Dialogo con Aghate Wakunga, farmacista e attivista sociale.
Aghate, dietro ogni progetto migratorio c’è un senso forte di desiderare qualcosa che nel proprio paese non si trova. Di che desiderio parliamo nel suo caso e che cosa ha significato per lei?
Per me il desiderio è avere qualcosa che manca. È desiderare di avere qualcosa in più che oggi non ho. Io sono del Congo e per noi “desiderio” non è una parola che pronunciamo: non puoi dire di desiderare qualcosa perché devi sapere che ciò che hai è già abbastanza. Siamo stati educati a non poterci permettere il lusso di desiderare qualcosa in più. Questo non significa non desiderare, o non volerlo fare, semplicemente non lo si dice a nessuno perché, diversamente, sembra di voler dichiarare che ciò che possiedi non è abbastanza, non ti basta. Quindi la parola desiderio esiste, è vissuta, ma non è pronunciata. Se ad esempio vivi con la tua famiglia d’origine e desideri a un certo punto andare a vivere da sola, in autonomia, rischi che i tuoi parenti ti dicano: ma noi non ti bastiamo?
Figuriamoci, allora, quando a genitori e parenti ha dovuto dire: vi lascio, parto per l’Italia…
Esatto. Tuttavia il mio caso è un po’ diverso. Io nasco con la drepanocitosi, una malattia genetica che richiede una vita complicata con continue trasfusioni. Mio padre, che è medico, aveva il desiderio di offrirmi cure migliori e la speranza di un futuro. Fortunatamente lui aveva contatti con alcuni medici italiani ed è riuscito a portarmi dal Congo a Treviso. Arrivo quindi in Italia nel 2001, con il desiderio di studiare ma, soprattutto, con la speranza di potermi curare meglio di quanto potevo fare nel mio paese. sono stata fortunata, ho potuto studiare, sono diventata farmacista e lavoro, un lavoro che ho voluto e per cui mi sono tanto impegnata nonostante le difficoltà e le limitazioni dovuta alla malattia. Non solo. Sono moglie e madre. Posso quindi dire che il desiderio di mio padre si è trasformato in una vita certamente migliore di quella che avrei avuto in Congo. Per questo ho fondato un’associazione che si occupa di informare e sensibilizzare le persone sull’esistenza di questa patologia, di indicare le vie per curarsi e di lottare per il diritto di ognuno a ricevere cure idonee nel proprio paese.
L’immigrazione è un fenomeno che riguarda tutti. E lo sarà ancora di più a causa dei cambiamenti climatici che costringeranno molti a lasciare il proprio paese che sarà diventato invivibile anche per colpa di un sistema economico ingiusto. Ecco perché penso che tutti dovremmo farcene carico, che chi lascia il proprio paese è parte di un processo mondiale che rinvia a una responsabilità politica collettiva e non un ingranaggio di un meccanismo burocratico che non ha cuore per battere difronte all’indifferenza. In questo senso, come è stato il suo impatto con l’Italia?
L’integrazione non è stata tanto difficile, ma la cosa che ho notato, trovandomi in un contesto in cui tutti sono bianchi e io, invece, nera, è che mi sentivo come un punto nero su un foglio bianco, come d’altra parte accade in Congo quando il bianco è il musungu della situazione. Si vive una difficoltà nel vedere l’altro diverso da te, nella sua cultura e nel modo di fare. Ma questo evidenzia anche a te la tua diversità, perché certi modi di pensare e di agire sono distantissimi dalla mia cultura. Però, poi, pensi che il luogo nel quale sei giunta è il mondo nel quale devi vivere e perciò ti dai da fare nell’imparare la lingua, imparare come rapportarsi con l’altro. Nonostante questo mio impegno, dall’altra parte, ho avvertito spesso un muro di indifferenza, di non ascolto e di una conoscenza solo superficiale. Ecco, non sono mai riuscita ad accettare l’indifferenza che per me assomiglia a un semplice tollerare la diversità, lasciandoti vivere la tua vita ma senza costruire relazioni, senza un vero incontro con l’altro; ci sono sorrisi di circostanza ma a prevalere è un distacco che sta lì, sempre, a ricordarti: “ viviti la tua vita, ma non mi avvicinare, non mi riempire delle tue storie”. Si, ho trovato molto individualismo, un fatto molto difficile per chi, come me, viene da un paese dove per famiglia si intende tutto ciò che hai attorno, parenti, vicinato, amici; per questo abbiamo tribù che diventano grandi. Invece dove vivo ora la famiglia è composta da papà, mamma, figli ed è definita “la mia famiglia”.
In occidente il senso di proprietà è entrato anche nelle relazioni, distorcendo anche la realtà e producendo profonde ferite. Tanti anni fa, ad esempio, eravamo abituati a trattare i bambini come fossero figli di tutti e quindi la cura del loro benessere era un impegno collettivo di tutti visto che da loro passava il futuro della società. Nel suo paese la personalizzazione e privatizzazione di affetti è un qualcosa di sconosciuto fortunatamente…
Sono nata imparando a considerare l’altro come fosse un mio famigliare e come tale lo accolgo anche se si tratta di una persona individualista. Io ad esempio, saluto anche chi non mi saluta, e lo faccio con una gran gioia perché lo sento così, lo sento vicino. E così le persone cominciano a rendersi conto della tua personalità e nel tempo le cose cambiano e ti riconoscono per come sei, senza dover fare compromessi al ribasso. Alla fine posso dire che il segreto della mia “integrazione” sta proprio lì, nel non aver avuto paura dell’individualismo che ho incontrato ma di averlo affrontato vivendo i sentimenti che produceva dentro di me restando fedele alla mia cultura.
Un ottimo esempio di cosa dovrebbe essere l’immigrazione, la somma positiva delle differenze che produce ricchezza collettiva.
Il suo progetto migratorio è un po’ diverso da quello che spesso i media raccontano.
Nel suo caso partiamo da un’urgenza di cure sanitarie. Tuttavia ci sono degli aspetti comuni visto che la motivazione di fondo è sempre legata al desiderio di realizzare una vita migliore. Ho profonda ammirazione e rispetto per chi decide di lasciare la il proprio paese per condizione, perché credo fortemente che ognuno abbia il diritto di vivere una vita dignitosa nel paese in cui nasce. Essere costretti a farlo, separandosi dalla propria terra, dai propri affetti, dalle proprie relazioni è difficile, doloroso e ingiusto così come è duro confrontarsi con altri gusti, sapori, culture, riferimenti anche geografici e ambientali. Ecco, una volta risolti i problemi materiali, quale desiderio rimane? Cosa immagina di realizzare?
Trovarsi a dover lasciare il proprio paese perché ti devi curare è dura, io mi sono trovata ad essere padre e madre di me stessa, quando ho lasciato il Congo per l’Italia. I parenti erano così lontano che non potevo chiedere loro le risorse per sostenermi, ed io avevo appena finito le scuole superiori. Avevo 20 anni, e mi trovo in un altro paese per farmi curare: una buona notizia ma come fai a mangiare e a pagare l’affitto? Posso dire di avercela fatta, nonostante tutti gli alti e bassi. Oggi ho aperto un’associazione perchè le cure che io ho ricevuto in Italia siano possibili anche nel mio paese, accessibili a tutti. Ad oggi, nella mia terra, non ci sono donatori di sangue e questa è una patologia sangue-dipendente che necessita di due sacche al mese. Il mio desiderio è avere in Congo dei centri di donazione per far fronte a questa patologia. Altrimenti devi avere sempre con te un familiare che dona il sangue, una dipendenza impossibile da sostenere. Ci sono persone che possono donare e questo voglio chiedere al mio popolo. Non tutti hanno avuto la mia fortuna; la nostra popolazione si definisce ricca sul piano culturale e della condivisione, eppure c’è questo blocco, non si condivide il cambio del sangue per ragioni di povertà: si preferirebbe vendere quel sangue e con i soldi ricavati mantenere la famiglia. Eppure in questo gesto della donazione c’è la possibilità di essere appagati, perchè lo si è fatto gratuitamente dando la possibilità di vivere ad altri. Il mio grande desiderio è creare un centro trasfusionale nella mia città. Attraverso un’azione di sensibilizzazione nelle università sto facendo conoscere questa patologia che è anche difficile pronunciare. Con l’Associazione USHINDI¹ da me fondata, sebbene sia ancora giovane facciamo tanto rumore: sono con l’Avis tutte le domeniche e riesco ad andare nelle scuole per condividere questo argomento e desiderio con i ragazzi. Sto lavorando con mio padre e altri amici per rendere possibili le cure anche in Congo; vorrei restituire una parte della “fortuna” che ho avuto nel riuscire a curarmi, impegnandomi affinché anche altri possano farlo. Questo oggi è il mio desiderio.
Aghate, lei è una donna molto attiva e impegnata. Che ruolo ha la donna all’interno del suo Paese?
Ho parlato recentemente con mia sorella proprio di questo argomento, visto che io manco dal mio Paese da più di vent’anni mentre lei vive ancora là. Molti non lo sanno, ma il Congo è un paese cristiano cattolico ma, nonostante ciò, abbiamo ancora molto da fare sul terreno della parità tra uomo e donna. Certamente sono stati fatti molti passi in avanti. Oggi, ad esempio, abbiamo alcuni Ministri donne. Tuttavia, anche se le donne hanno guadagnato terreno in termini di parità, i compiti di cura della famiglia restano ancora a carico delle donne perché la cultura, che si trascina da secoli, prevede che sia la donna a dover servire e preoccuparsi dell’uomo.
Beh, non mi sembra ci siano molte differenze con la nostra cultura…
Si, è così, a dimostrazione che è una questione culturale globale, con alcuni paesi più avanti e altri che hanno ancora molto da recuperare. Perché anche da noi, la donna può pure essere Ministro o dirigente ma tra le mura domestiche la responsabilità della casa e della famiglia è sua e solo sua così come le attenzioni e le reverenze che l’uomo si aspetta. Sono convinta che, ovunque nel mondo, se i compiti famigliari fossero equamente divisi ne gioverebbe tutta la società e le generazioni future. Ma questo è un passaggio che richiede tempo e un grande lavoro educativo. Abbiamo anche noi alcune associazioni che si impegnano per la parità dei diritti, il percorso è ancora lungo ma i tempi stanno cambiando.
¹ L’Associazione USHINDI nasce per dare aiuto a tutti quelli che soffrono della drepanocitosi. Ovunque siano. Questa patologia fa soffrire enormemente e il fatto di riuscire a convivere con una tale sofferenza rende vittoriosi tutti quelli che ne sono affetti.
Per maggiori informazioni segui la pagina Facebook “Ushindi Sickel Cell Victory” o scrivi a a.wakunga@gmail.com