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L’istituzione e il desiderio

Autore

Francesco Stoppa
Francesco Stoppa ha lavorato a lungo al Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone, dove ha coordinato il progetto di comunità interservizi “Genius loci”. È analista membro della Scuola di psicoanalisi dei Forum del Campo lacaniano e docente dell'istituto ICLeS per la formazione degli psicoterapeuti.

Riposizionare il desiderio – nel nostro caso quello degli addetti ai lavori – se non dentro perlomeno ai bordi interni delle istituzioni sembra un’impresa che ha del temerario. È sotto gli occhi di tutti come gli oltre 25 anni di aziendalizzazione dei servizi pubblici abbiano avuto un certo peso nella sempre più ingravescente caduta motivazionale degli operatori, la cui professionalità è sistematicamente passata al setaccio di una vera e propria ossessione contabile e di una gestione protocollare delle cure. 

Mutatis mutandis, il primo problema, come sosteneva Basaglia fin dai tempi di Gorizia, è dunque lo stato di alienazione in cui versa il personale. Di conseguenza, la tanto gettonata recovery dei giorni nostri dovrebbe avere per oggetto gli operatori prima dei pazienti, e nello specifico l’équipe in quanto istanza critica, cioè pensante, chiamata a prendersi cura dell’istituzione almeno quanto dei suoi assistiti, a fare di essa un centro di accoglienza della vita e non un dispenser di prestazioni anonime. Si tratterebbe in particolare di una recovery con un taglio kierkegaardiano, una ripresa, un “procedere ricordando” che permette di guardare avanti sapendo di avere alle spalle una storia, con le sue conquiste e i suoi lutti (quanto all’importanza di sapersi parte di una certa storia, è istruttivo – in particolare nei momenti di formazione – constatare come la riscoperta del valore culturale e civile delle pratiche di salute mentale abbia un effetto di rianimazione psichica sui singoli e sul gruppo). 

Il problema è come ridare spazio all’incalcolabile, al non programmabile, a quella complessità  e profondità del fattore umano che è la linfa vitale di un’autentica relazione terapeutica, qualcosa di totalmente estraneo alle facilitazioni e alle lusinghe pseudoscientifiche dell’evidence based: «l’ascolto analitico deve manifestarsi in primo luogo come capacità di percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico, le situazioni che, appena accennate, rischiano di essere subito soffocate, o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate»¹. Detto questo, il desiderio che l’appena citato Elvio Fachinelli auspicava «dissidente»² – espressione per Lacan della «differenza assoluta»³ – non è pensabile possa ancora avvalersi della complicità di una buona legge o di una leadership illuminata. In conseguenza di un simile deficit simbolico, di questo blackout ai piani alti, non ci resta allora che scommettere sul gruppo di lavoro, inteso come l’apparato psichico, l’anima istituente dell’istituzione. I suoi membri dovranno però dare prova, al loro interno, della possibilità di un legame non massificante ma rispettoso delle differenze: una «fraternità discreta»⁴, una sana e a tratti sofferta complicità che trascende gli interessi dei singoli e del gruppo stesso perché votata a un compito di civiltà qual è la cura (è così che il rischio dell’orizzontalità immaginaria tra i suoi membri viene superato da una logica di trasversalità sottesa al loro legame). Tutto questo richiede a ciascuno di essi di «entrare nel rischio»⁵, di mettere in discussioni ruoli e privilegi, di fare il lutto dei propri fantasmi, si tratti di onnipotenza o impotenza. 

C’è da dire che, rispetto a un tempo, tutto appare oggi più incerto e difficile; ci si sente orfani di figure carismatiche e di utopie finite in soffitta, più soli di allora e per di più afflitti dal sentimento di sconfitta che segue a una restaurazione o forse all’impercettibile instaurarsi di un potere impalpabile e sottilmente pervasivo. Eppure, è proprio nei momenti più bui e avvilenti, quando i miti di un tempo appaiono offuscati e sembra di non poter far altro che assistere impotenti all’umiliazione di ogni spinta vitale, che può far breccia la vera natura del desiderio. Nella sua accezione più radicale, de-siderare non significa infatti lasciarsi guidare dalle costellazioni celesti, ma mettersi in cammino nelle notti senza stelle⁶.

D’altronde nell’incontro con la marginalità e il dolore dell’altro capita di ritrovarsi decentrati, destituiti. Non esiste recovery, possibilità di rilancio, che non riservi periodici naufragi, ai pazienti almeno quanto ai curanti. Ma chiediamocelo, è possibile scansare l’angoscia in un lavoro come il nostro? L’angoscia come l’inquietudine sono gli antecedenti del desiderio, quel moto interiore, scrive Freud, che apre nuove vie, nuovi possibili inizi capaci di spezzare l’impianto omeostatico e autoreferenziale dell’io o dei nostri apparati di potere per tenerci al passo con la vita che, come si sa, pone domande più che offrirci risposte. «Scavare l’insoddisfazione»⁷ – l’insoddisfazione che per Freud accomuna i tre mestieri impossibili: curare, educare, governare – è un esercizio a cui non dovremmo allora sottrarci. Far maturare insieme, in équipe, le nostre domande accresce la professionalità di tutti, spinge a interrogare criticamente i presupposti teorici, clinici, etici delle pratiche di cura, senza dare più nulla di scontato.

Per chi lavora nelle istituzioni, questa congenita dissidenza del desiderio non va senza un’assunzione di responsabilità e un prezzo da pagare, quello «della disillusione, della rinuncia al feticcio. Quando questo doloroso lavoro non avviene, l’istituzione viene attaccata o è lei ad attaccare i suoi soggetti o il proprio compito»⁸. L’illusione feticistica è la credenza acritica in una tecnocrazia dei saperi e in una modellistica istituzionale in grado di assicurare un funzionamento non contaminato da quello scarto di lavorazione che è il fattore umano: la clinica freudiana, sotto transfert, è da questo punto di vista rea di essere ancora anacronisticamente esposta alle incognite insite nelle relazioni e agli inevitabili cambiamenti imposti dal loro dinamismo. 

Che si tratti della relazione col paziente o di quella interna all’équipe, il pensiero istituente «vede la soggettività scaturire dalla sua stessa prassi […] Il soggetto – scrive Roberto Esposito – si istituisce esso stesso trasformandosi rispetto al suo iniziale modo di essere»⁹. Bisogna in altre parole lavorare lungo le linee di tensione esistenti, muovendosi «a un livello tale da riuscire a mantenere e sostenere il conflitto costante»¹⁰. È a partire dalla vivacità del dibattito interno al gruppo dei curanti che diviene dunque praticabile l’ipotesi di un’istituzione non statica ma in perenne evoluzione, più simile a un’unità di crisi o a un cantiere aperto piuttosto che a un dispensario di risposte preconfezionate. Quanto all’équipe, essa dovrebbe affinare la capacità di ascolto del disagio della modernità rimodellando le forme e i confini del proprio servizio secondo una geometria in divenire, se è vero che a decidere del gradiente di umanità di un’istituzione è quel qualcosa che ogni singolo caso le avrà portato in dote, ciò che di nuovo e al contempo di antico l’ascolto del dolore avrà insegnato a tutti gli attori in gioco.  

In questa salutare sospensione del potere e del sapere dei tecnici, in questo mettere in cattedra la malattia e la marginalità affinché esse parlino alla città, è possibile intravedere la cifra di desiderio degli addetti ai lavori; il tocco umano di ciascun operatore e lo stile di lavoro di un collettivo. 

¹ E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 22.

² E. Fachinelli, “Il desiderio dissidente”, in Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.

³ J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1979, p. 280.

⁴ J. Lacan, “L’aggressività in psicoanalisi”, in Scritti. Vol I, Einaudi, Torino 1974, p. 118.

⁵ F. Basaglia, La «Comunità Terapeutica» come base di un servizio psichiatrico, in Scritti, vol I, Einaudi, Torino 1981, p. 271.

⁶ Cfr. F. Stoppa, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza, Feltrinelli, Milano 2021.

⁷ E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 15.

⁸ R. Kaës, “Realtà psichica e sofferenza nelle istituzioni”, in AA.VV., L’istituzione e le istituzioni, Borla, Roma 1991, p. 57.

⁹ R. Esposito, Istituzione, il Mulino, Bologna 2021, p. 56.

¹⁰ F. Basaglia, “Potere e istituzionalizzazione. Dalla vita istituzionale alla vita di comunità”, in Scritti, vol I, cit., p. 290.

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