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Il corpo anarchico nel tritacarne del desiderio

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

1. Rizoma, CsO e Macchine desideranti

Ne L’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari conducono un’aspra polemica nei confronti della psicologia freudiana, accusata di contribuire alla repressione dei desideri inconsci con lo scopo della normalizzazione sociale. Il desiderio, da parte loro, sarebbe piuttosto da comprendere come positività, e gli individui come “macchine desideranti”, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Criticando aspramente quella tradizione di pensiero che da Platone, passando per Cartesio, porta a Freud e che si caratterizza per uno spiccato dualismo tra materia e spirito, Deleuze e Guattari ne propongono un superamento in una visione che concepisca il reale come una molteplicità di piani rispetto a cui non si può far valere la distinzione tra materia e spirito, e meno che mai il ricorso al soggetto come polo ultimo di riferimento. In generale, Deleuze e Guattari rigettano ogni tipo di dualismo, considerato come un modello interpretativo che tradisce la molteplicità del reale in nome di una logica binaria che tutto piega a sé secondo un orientamento gerarchico. La realtà, sembrano dirci, è un chiaroscuro che non può – e non deve – essere ridotta all’opposizione “bianco o nero”. Il modello dicotomico, in quanto prevede una gerarchia, un centro, un ordine di significazione, sottostà alla legge dell’identità: «Uno diventa due: ogni volta che incontriamo questa formula, pur enunciata strategicamente da Mao o intesa il più “dialetticamente” possibile, ci troviamo di fronte al pensiero più classico e riflesso, più vecchio e stanco. […] Si può tranquillamente dire che questo pensiero non ha mai compreso la molteplicità: ha bisogno di presupporre una forte unità principale per arrivare a due». Immagine-simbolo di questo modello semantico è, secondo i due autori, l’albero-radice: la struttura arborescente, infatti, cresce dal basso verso l’alto, attraverso un tronco che sostiene le ramificazioni, in conformità a un orientamento gerarchico che stabilisce punti e modalità delle connessioni fra le diverse componenti.

Per superare la verticalità del modello arborescente, a cui i due autori assegnano intrinseca valenza repressiva, occorre affidarsi a un’altra concezione del pensiero: il rizoma, che cresce orizzontalmente e ha struttura diffusiva, reticolare – per cui «qualsiasi punto di un rizoma può essere connesso a qualsiasi altro e deve esserlo. È molto differente dall’albero o dalla radice che fissano un punto, un ordine». Non sorprende, allora, che il procedere del rizoma venga preso come modello di un pensiero che sappia “fare” il molteplice – poiché il molteplice non è soltanto da pensare, ma anche da fare –, non manifestando «alcun rapporto con l’Uno come soggetto o oggetto, come realtà naturale o spirituale […]. Le molteplicità sono rizomatiche ed evidenziano la loro distanza dalle pseudo-molteplicità arborescenti»: sviluppandosi secondo configurazioni decentrate, in cui ogni parte può essere connessa a un’altra, il pensiero rizomorfo rompe definitivamente con l’ordine e la gerarchia del pensiero arborescente: «L’albero o la radice ispirano un’immagine triste del pensiero che imita il molteplice a partire da un’unità superiore, di centro o di segmento».

Il pensiero rizomorfo, rifiutando ogni tipo di unità, stabilità e organicità, trova la sua effettiva realizzazione in quello che i due autori chiamano “Corpo senza Organi” (CsO). Si tratta di un corpo che ha dichiarato guerra «all’organismo, all’organizzazione organica degli organi […] che gli impone forme, funzioni, collegamenti, organizzazioni dominanti e gerarchizzate, trascendenze organizzate per esternare lavoro utile». La pratica del “divenire-CsO” parte dalla constatazione della difficoltà di raggiungere il «mondo dell’Anarchia incoronata» se si resta prigionieri dell’organismo, del sistema organizzato che blocca i flussi perseguitandoli e ordinandoli: bisogna, allora, strappare il corpo all’organismo. «Il CsO urla: “Mi hanno fatto un organismo! Mi hanno piegato senza averne il diritto! Hanno rubato il mio corpo!”».

Una volta rifiutato ogni riferimento all’ente o al soggetto, ciò che resta è costituito da «connessioni di desideri, congiunzione di flussi, continuum d’intensità», pure energie indifferenziate che attraversano un Corpo senza Organi. Il CsO non è altro, così, che la superficie di registrazione o di iscrizione dei flussi di desiderio, l’enorme oggetto non differenziato, amorfo, catatonico, improduttivo, su cui si inscrivono i flussi di desiderio e le loro interruzioni, e che contemporaneamente respinge tali flussi e se ne appropria. La pratica del “divenire-CsO” si configura allora come desiderio, «è lui ed è per lui che si desidera».

L’immagine che il linguaggio costantemente allusivo e metamorfico (che passa dal vocabolario della botanica a quello della poesia, dalla terminologia matematica a quella della linguistica) dei due autori restituisce è quella di uno spazio immateriale dove si assiste a scambi dinamici di energie spersonalizzate, anarchiche e irrequiete. Nulla a che vedere con la stabilità di un soggetto: solo «macchine desideranti». La macchina è opposta alla struttura, nella misura in cui rimanda alla contingenza della connessione, in un determinato punto, fra elementi eterogenei: alla stabilità e continuità della struttura si contrappone l’accadere, come incontro di parti, della macchina, estranea all’impostazione gerarchica della struttura.

2. Il desiderio come processo di produzione

Rispetto a una consolidata tradizione filosofica che definisce il desiderio in relazione a un’assenza, una mancanza da colmare o a un bisogno da appagare, Deleuze e Guattari prendono nettamente le distanze rivendicando l’indipendenza del desiderio dalla mancanza e dal piacere in virtù del suo carattere intrinsecamente affermativo. L’errore cruciale, secondo i due autori, è stato commesso nel porre il desiderio dalla parte dell’acquisizione anziché presentarlo come produzione – imprudenza che sta alla base di quella «concezione idealistica (dialettica, nichilista)» del desiderio che ha attraversato tutta la storia del pensiero. Al contrario, «il desiderio si definisce come processo di produzione, senza riferimento a qualsiasi istanza esterna, mancanza che verrebbe a scavarlo, piacere che verrebbe a colmarlo».

A tal proposito, merita senza dubbio un accenno l’immagine della triplice maledizione sul desiderio lanciata dal prete, metafora di come il potere e tutte le istituzioni biopolitiche, dalla religione alla psicanalisi, impongano dei limiti al desiderio, tentando di addomesticarlo: «Ogni volta che il desiderio è tradito, maledetto, strappato dal suo campo di immanenza, c’è un prete di mezzo. Il prete ha lanciato la triplice maledizione sul desiderio: quella della legge negativa, quella della regola estrinseca, quella dell’ideale trascendentale». La maledizione della legge negativa consiste nell’aver fissato alla base del desiderio la mancanza: «Desiderio è mancanza (come non potrebbe mancare di ciò che desidera?)». Successivamente, il prete ha ricondotto il desiderio al piacere, da ricercare in un oggetto esterno che, una volta raggiunto, può far tacere il desiderio scaricandolo della sua forza. Dopodiché viene scagliata la terza maledizione: quella dell’ideale trascendentale, secondo la quale l’appagamento totale del desiderio è impossibile, poiché «l’impossibile godimento è iscritto nel desiderio» – dunque l’oggetto verso cui è diretto il desiderio e che può placarlo non è da ricercare in questa vita, che è intrinsecamente «mancanza-di-godere».

Ciò che i due autori denunciano è un vero e proprio meccanismo di disciplina del desiderio e del suo carattere produttivo. Complice di questo tradimento è la psicanalisi freudiana: «La più recente figura del prete è lo psicoanalista». Nella loro ottica, Edipo è il simbolo del potere che, dopo aver scoperto la potenza del desiderio inconscio, ha volutamente ridimensionato la portata rivoluzionaria di questa scoperta: la psicanalisi freudiana viene letta come una tecnica di irregimentazione e castrazione del desiderio, che concepisce l’inconscio in termini di messa in scena di una trama familiaristica ripiegata su se stessa e privata del suo carattere sociale. All’inconscio della psicanalisi, teatro della rappresentazione familiare, Deleuze e Guattari oppongono un inconscio visto come fabbrica di produzione, i cui contenuti non si possono considerare al di fuori dell’universo sociale in cui emergono: evidente appare in proposito il rapporto che i due autori instaurano tra condizioni sociali e inconscio, per cui la politica si caratterizza come una condizione di produzione dell’inconscio. La sfera personale, della vita privata, si inscrive interamente in un ordine pubblico, storico e culturale. Questa è la ragione per cui sognando, delirando o producendo fantasmi sulla propria famiglia, si sogna, si delira o si producono fantasmi in realtà sull’ordine culturale, sull’ordine cosmico a cui la famiglia corrisponde come metafora: l’ordine del focolare corrisponde all’ordine storico del mondo umano in un determinato momento del divenire umano di una civiltà.

All’inautenticità e alla repressione del desiderio, Deleuze e Guattari contrappongono due modelli, il masochismo e l’amore cortese, il cui tratto distintivo è la ricerca del desiderio sganciato dalla logica dell’appagamento. I flussi di desiderio sono completamente immanenti, consistenti e indipendenti dalla mancanza e dal piacere. È il piacere di desiderare, un flusso straripante, positivo, immanente, totalmente libero e anarchico, senza principio né fine, non generato dalla mancanza né finalizzato al piacere: «Se il desiderio non ha il piacere come norma, non è per una mancanza che sarebbe impossibile da colmare, ma al contrario in ragione della sua positività».

            3. La libera circolazione dei flussi di desiderio

A lungo le passioni sono state condannate come fattori di turbamento o di disordine che offuscano il giudizio e annebbiano l’esercizio ordinario della ragione. Dal momento che il sentimento dominante si presenta come motivante all’azione, nasce un’esigenza primaria di codificare e regolamentare le passioni attraverso codici morali. Diverse strategie sono state così elaborate per estirparle, temperarle o addomesticarle. Ma, mentre dal punto di vista dell’individuo si mira all’autocontrollo per rendere lucida l’intelligenza, costante il volere, robusto il carattere, dal punto di vista della società si tende piuttosto a forgiare, per loro tramite, strumenti di dominio. Emerge qui il nesso tra le dinamiche desideranti e quelle del potere, che si serve dell’etica come istituzione normativa per autoalimentarsi. L’impresa epica attraverso la quale il principio della forma (ragione, volontà di Dio, o altro ancora) sottomette le forze scatenate delle passioni e le incanala verso il proprio fine buono è esplicitamente o implicitamente sottesa a molte, anche se non a tutte, le dottrine morali. In quest’ottica, assistiamo a una trasformazione netta nel mondo contemporaneo: se le macchine sociali pre-capitalistiche hanno la funzione di codificare i flussi di desiderio mediante i sistemi della crudeltà, prima, e del terrore poi, il capitalismo istituisce un sistema di circolazione libera e deterritorializzata dei flussi energetici. Ciò si manifesta nella sostituzione dell’assiomatica ai codici intrinseci compiuta dal capitalismo, per cui i desideri non prendono forma in rapporti specifici né in campi rigidamente determinati.

Il capitalismo annulla tutti i sistemi di codificazione e inaugura un sistema di circolazione libera e deterritorializzata dei flussi di desiderio. In altri termini, i flussi di desiderio circolano privi di impedimenti e in modo indifferenziato, senza codificazione, liberati dai limiti delle precedenti territorialità feudali, corporative o claniche, ma soltanto in funzione della loro congiunzione nel corpo impersonale del Capitale. Tuttavia, la libertà è soltanto apparente: il sistema è in grado di regolare con cinismo qualunque flusso di desiderio. L’apparente massima libertà di circolazione, a ben vedere, impone in modo più subdolo catene ancora più forti.

La strada per l’emancipazione, nella prospettiva di Deleuze e Guattari, equivale alla ricerca di una via di decostruzione del sistema: «Si tratta di individuare la possibilità di flussi energetici che sfuggano al potere dell’assiomatica capitalistica». Questa viene individuata nel processo schizofrenico, laddove l’aggettivo “schizofrenico” è chiamato a esprimere «il carattere intrinsecamente turbolento, acentrico e multidirezionale del desiderio». La schizofrenia, da un simile punto di vista, appare la patologia che meglio esprime «lo strato barbaro del desiderio». Il divenire-schizo – da non fraintendere con un generico elogio dell’infermità mentale – rappresenta un’opposizione reale nella misura in cui è in grado di porsi come esterno al sistema, respingendone la tendenza assiomatizzante. La passeggiata dello schizofrenico è l’azione sovversiva di contro alla passività del malato nevrotico steso sul lettino e in balia del potere soggiogante dello psicoanalista.

4. Il capitalismo libidinale e l’urgenza di un desiderio alternativo

La spinta da parte di Deleuze e Guattari va nella direzione dell’abbattimento di qualunque tipo di disciplina e canalizzazione, invocando una liberazione totale da qualsiasi tipo di forma e limiti. Tale ambizione rivoluzionario-dionisiaca è ben comprensibile se collocata all’interno del fermento culturale di fine anni Sessanta, in cui forte era l’esigenza di scardinare qualsiasi tipo di dogmatismo proveniente dal passatismo culturale. Tuttavia, è indispensabile indagare la sua legittimità e applicabilità alla luce della piega che il capitalismo ha preso negli ultimi cinquant’anni.

L’impulso della protesta degli anni Sessanta presupponeva un “Padre maligno”, alfiere di un principio di realtà che si supponeva negasse in modo crudele e arbitrario il “diritto” al godimento assoluto, mentre godeva di accesso illimitato alle risorse appropriandosene in maniera egoistica e irragionevole. Eppure, fino a oggi, il desiderio anarchico e spersonalizzato pare piuttosto esser diventato funzionale al capitalismo stesso. L’immaginario dell’Anti-Edipo, con il suo elogio incondizionato del carattere sovversivo del desiderio contro ogni autorità, ha finito paradossalmente per esaltare l’affermazione dell’edonismo estremo, assecondando i flussi di denaro e di godimento e alimentando la macchina impazzita del mercato. Come scrive Recalcati, riferendosi a Lacan: «Il mito del corpo schizo come corpo anarchico, a pezzi, pieno, senza organi, costruito come una macchina pulsionale che gode ovunque, antagonista alla gerarchia dell’Edipo, si è tradotto nei flussi della macchina cinica e perversa del discorso del capitalista».

Lo stesso processo schizofrenico auspicato da Deleuze e Guattari diventa uno strumento di autoalimentazione del capitalismo. L’emancipazione del desiderio, che nella società moralista e conservatrice del Sessantotto doveva sembrare l’atto più sovversivo che si potesse compiere, ha paradossalmente generato più domanda, promuovendo inconsapevolmente la macchina del mercato: l’antropologia di Deleuze e Guattari, che considera l’uomo come flusso di desideri, è esattamente quella che regge il capitalismo realizzato. La richiesta formulata dai giovani del Sessantotto non è rimasta inascoltata, ma invece di ricevere una risposta politica è il mercato che si è premurato di soddisfarla: il “Godete senza limiti”, come recitava una scritta che nel maggio del 1968 comparve sui muri di Parigi, è diventata, poco più tardi, l’unica regola del capitalismo realizzato.

La battaglia contro il neoliberismo richiederà pertanto la costruzione di un modello alternativo di desiderio, in grado di competere con quello imposto dai manipolatori libidici del capitale. Il tema di un nuovo modello di desiderio emerge anche dalla crescente urgenza con la quale dobbiamo confrontarci col disastro ambientale. A questa nuova forma del desiderio spingono motivi libidinali oltre che pratici: la licenza senza limiti sembra condurre più all’infelicità e alla disaffezione che all’emancipazione, ed è anzi probabile che siano proprio le limitazioni che vengono poste al desiderio a stimolare (anziché attenuare) il desiderio stesso.

Come ha ricordato Mark Fisher: «Rivendicare un’azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio». Il che significa non soltanto accettare il nostro apporto a livello di desiderio allo “spietato tritacarne del capitale”, ma anche alzare la posta – libidica, personale, materiale – del significato dell’azione.

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