Desiderio e abitudine: per un’estetica ravaissoniana

Autore

Maria Grazia Portera
Ricercatrice in Estetica all’Università di Firenze. Si occupa di estetica evoluzionistica, estetica sperimentale, estetica ambientale. Ha collaborato alla nuova edizione della Storia dell’estetica occidentale. Da Omero alle neuroscienze, a cura di Fabrizio Desideri e Chiara Cantelli (Carocci, 2020) e ha pubblicato tra l’altro, L’evoluzione della bellezza. Da Darwin al dibattito contemporaneo (Mimesis, 2015); La bellezza è un’abitudine. Come si sviluppa l’estetico, (Carocci, 2020). È autrice di numerosi saggi scientifici apparsi in riviste internazionali.

In un passaggio assai suggestivo di Strada a senso unico, nel quadro di una riflessione sulla passione d’amore, Walter Benjamin mette in relazione bellezza, difetto e desiderio nei termini seguenti: «Abbacinata, la sensazione frulla come uno stormo di uccelli nell’alone splendente della donna. E come gli uccelli cercano riparo nei recessi frondosi dell’albero, così le sensazioni si rifugiano nelle grinze ombrose, nei gesti sgraziati e nelle piccole pecche del corpo amato, dove si acquattano al sicuro. E nessuno che passi di là indovina che proprio in questi tratti difettosi, criticabili, si annida il fulmineo impeto amoroso dello spasimante». Il breve, lucido stralcio suggerisce che particolari a tutta prima trascurabili, o francamente in-estetici, i quali al non-amante suonerebbero di pecca, ombra e mancanza di grazia, sono invero il luogo in cui s’annida l’amore; l’ordinario che non abbaglia è alimento del desiderio. 

L’idea che muove le righe seguenti, a partire dalla suggestione benjaminiana, è che qualcosa di simile a quanto accade nel caso di difetto e desiderio possa accadere anche per il rapporto tra abitudine e desiderio, persino al di là del focus specifico sulla passione amorosa. In ciò che è più routinario, più quotidiano, meno eclatante – e che cosa può mai darsi di meno eclatante e più ordinario dello strato abituale dell’esperire? – si affaccia, appunto, la potenza del desiderio. Questo, almeno, è quanto desumiamo da uno dei testi più affascinanti, e anche più profondi, dedicati a metà del diciannovesimo secolo al tema dell’abitudine: il De l’habitude di Félix Ravaisson, pubblicato in prima edizione in Francia, a Parigi, nel 1838 (in traduzione italiana: L’abitudine, a cura di M. Portera, Morcelliana, Brescia, 2022). 

S’è fatto molto parlare, di recente, del tema dell’abitudine. Tanto in Italia quanto all’estero abbiamo assistito nell’ultimo decennio a una vera e propria esplosione (o ri-esplosione) d’interesse per il tema della componente abituale del vivere. “Ri-esplosione” perché, in effetti, l’abitudine ha rappresentato per lunghissimo tempo un luogo prediletto di esercizio del pensiero (non solo filosofico, ma anche sociologico, antropologico, politico, estetico…). L’oblio in cui cade la nozione risale solo ai primi decenni del Novecento e poi più spiccatamente alla metà del secolo, in concomitanza con l’affermarsi di posizioni computazionaliste e rappresentazionaliste in senso forte dei processi della mente. È con la crisi di questo modo d’intendere l’attività cognitiva umana, anche per l’imporsi del paradigma della 4e cognition (embedded, embodied, enactive, extended), che l’abitudine riguadagna il centro del dibattito (cfr. ad esempio il lavoro di Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, 2010).

Come mostrato dagli studiosi (si veda Clare Carlisle, On habit, 2014), il concetto di abitudine è essenzialmente bifronte, nel senso che nel corso della storia della filosofia occidentale è stato fatto a un tempo oggetto di interpretazioni in senso positivo (ad esempio da Aristotele e David Hume) e negativo (ad esempio da Spinoza e Kant). Già con il Settecento inglese e poi più esplicitamente con lo spiritualismo francese della prima metà dell’Ottocento si afferma quella che è nota come “la doppia legge dell’abitudine”, cioè l’idea secondo cui esistono almeno due tipologie di abitudine, una passiva (le abitudini che contraiamo per esposizione, senza un determinante intervento intenzionale da parte nostra; ad esempio, l’esposizione continuata al rumore cittadino in un appartamento esposto al traffico, che finisce per diventare sottofondo abituale della vita quotidiana) e una attiva (per la quale la dimensione della pratica intenzionale è rilevante; ad esempio, la pratica abituale di esercitarsi al piano tutti i giorni per raggiungere l’eccellenza nel suonare). L’effetto della ripetizione è differenziato per la prima e la seconda. Lo stesso Ravaisson, attingendo a modelli butleriani e poi soprattutto biraniani, mette in luce che «dappertutto e in ogni circostanza, la continuità o la ripetizione, cioè la durata, indeboliscono la passività ed esaltano l’attivit໹. Questo significa che le abitudini passive (cioè le sensazioni passive ripetute) tendono con la durata a stimolare un tipo di reazione sempre più attenuata nel soggetto, lambendo vieppiù le soglie della sub-consapevolezza; le abitudini attive, invece, con la ripetizione e la durata acquistano sempre maggiore velocità e prontezza. Leggiamo per esteso l’ultimo passaggio citato:

dappertutto e in ogni circostanza, la continuità o la ripetizione, cioè la durata, indeboliscono la passività ed esaltano l’attività. Ma in questa storia contraria di due potenze opposte c’è un elemento comune, e questo spiega tutto il resto. Tutte le volte che la sensazione non è dolorosa, nella misura in cui si prolunga o si ripete – e nella misura in cui, di conseguenza, svanisce –, essa diventa sempre più un bisogno […]. D’altra parte, man mano che lo sforzo si attenua nel movimento e che l’azione diventa più libera e pronta, essa diviene sempre di più una tendenza, una inclinazione che non aspetta più l’ordine della volontà ma piuttosto lo anticipa, e che spesso, persino, si sottrae interamente e irrimediabilmente alla volontà e alla coscienza. Così, la continuità o ripetizione dà origine a una sorta di attività oscura che anticipa sempre più, da una parte, l’impressione degli oggetti esteriori nella sensibilità, dall’altra parte il volere, nell’attività².

Qui interviene, come appare subito chiaro, un elemento ulteriore rispetto alla semplice enunciazione della doppia legge. Infatti, con grande originalità Ravaisson sostiene che l’indebolirsi della ricettività, da un lato, e il rafforzarsi della spontaneità, dall’altro, sono il prodotto di un’unica forza, “spontaneità irriflessa” o “attività oscura” o “desiderio”, all’opera tanto nelle abitudini attive quanto in quelle passive. Il desiderio è per Ravaisson l’unica fonte da cui si alimentano e traggono linfa tanto le dipendenze (abitudini passive, mera esposizione) quanto le pratiche virtuose (allenamento e percorso per l’eccellenza): desiderio come dipendenza o – ma forse è lo stesso – desiderio come tendenza progressiva. 

Documentare in vivo questa matrice desiderante delle abitudini passive e attive non è difficile. Si pensi ad esempio, nel caso delle abitudini passive, a come l’esposizione ripetuta a uno stesso stimolo (il rumore cittadino cui si è fatto cenno prima) da un lato smussi, secondo quanto già visto, l’intensità della reazione dell’organismo all’azione dello stimolo, ma dall’altro anche produca gradualmente un desiderio per lo stimolo stesso, che giunge al suo apice quando lo stimolo è sottratto; così si spiegano i fenomeni di addiction. Nel caso delle abitudini attive, invece, l’incremento progressivo dell’abilità nell’eseguire una certa azione (ad esempio suonare una determinata sequenza al pianoforte) va di pari passo con la diminuzione del ruolo della volontà cosciente nella coordinazione dell’azione stessa; l’azione – con sempre minore sforzo – è come voluta (e reiterata) spontaneamente dal soggetto, in maniera irresistibile e sempre più inconsapevole. Il “desiderio” in cui si radicano abitudine passiva e attiva, dunque, è portato allo scoperto da continuità e ripetizione ma finisce per orientare esso stesso, come causa e non come effetto, a ripetizione e continuità. 

Più nello specifico, l’attività oscura agisce da un lato anticipando la passività, cioè la rappresentazione soggettiva della modificazione da parte di un oggetto esterno (non può anticipare l’azione dell’oggetto, ma può anticiparne il grado) e, dall’altro, rendendo più facile e ai limiti dell’involontario l’attività, cioè mutandola in una tendenza; in questo senso, quello che era mera passività (della sensazione) diventa attività – cioè anticipazione della componente soggettiva della sensazione; quello che era pura attività volontaria (pratica volontaria) si tinge di passività. È ciò che s’intende quando diciamo che contraendo un’abitudine naturalizziamo la nostra volontà, cioè la facciamo apparire come se fosse natura, e che abituando il nostro agire estendiamo il dominio della volontà, applicandola a territori che erano (o apparivano) “natura”. Emerge, qui, il focus ravaissoniano sulla caratteristica di medium dell’abitudine: «l’abitudine è il limite comune, o termine medio, fra la volontà e la natura; ed è un termine medio mobile, un limite che si sposta di continuo, e che avanza con progressione insensibile da una estremità all’altra»³. Le conseguenze di questa idea ravaissoniana per un’estetica del desiderio e dell’abitudine sono rilevanti. Parafrasando il Benjamin di apertura, nessuno si aspetterebbe che proprio in quei tratti di mera esposizione passiva che rasentano il meccanismo cieco, al pari delle pratiche intenzionali di ripetizione ed esercizio virtuoso, si annidi la potenza del desiderio (anzitutto come addiction). Anche qui torna in primo piano la duplicità di volto, e di segno, dell’abitudine, almeno in quanto ciò che è esteticamente significativo e ci attrae con la sua bellezza, facendosi desiderare, emerge in maniera non del tutto preventivabile dalle pieghe della quotidianità annichilata, così come dei più alti cammini d’eccellenza. Il desiderio ha nell’abitudine non il suo mero antagonista o contrario (no, l’abitudine non “uccide il desiderio”) bensì, a ben vedere, trova in essa il benjaminiano anfratto ombroso in cui acquattarsi al sicuro e da cui spiccare un salto, “sciogliendo le membra”, al primo vacillare o scomporsi dell’abitudine attivo-passiva. Desiderio e abitudine, in questo senso, sono due facce della stessa medaglia.

¹ F. Ravaisson, L’abitudine, tr. e cura di M. Portera, Morcelliana, Brescia 2022, p. 84.

² Ibidem

³ Ibi, p. 93.

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