Il palazzo delle vertigini non ha pareti né solai, c’è una scala sospesa nel vuoto e tutto ondeggia sulla voragine nera, quasi un’architettura prodotto di un’allucinazione di Maurits Cornelis Escher. Al risveglio Luisa trattiene nella mente l’immagine del sogno appena attraversato: un sogno assurdo con alcuni particolari inevitabilmente subito svaniti, ma per niente sgradevole. Uno dei Grandi Sogni, l’avrebbe catalogato Carlo Gustav Jung, cioè il presagio di un evento, l’adombrarsi di qualcosa di inspiegabile con gli strumenti banali della realtà, il manifestarsi onirico di una verità incombente. In quella visione notturna, interrotta all’alba dal suono della radiosveglia, c’era l’anticipo di un destino. Certo, il segnale di un cambiamento radicale nella sua esistenza.
Luisa è la protagonista di “Luisa e il silenzio”, il bellissimo romanzo di Claudio Piersanti che, dopo essere stato pubblicato da Feltrinelli nel 1997, si appresta ora a ricomparire – a settembre – nell’edizione Rizzoli. I calendari editoriali spesso sono governati esclusivamente da coincidenze e casualità, gli intrecci cronologici hanno sempre ragioni irragionevoli, insomma non conviene andare a inseguire motivazioni celebrative. Ma recuperare oggi la storia che Piersanti raccontava un quarto di secolo fa, riportare in questi giorni sbandati il profilo della sua Luisa che progressivamente decide di ritrarsi dal mondo e alla maniera di un Bartleby contemporaneo acquista la consapevolezza sempre più lucida di un “avrei preferenza di no”, ripercorrere la trama dei suoi giorni alle prese con la vertigine sulla voragine nera, ecco tutto ciò pare chiedere un legittimo spazio di attenzione: quantomeno per provare a consegnare una particolare interpretazione della scelta della solitudine. Per ribaltare la dimensione costrittiva, penitenziale o punitiva che ha preso ad avvolgerla. “La solitudine nera” dei versi di Paul Eluard: “Non verremo alla meta ad uno ad uno / ma a due a due. Se ci conosceremo / a due a due, noi ci conosceremo / tutti, noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno / della leggenda nera dove un uomo / lacrima in solitudine”.
Ma è davvero così? O meglio: è sempre così? Per Luisa vivere la solitudine acquisisce un significato nella declinazione delle sue giornate. Forse uguali a se stesse, però mai banali e comunque affrontate e condotte con estrema dignità e orgogliosa autosufficienza. Lei ogni mattina va al lavoro nella fabbrica di giocattoli dove è capocontabile, ha una sessantina d’anni, un matrimonio spaiato alle spalle e nonostante il divorzio è serena, equilibrata, affidabile e saggia. Vive in una città del Nord Italia e non se ne lamenta, anzi rivendica la sua postura in un mondo di pupazzetti buffi e di umori inconsulti da cui si difende come può. “Lei ci viveva con qualcuno nel palazzo delle vertigini. Ma con chi?”: il Socrate convocato da Michel de Montaigne risponderebbe alla domanda del narratore spiegando che si era “portata con sé”. Forse è un peso di troppo, ma Luisa non deve aver letto le pagine che nei “Saggi” ha dedicato alla solitudine. Avrebbe ritrovato una sintonia quantomeno emotiva, la stessa tensione a sfuggire alla folla: il “ribrezzo per i contatti umani” che Fausta Garavini vede serpeggiare nelle riflessioni di Montaigne è anche il suo. “Per cui non basta l’essersi allontanati dalla gente, non basta cambiar luogo, bisogna allontanarsi dalle inclinazioni comuni che esistono in noi: bisogna sequestrarsi e isolarsi da se stessi”, precisa colui che per comporre la sua fondamentale opera teoretica aveva perseguito l’eremitaggio.
A Luisa quei rumori notturni inconsulti e volgari le appaiono come l’avanguardia di una catastrofe: “La stupidità avanza, il nulla avanza, l’impero del male!”. C’è un male che si è insediato anche nel suo corpo, i nei che le danno fastidio e prurito fino al sanguinamento costituiscono il segnale di qualcosa che ha cominciato a roderle dentro, l’avvisaglia che il sogno voleva trasmetterle. Quando in azienda commette un errore nel compilare i libri della contabilità, lo sfalsamento puerile di un mese per l’altro in cui mai e poi mai sarebbe caduta, decide di anticipare il pensionamento e di affrontare la prova del silenzio: del rinchiudersi all’esterno, che per altro tanto l’avviliva, e di curvarsi verso di sé. “Si chiede allarmata: una volta ottenuto, questo prezioso silenzio, sarebbe stata meglio? Sarebbe cambiata? Il silenzio che aveva chiesto si ingigantì nella sua mente come un fantasma che prende corpo. Divenne un silenzio profondo. Milioni di chilometri di nulla attorno a lei. Provò a chiedersi come un vero scienziato, cosa mi sta succedendo in questo mare di silenzio? Una risposta dev’esserci! Riuscì a rispondersi soltanto: fa caldo”.
In realtà, nella mente di Luisa deve continuare a insistere il dubbio sorto osservando una volta la sequenza di pupazzi che il suo commendatore aveva irregimentato nella vetrina di cristallo del suo studio. “Se nel giorno del giudizio il signore chiederà al vecchio e ai suoi operai “Che cosa avete fatto della vostra vita?” noi mostreremo il pupazzetto blu”. Però lei che cosa ha fatto della sua vita?
Intanto, mostra di sapersela cavare anche da sola. Anzi: non si fa una pena della solitudine, che l’affascina, non le appare una condanna bensì l’acquisizione di una condizione di inedita consapevolezza, la conquista di un margine di libertà totale. Può fare semplicemente ciò che vuole, chiusa in casa o nella pensioncina al mare, incontra la cugina o Laura o qualcun altro ancora, ma in una tonalità che non va oltre l’occasione. Purché stia lontana dal frastuono volgare. Ammalata e austera nella sua sofferenza, gode di una felice selvatica anarchia esistenziale che l’accompagna alla morte. La troveranno nella sua camera da letto. “Il volto di Luisa era sereno, sprofondato nel riposo”.
Luisa è un personaggio letterario che nella linea narrativa di Claudio Piersanti va ad aggiungersi agli altri a comporre una sorta di catalogo dei solitari per stile di vita. Dopo il romanzo del 1997, c’è l’Antonio Cane de “Appeso” nel 2000, quindi il protagonista de “Il ritorno a casa di Enrico Merz” nel 2006, l’Alberto de “I giorni nudi” nel 2010, il Dario de “La forza di gravità” nel 2018 e – ultimo – il Giovanni di “Quel maledetto Vronskij” nel 2021: a ben vedere, l’assedio dell’impero del Male da cui Luisa si difende potrebbe dotarsi di uno strumento di difesa simile alla ghigliottina che Dario si è costruito in casa o concludersi nell’epilogo sancito dallo sgorbio trionfante del titolo “Un’asino” con l’apostrofo, insopportabile per il tipografo Giovanni. Marchio dei tempi e a voler allargare lo spettro all’intera opera di Piersanti, per cercare di comprendere le modalità che hanno portato il mondo a rovesciarsi su se stesso e implodere nel nulla si potrebbe disegnare un perimetro letterario anche più ampio con quanto risalta nelle raccolte di racconti “L’amore degli adulti” del 1989 e “Gli sguardi cattivi della gente” del 1992. Quasi a definire i confini verticali di un dentro e un fuori, l’interno dell’animo e l’esterno della piazza, quanto avviene nei grovigli della psiche e ciò che agita la massa rumorosa.
Ma qui non si tratta di intercettare una linea tematica e azzardare un profilo di identità narrativa: quello che interessa, invece, è cogliere il senso che Piersanti intende dare alle scelte dei suoi personaggi. Ognuno di loro compie un itinerario diverso, attraversando ambienti ed esperienze di estrema specificità. Tutti sono singoli, unici e per tanti versi irripetibili: non c’è una vita uguale all’altra, per altro. Però tutti sono rappresentati nel momento del ritiro, dell’arretramento dal mondo, della chiusura in una solitudine già avvenuta o in svolgimento: da questo luogo presidiato e conquistato possono guardare alla realtà intercettandone le nervature costitutive, le dinamiche che concorrono a formarla, la sua sostanza autentica.
La solitudine mostra così il suo valore gnoseologico che in una lucida prassi cognitiva consegna una capacità a tratti raggelante di saper giungere alle verità delle cose. Lo sguardo sereno di Luisa si increspa di delusione in Enrico Merz e si fa spietato e tenero in Dario: tutti hanno perso nella loro battaglia con il mondo, ma hanno acquistato la possibilità di scoprirne l’arcano. Di accedere alla stanza del mistero, per scoprire che poi alla fine la stanza è vuota.