzioni in un passato anche recente, la vittoria del cambiamento veda uno Stalin che uccide un Trotsky e rigenera il vecchio schema del potere, urge sperimentare nuove pratiche di democrazia, tema oggi terribilmente attuale: la dimensione locale delle comunità, dalle metropolitane alle rurali, è un valore e la leadership del cambiamento deve di essa nutrirsi per un proprio costante rinnovamento a beneficio della Casa Comune e dell’Umanità.
Una volta ottenuto da lui questo ‘precipitato esperienziale’ sul Pensare&Agire critico, mi ha confessato che negli ultimi anni, leggendo con amici e persone con cui è entrato in relazione spesso online la evoluzione degli eventi e la successione di crisi sistemiche interconnesse che concludono l’Antropocene, ha provato la dolorosa sensazione di una sorta di ‘sindrome di Cassandra’. Alcuni degli amici più vicini gli hanno detto di aver capito, a posteriori, quante volte debba avere provato solitudine: ha risposto loro di avere trovato lenimento nel poter seguire Papa Francesco.
Grande Walter…..e’ sempre un piacere leggere qualcosa di tuo , anche perche’ in questa tua ricostruzione c’e’ una piccola parte che mi avvicina a te: nonno Giovanni nella casa di sasso. A presto ……. Un abbraccio