Dialogo con Mohamed Ba, attore, formatore, mediatore culturale, musicista
Mohamed lei è nato in Senegal. C’è nelle culture africane un posto per il desiderio? E qual è l’immaginario che spinge a cercare ciò di cui si avverte la mancanza?
Per la cultura negroafricana: ieri se n’è andato, oggi è un dono, domani è da costruire, il legame forte tra passato e presente sprona il soggetto a mettere le scarpe e a incamminarsi. Si cresce con la convinzione che chi vuole qualcosa si mette in cammino, ma chi sta seduto cerca solo scuse. Ciò ha fatto sì che spesso i desideri sono limitati perché – semplicemente – il futuro è sempre da costruire, attimo dopo attimo. Non ci si proietta più in là nel tempo, si crede che è nella vita materiale che noi viviamo, che siano a disposizione tutte le materie prime per costruire la vita futura. Ma questa non è legata solo alla materia organica, ma per la vita nel pluriverso: questo è il campo dove puoi seminare ciò che andremo a raccogliere nel pluriverso.
Gli africani difettano in pianificazione e progettualità, lei dice. Non crede che questo “limite” culturale si possa rileggere oggi come fattore critico di un pensiero unico omologante, diffuso in Occidente, che tende a rassicurare rimuovendo l’incertezza e l’inedito dalla nostra esistenza, finendo per ammazzare il desiderio?
Nella cultura africana “il domani non è di mia competenza”. Il mio compito si limita ad attingere dal serbatoio chiamato passato, ad aggiornarlo nel presente, aggiungendo a ciò che mi sono portato dal passato, le esperienze condivise insieme ai miei contemporanei, e assieme a quello augurarmi che il momento del raccolto sia ben riuscito. Il desiderio del singolo non esiste, semmai c’è il sogno di condividere e diffondere la felicità nell’ambiente che ci circonda, che non è riferito solo agli uomini, ma è riferito innanzitutto alla natura. Chi vive in un mondo sano non può ammalarsi. Parliamo perciò di quella correlazione per cui il desiderio si gioca nell’ambito dell’altro, dell’al di là, dell’altro con la A maiuscola, l’altro che non possiamo gestire e che ci condiziona e l’altro che ci premia per quanto siamo stati bravi e lungimiranti nel cogliere le materie prime giuste, per comporre il quadro completo, ciò ci permetterà di diventare uomini completi nell’universo che ci accoglie.
C’è un aspetto del desiderio che è legato al dolore, che può essere ben rappresentato dalle traversate disumane intraprese dai migranti alla ricerca di alleviare un’esistenza insopportabile per sé e per la propria famiglia. Tantissimi tra loro hanno perso la vita desiderando non delle cose, ma la vita stessa. Non le sembra un grande paradosso?
Io penso che l’essere umano non sia l’attuazione di un algoritmo, ma sia un’alterità selettiva, ovvero noi siamo il risultato di quello che l’antropologia ci ha lasciato, da cui attingere per proiettarsi nel futuro essendo anche capaci di fotografare il contesto sociale culturale, politico e religioso nel quale siamo nati e cresciuti. Tutti noi aspiriamo ad essere felici, e meglio ancora esserlo circondati dai propri affetti ed effetti. Come però dicevano i vecchi, “se la scimmia trovasse in cima all’albero tutto ciò di cui ha bisogno mai e poi mai sarebbe scesa per terra”. Noi migranti a un certo punto siamo stati costretti a rileggere il senso dell’esistenza nostra: non c’è violenza peggiore che svegliarsi al mattino e incrociare il volto lacrimato della madre, che ti dice che è impossibilitata a sfamarti; non c’è peggiore violenza di nascere in un paese ricco nel quale chi dirige ha dimenticato che governare sia servire e non servire i propri interessi. Fa molto male soggiornare in una terra dove è l’avere che condiziona l’essere a un punto tale che chi “non ha non è”; fa molto male svegliarsi in una casa e vedere il pane, sapendo che quel pane è arrivato a te perché tua sorella è stata costretta a vendere il suo corpo non sopportando più di vedere i fratelli affamati. Allora vivere in una situazione del genere è come morire, quindi in quelle terre, quelle persone che vediamo in movimento, sono dei morti che camminano. Allora per cercare di risorgere facciamo finta di non avere radici sotto i nostri piedi, ma di avere gambe; allora ci mettiamo in cammino alla ricerca della nostra terra promessa, che però non sappiamo dove sia esattamente.
Alla ricerca della terra promessa, spesso si può finire anche in una terra inospitale, che riproduce situazioni di violenza e schiavitù verso i migranti; anche in Italia conosciamo realtà del genere, purtroppo. Lei stesso diversi anni orsono subì un’aggressione con accoltellamento nel centro di Milano. Ma come è possibile, mi chiedo, sopportare così tanto dolore e umiliazione?
Chi cerca trova, l’augurio è trovare la terra giusta e trovare le risposte ai tuoi bisogni, per tirare fuori la tua famiglia dalla precarietà nella quale imperversa da tanto, troppo, tempo. Il desiderio è anche quello di essere nelle condizioni di rinunce personali, per accontentare e fare stare meglio la cerchia famigliare. E’ l’alterità che ci guida. Ciò che per la mente umana è insostenibile, ad esempio quanto accade a Rosarno, a Gioiosa Ionica, e nei campi dove i migranti sono ridotti in situazioni di schiavismo, i migranti stessi vanno oltre il loro quotidiano vissuto perché ambiscono semplicemente a sanare e lenire il dolore delle loro famiglie rimaste al paese di origine. Non importa se quì lavoro come un “negro” e se non riesco a mangiare abbastanza, e non ho un tetto per dormire, l’importante è garantire la famiglia rimasta a casa. La famiglia del migrante diventa un’ancora di salvataggio, e perciò è obbligato ad annullare se stesso.
L’integrazione è una ferita già nel linguaggio che la connota; il dizionario la definisce “un’incorporazione di una certa entità etnica in una società”. Al riguardo si legge nella testata del suo Blog (https://mohamedba.eu/): “mi muovo anche con la consapevolezza che il tronco d’albero in acqua ci sta secoli e non per questo diventa un coccodrillo”.
Ritrovarsi in un paese straniero non per visitarlo e guardare i musei né per gustare i cibi locali, ma per costruirti un futuro non è semplice. A casa tua basta guardarti intorno per ricordarti quello che sei e quello che ti manca, cioè il catalogo delle tue cose. Mentre quando sei altrove non riconosci niente di tuo e diventi un’altra persona, e tra le difficoltà maggiori vi sono il non capire ciò che si dice e il non poter dire cosa si prova, il non saperti difendere e a quali riferimenti puntare per trovare una via percorribile per favorire la tua inclusione. Perciò diventi doppiamente straniero.
Il migrante due volte straniero. In che senso?
Sei già straniero per la tua famiglia, perché hai voltato loro le spalle: nella loro visione tu sei colui che finalmente ha raggiunto la terra promessa, per cui da qui a poche ore le lacrime saranno tutte asciugate, da qui a poche ore avremo da mangiare a sufficienza, da qui a poche ore vivremo nel paradiso. E dall’altra parte ti ritrovi in mezzo a persone che non ti riconoscono, che non vedono te come la vittima e la conseguenza di scelte politiche scellerate, ma addirittura ti additano come causa e fautore del loro malessere, a causa della loro insicurezza; diventi un essere umano senza sostanza, un numero insignificante, indegno anche di diventare una percentuale. In questa situazione, il desiderio è voler essere visto come un essere umano e sentire che qualcuno che si renda disponibile a regalarti una cosa molto semplice, che non costa tanto, cioè a dirti un “ciao come stai”.