“Le galere sono muri e sbarre, il resto ce lo mettono gli uomini che ci stanno dentro”
V. Morucci¹
Esistono tre mestieri impossibili, ci ricorda Freud, educare, governare e curare. Mestieri che incontrano le deviazioni della vita e le sue impreviste declinazioni: nella crescita, nella convivenza-coabitazione, infine nella sofferenza e nel sintomo. Esiste una forma di creatività nel sintomo in quanto singolare espressione dell’unicità del soggetto, il quale soffre e si confronta con un ostacolo, un limite, una negazione di sé. Sintomo come compromesso tra desiderio e limite, tra aspirazione e inospitalità del mondo. Il sintomo è quindi un esempio di espressività, di una soggettività che cerca forma, cerca voce, cerca corpo, cerca casa.
In questo senso interrogare il sintomo nell’esperienza clinica in un luogo sensibile come il carcere mette in evidenza in modo drammatico il limite, la costrizione, la non libertà. Interrogare il sintomo in carcere è quindi un confronto incessante con un desiderio impossibile.
Partiamo dal vincolo istituzionale.
Le galere sono luoghi che ‘non vediamo’, un tempo al centro delle città oggi si osservano distrattamente alle periferie, da lontano, percorrendo, come nel caso della mia città, la tangenziale che vi passa accanto. Sono “isole grigie” che distrattamente guardiamo senza vederle veramente. Isole in quanto separate dal tessuto collettivo della città, isole che esprimono una alterità non inclusa nelle dinamiche della città; grigie perché si tratta di ‘scatole’ di cemento anonime, anomiche; grigie per la similitudine con la definizione di “zona grigia” data da Primo Levi ne I sommersi e i salvati².
La “zona grigia” e le “isole grigie” hanno in comune il tentativo (in)efficace di separare due campi, la città dalla prigione, nel caso del Lager i carnefici dalle vittime; sono, in entrambi i casi, due campi indissolubilmente congiunti in quanto per esistere necessitano l’uno dell’altro; inoltre al loro interno “abitano” complessità, ambiguità e, nel caso del carcere, tentano di coniugare il bisogno repressivo con quello rieducativo, ma finiscono spesso con il (con)fondersi.
La descrizione delle “istituzioni totali” raccolta da Goffman nel suo testo³ individua come concetto chiave la loro separatezza e impenetrabilità rispetto al contesto sociale e collettivo. Tutto questo appare quanto meno “paradossale” oggi dove tutto è alla portata di tutti: basta un computer, una connessione internet, una televisione, una radio. Eppure ancora oggi del carcere sappiamo così poco. Le interazioni, le relazioni (umane), le dinamiche, le leggi (interne). Dentro alle mura esiste una “comunità dei detenuti”, così come una comunità degli agenti, una comunità degli operatori e dei clinici. Comunità dove si opera una “negoziazione continua” tra le pratiche organizzative e quelle relazionali, tra l’intenzione disumanizzante dei regolamenti e della burocrazia e il corpo degli attori coinvolti. Il film Ariaferma di Leonardo di Costanzo mette al centro proprio questo gioco di azioni e corpi dentro la comunità carcere.
Il lavoro clinico all’interno del carcere vive ciò che si può definire un doppio vincolo istituzionale⁴, alcuni dei quali interrogano profondamente il dispositivo di cura. Ne propongo alcuni.
“La salute è un bene secondario”: sappiamo quanta sofferenza fisica e psichica esiste dentro le mura del carcere. I detenuti sono portatori di una soggettività e di una individualità che rischia di essere banalizzata e rimossa, come il “corpo” (spesso palestrato e tatuato) paradossalmente ignorato e maltrattato. Oggi “più sei malato, in carcere, più hai la possibilità di uscire”, di essere curato “fuori” dall’istituzione carceraria. Quindi la “non guaribilità” è di per sé già un obiettivo auspicabile per il paziente-detenuto. Quale cura quindi dentro l’istituzione carceraria? Dobbiamo cercare di “curare” i pazienti detenuti dentro l’istituzione, entrando in conflitto con il paziente, con l’istituzione, che li vuole tenere “dentro”, con noi stessi perché cercare di curare vuol dire far meglio sopportare la galera?
“La galera deve far soffrire”: la storia delle prigioni è una storia relativamente breve. Foucault ce lo ha spiegato: la punizione inflitta al colpevole, al reo, è stata per secoli una pena agita nel teatro pubblico delle piazze dove avvenivano i supplizi e le torture “legali”, sotto gli occhi del popolo; si trattava di omicidi e sofferenze “esemplari”. In epoca moderna il supplizio è cessato o forse si è celato, nascosto nelle prigioni costruite a difesa appunto dagli sguardi indiscreti. La pena si è trasformata in pena psichica, in sofferenza privata; la legge, la legalità della pena si è alleata con il sapere tecnico e scientifico e ha di fatto reso “asettica”, in teoria, qualsiasi punizione.
“Lo psichiatra è alleato di tutti”: per la parte custodiale in ragione del suo potere di alleviare l’onerosità delle misure inflittive, per i medici di guardia che possono prescrivere cautele nella consapevolezza che poi lo specialista raffinerà la prognosi assumendosene le responsabilità, per i detenuti che sanno che le limitazioni custodiali possono da questo essere modificate o annullate.
“La psichiatria si occupa di liberare il paziente dal sintomo in un contesto di non libertà”: questa la posizione più difficile da sostenere. Nel doppio legame declinato in carcere esiste una relazione, un rapporto intenso tra noi e il paziente, ma anche talvolta tra noi e gli agenti; dobbiamo saper distinguere il messaggio che viene comunicato, che noi comunichiamo e che ci viene comunicato, in modo da poter rispondere in modo appropriato, libero; spesso ci si trova “prigionieri” di una situazione dove si ricevono costantemente messaggi di ordine diverso (cura/sicurezza, cura/custodia), messaggi che sono spesso uno la negazione dell’altro; a quale messaggio rispondo? Alla libertà? Alla sicurezza? Al mi prendo cura di te? Mi prendo cura di me?
Siamo ampiamente coinvolti in questo “doppio vincolo istituzionale” e come sappiamo, ogni doppio vincolo genera follia, dissociazione, paralisi, sintomo.
Limite e mura⁵
Conosco Ciro-Pluto durante una delle sue ‘incursioni’ espressive sui muri della prigione. E la sua pittura, i suoi gesti, le sue immagini mi hanno accompagnato allora mentre ero in infermeria a visitare e oggi che immagino un suo rientro sul territorio.
Ciro non ha reso più piacevoli quei luoghi, ma ne ha esaltato la contraddizione e mostrato il paradosso. Mostra il paradosso di questo luogo del non senso attraverso murales che ci parlano: i primi volti che si incontrano sono infatti quelli di Nelson Mandela e di Madre Teresa di Calcutta. Ci accolgono sorridendo, ci accompagnano e ci salutano uscendo. Dopo i murales Ciro ha iniziato un suo percorso di pittura più privata e personale. Sperimenta colori e dimensioni inedite per lui, è alla ricerca di un suo segno che non rappresenti solo la necessità di lasciare una traccia ovunque si trovi (anche in una prigione), ma è la scoperta che l’opera non rappresenta solo il suo autore, ma è incarnazione di uno spirito del luogo e del tempo, del luogo della prigione-esclusione, del tempo bloccato e vuoto. Ciro parla della prigione, non solo quella materiale nella quale si trova, ma anche di quelle immateriali ed invisibili.
Le opere di Ciro hanno invaso la piccola saletta pittura che era diventata il suo atelier. Odore di vernice, fogli sparsi, arrotolati, grandi tele e tanti fogli, quaderni, con disegni, progetti e studi.
L’idea impossibile era quella di portare ‘fuori’ il lavoro che Ciro aveva prodotto ‘dentro’. La novità nella produzione di Ciro è proprio questo aspetto: se un tempo lavorava su muri, vagoni e saracinesche, quindi la sua dimensione era tutta pubblica (anche se non legale), oggi la sua pittura è per forza privata e reclusa. Ma proprio nella dimensione limitata dettata dalla detenzione Ciro ha sperimentato un nuovo linguaggio ed è cresciuto, come uomo e come artista.
Ciro ha articolato il linguaggio del writer che ben praticava in passato con una scelta pittorica inedita e teorizzata. Ci parla di prigioni, di quella materiale e di quella immateriale, ci parla delle relazioni, dei legami, dell’amore, parla di eventi di cronaca, accadimenti, cambiamenti storici, eventi politici, omofobia, bullismo, abusi di potere.
Il carcere ha dato forma a qualcosa che prima non riusciva a vedere, ma che c’era. Questa narrazione è sia personale che legata al suo territorio e quindi riguarda la storia e le ferite di una città (Napoli e provincia) e ha bisogno di trovare un contenitore, qualcuno che ne raccolga la testimonianza. Troppi pezzi mancano, troppe breve la memoria, e si fatica a immaginare un futuro dove l’aspirazione e il talento facciano legame con la terra, la città e le persone.
Un desiderio coltivato tra le mura e le porte chiuse. Il carcere paradossalmente diventa un luogo promettente di incontro trasformativo tra ‘possibile e impossibile’, proprio perché luogo che ospita i conflitti, li deve gestire, li riorienta, sperimenta la coabitazione tra soggetti diversi, culture e lingue diverse. Luogo dove pensare l’impensabile.
Desiderio di futuro: Hamza
Protagonista, come tanti dei detenuti tossicodipendenti e stranieri che abitano il carcere, dei cosiddetti ‘eventi critici’⁶. La maggior parte, se non la quasi totalità, degli eventi critici registrati sono messi in atto da persone seguite per tossicodipendenza e/o disagio psichico/psichiatrico e sono nella maggior parte detenuti stranieri. Sono “gli invisibili tra gli invisibili”, in quanto poco si conosce della loro storia pregressa, del loro paese d’origine, della storia migratoria, “africano, nord africano, maghrebino” si sente dire. E poi “tossico, spacciatore, delinquente”. Ma chi è il paziente protagonista degli eventi critici?
Nell’esperienza maturata in questi anni di lavoro in carcere ho appreso che quanto si dice del carcere, cioè che sia un “luogo profetico” e un “laboratorio sociale”⁷, è drammaticamente vero. Si apprendono le nuove dipendenze tra i pazienti tossicodipendenti stranieri, le nuove condotte di abuso e misuso dei farmaci psicotropi, si vede “prima” ciò che poi appare drammaticamente urgente nel territorio e che impatta su servizi ancora poco abituati ad accogliere e trattare queste nuove forme di dipendenza. Ascoltare i giovani poliabusatori di sostanze in carcere è una forma di apprendimento che nessun manuale può sostituire, perché le sperimentazioni viaggiano velocemente.
Hamza è un giovane uomo di origine tunisina. Proveniente da un altro istituto, nella sua giovane vita, 24 anni, ne aveva girati già 7-8. La sua ‘fama’ lo precedeva: tossicodipendente, psichiatrico, violento (aveva picchiato diversi poliziotti), ingestibile. Un caso difficile. I primi colloqui sono stati una contrattazione continua tra le sue richieste di vedersi riconosciute delle prescrizioni di farmaci che non potevo prescrivere (dei quali appunto abusava) e il tentativo di costruire una alleanza terapeutica, una progettualità. Proteste, minacce, agiti autolesivi erano all’ordine del giorno. Così anche i tentativi di Hamza di stordirsi con i farmaci, quindi intossicazioni, invii in PS.
Decido con la mia collega di raccogliere la sua storia e di andare oltre gli agiti.
Hamza arriva in Italia all’età di 15 anni, come minore non accompagnato. Incontra prestissimo le sostanze tra il gruppo di pari, le condotte illecite, lo spaccio, il reato violento che lo vede coinvolto. A 16 anni entra nel carcere minorile. A 18 anni il passaggio al carcere. Lo incontriamo che ha scontato 8 anni di carcere, metà pena. Questi anni sono stati caratterizzati da trasferimenti continui, da ricoveri e periodi di osservazione psichiatrica, abuso di psicofarmaci, agiti autolesivi. La sua famiglia, sua madre, è in Tunisia. Il padre lui non lo riconosce come tale, si è cambiato il nome, assumendo quello della madre e di uno zio. Hamza scappa da un passato pesante, da una storia pesante.
“Oggi cosa vuoi Hamza?
Come immagini il tuo futuro?
Cosa possiamo fare insieme a te per costruire il tuo futuro una volta uscito dal carcere?”
A queste domande Hamza si ferma, ci guarda e ci chiede: “Cosa significa futuro?”
Come spiegare a questo giovane uomo che il futuro lo attende, fra 6-8 anni uscirà dal carcere, che nel frattempo potrebbe studiare, imparare un mestiere. Futuro, una parola che incontrerà domani, un domani che dura ancora 6-8 anni.
Abbiamo allora chiesto ad Ignazio de Francesco⁸ di spiegarci l’origine della parola futuro nella lingua araba, per poterla a nostra volta spiegare ad Hamza.
“Futuro in arabo deriva dalla parola ‘qbal’, cioè accogliere; da questa deriva ‘maqbul’ cioè accettabile, accoglibile; e ancora ‘istqbala’ che comprende ‘ist’, cioè desiderio e ‘qbal’ accogliere, quindi istqbala significa desiderare di accogliere. Da qui la parola che traduce futuro, cioè ‘musaqbal’, il cui significato ultimo è quindi ciò che si attende di accogliere, il futuro è ciò che vuoi che ti venga incontro”.
Dopo questa spiegazione lo sguardo di Hamza si è aperto. Ha taciuto. Noi con lui.
Dopo, nei nostri colloqui, abbiamo smesso di parlare di farmaci, ricoveri e tagli, abbiamo cominciato a parlare di futuro.
“Mi dite ancora cosa significa futuro? Mi parlate di futuro?”.
Hamza ci ha fatto conoscere il rap tunisino e si è scoperto cantante e ballerino; è un giovane uomo, come spesso ne incontriamo in carcere, che compone una generazione di migranti che cercano il loro futuro nei paesi europei. Incontrare il futuro è una sfida e un rischio. Che riguarda anche noi che incontriamo e accogliamo. Un desiderio che si declina nel domani, dopo, nel futuro appunto.
Due storie che interrogano i nostri dispositivi di cura e di incontro, all’interno di limiti oggettivi e insostenibili. Declinazioni di desiderio, sia nei nostri pazienti (e non, perché ogni storia di r-esistenza in carcere è una forma di desiderio vivente) che in noi curanti, in una alleanza di destino e di sguardo, “da vita a vita”⁹ dove riconoscere e curare ciascuno il proprio desiderio.
¹ V. Morucci, Patrie galere, cronache dell’oltrelegge, Ponte alle grazie, 2008
² Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986
³ Erving Goffman, Asylums: le istituzioni totali. I meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, 1968
⁴ Il doppio vincolo (o doppio legame) si appoggia alle riflessioni di Bateson e indica una situazione in cui la comunicazione tra due individui, uniti da una relazione emotivamente importante, presenta una incongruenza tra il livello del discorso esplicito, verbale, e un altro livello non verbale (gesti, atteggiamenti, tono di voce); nel doppio vincolo la situazione è tale per cui il ricevente del messaggio non ha la possibilità di decidere quale dei due livelli sia maggiormente valido (dal momento che si contraddicono) e nemmeno di far notare l’incongruenza a livello esplicito.
⁵ Le due storie che riporto nascono dalla riflessione e dal lavoro in carcere che ho condiviso con Germana Verdoliva, collega ed amica preziosa. Abbiamo raccontato queste storie nel 2020 alla radio, Liberi dentro, il programma che da due anni collega carcere e comunità, nato dopo la chiusura delle attività per il contenimento del contagio da covid.
⁶ Con eventi critici si intendono i gesti autolesivi, i tentati suicidi, le risse, aggressioni, intossicazioni da farmaci, distruzione di oggetti
⁷ sono le definizioni di Gemma Brandi, psichiatra fiorentina che per oltre 30 anni si è occupata di psichiatria penitenziaria, e da Pietro Buffa, già direttore del carcere Le villette di Torino, ora provveditore per la regione Lombardia
⁸ Ignazio è monaco dossettiano, islamista, ha lavorato a lungo nel carcere di Bologna con i detenuti musulmani.
⁹ Questa espressione è di Ivo Lizzola